539_MOTORPSYCHO! ; Stati Uniti 1965. Regia di Russ Meyer.
Il precedente lungometraggio di
Russ Meyer, Mudhoney, nella sua seconda e definitiva edizione,
aveva ottenuto un relativo successo ma aveva al contempo avuto problemi con la
censura, per via delle scene di sesso, tanto che ci fu chi lo considerò alla
stregua di un film pornografico. Probabilmente questi contrattempi influirono nelle
scelte artistiche di Meyer anche se, in quel 1965, il regista dirigerà altri
due film, Motorpsycho! e Faster, Pussycat! Kill!
Kill! e quindi non deve aver avuto troppo tempo per ponderare a lungo le
sue scelte. Chissà che l’evoluzione del suo stile non sia stata anche legata ad
una ricerca che soddisfacesse il suo gusto artistico, sebbene è
indiscutibile che l’indispensabile riscontro del pubblico, unito alla necessità
di scansare le noie della censura, siano state due coordinate certamente
privilegiate. In ogni caso, se l’elemento sessuale, in parte aggiunto in un
secondo tempo, era stato probabilmente la chiave del parziale successo di Mudhoney, forse
in seguito ai problemi che fece scaturire come conseguenza, nel
successivo Motorpsycho! Meyer propende per dare meno spazio
alle scene piccanti in favore di quelle violente. Memore del tenore
eccessivamente opprimente che rischiavano di avere i suoi racconti, che per far
funzionare aveva appunto alleviato con le scene spinte, e non volendo stavolta
ricorrervi, invece di sollevare il piede dal pedale della violenza, decide di
spingerlo ancora più a fondo. L’idea è quella di stilizzare l’uso della violenza
con un’ottica tanto eccessiva da sembrare iperrealista.
E non solo: se in
precedenza il quadro morale era ancora ben delineato, in Mudhoney, ad esempio, già solo con l’ambientazione durante la Grande
Depressione che con il suo carico di povertà e miseria legittimava, in un
certo senso, il diffuso disagio di cui era intrisa la storia, in Motorpsycho! siamo
di fronte ad una situazione ben diversa. I tre protagonisti, Brahim (Stephen
Oliver), Dante (Joseph Cellini) e Slick (Thomas Scott) sono tre sfaccendati che
scorazzano per il contemporaneo southwest
americano a bordo di ciclomotori, in cerca di avventure e violenza. Già in
questi pochi elementi ci sono alcuni spunti interessanti del film: innanzitutto Motorpycho! anticipa I
selvaggi di Roger Corman e Easy Rider di Dennis
Hopper, le opere principali nella cosiddetta bikexploitation, la corrente che narrava delle gesta dei centauri
degli anni 60/70.
In realtà Meyer appare quasi più maturo, se così
si può dire, dei suoi epigoni, in quanto i suoi motociclisti, che viaggiano in
sella a ciclomotori e non a impressionanti chopper,
sembrano più caricature che figure mitologiche. In pratica è come se quella di
Meyer fosse già la farsa, un’evoluzione che in genere avviene a posteriori, di
una corrente cinematografica ancora in divenire. Tuttavia ci sono altri elementi
in cui Meyer dimostra di avere una particolare lungimiranza: Brahim, il leader
del gruppo oltre quello con i problemi psicologici più seri, è un ex
combattente del Vietnam, e anche questo aspetto, il disagio dei veterani della
cosiddetta guerra sporca, diverrà un
tema diffuso ripreso in moltissime e ben più importanti opere.
I suoi compagni
hanno caratteristiche diverse, ma sempre con rimandi alla realtà: Dante è un
edonista che sembra essere rimasto agli anni 50 mentre più contemporaneo
all’epoca è Slick, una persona insulsa che sommerge tutto con la musica
psichedelica della sua radiolina. Ci sono quindi anche in Motorpsycho! delle giustificazioni sociologiche al disagio alle
spalle dei tre protagonisti, ma in apparenza solo il Vietnam per Brahim può
essere inteso come una solida fonte di disturbo per l’individuo. In realtà la
vacuità di Dante o la superficialità di Slick, che chiama la madre e la
rassicura nel bel mezzo delle loro scorrerie, sono indici di problemi sociali
più profondi proprio perché apparentemente non hanno motivazioni concrete alle
spalle.
E poi, i motociclisti di Easy
Rider potevano vantare, anche solo a livello iconico, l’ambizione ad essere
i paladini della libertà contro il conformismo del sistema, in sella alle loro poderose motociclette che ricordavano i
cavalli dei cow boys del far west. I
tre disagiati di Motorpsycho! sono
piuttosto tre balordi che nell’uso del ciclomotore colgono i vantaggi di
potersi rapidamente spostare alla ricerca di qualche vittima della loro
insensata violenza. Devono andare a Las Vegas, luogo di perdizione per
definizione, ma la semplice opportunità di un po’ di divertimento trovato a portata di mano li fa cambiare destinazione.
Il caso c’entra, quindi, ma i nostri non vengono indotti in
tentazione mentre, per esempio, si recano al lavoro, ma quando sono sulla via
per Vegas, la città del vizio: insomma, non hanno alcuna giustificazione. Sulla
loro strada i tre baldi giovanotti trovano dapprima una coppia sulle rive di un
fiume: l’uomo cerca di difendere la ragazza, ma viene pestato duramente, poi
Brahim approfitta della giovane.
La scena non contiene particolari aspetti
piccanti, se non alcune riprese della ragazza in costume due pezzi mentre
prende il sole, mentre sul piano della violenza questa è certamente più
esplicita sebbene non particolarmente fuori dall’ordinario. Se non per il
fatto, comune e ripetuto nel cinema di Russ Meyer, che la violenza viene
esercitata sugli uomini e sulle donne allo stesso modo, non c’è infatti alcuna cavalleria nelle scene violente e, anzi,
si può scorgere un nesso tra violenza e sesso che quindi finisce per
enfatizzare maggiormente gli scontri misti rispetto alle scazzottate virili. Il
sadismo degli uomini è evidente mentre per le donne, più che di masochismo, si
può notare una spiccata vena esibizionista atta a stimolare e stuzzicare
l’altro sesso. Manca, in Motorpsycho!, il fascino per l’uomo
violento, che era invece in parte presente in Mudhoney, mentre nel
successivo Faster, Pussycat! Kill! Kill! Meyer ribalterà i ruoli sadomasochistici che, in effetti, hanno in genere una funzionalità,
diciamo, bidirezionale.
Questo a testimonianza che non c’è, nel suo intento,
una subordinazione della donna all’uomo in senso politico sociale. E’ la
semplice costatazione che la violenza è affascinante perché è connessa al sesso
e, quindi, si può dire che i cosiddetti due temi del cinema di Russ Meyer del
cosiddetto ciclo gotico (da Lorna a Faster,
Pussycat! Kill! Kill! ) siano in effetti sovrapponibili. Tornando a Motorpsycho! dopo il citato stupro
introduttivo, comune ai due precedenti film, entra in gioco il protagonista
morale della storia, Cory Maddox (Alex Rocco) veterinario sposato con Gail
(Holle K. Winters). Mentre si reca dall’avvenente Jessica Fannin (l’esuberante
Sharon Lee) per visitare la sua giumenta, a casa sua irrompono i tre
psicopatici motorizzati.
Così, in montaggio alternato, assistiamo alla violenza
sulla povera Gail, mentre la fedeltà coniugale di Cory è messa a dura prova
dalla avances di Jessica; l’uomo, ceduto ad un unico bacio, riesce poi a
resistere alla tentazione anche se per farlo deve allontanarsi rapidamente
dalla focosa allevatrice di cavalli. La povera Gail non può invece sottrarsi al
suo destino e finisce davvero malconcia, tanto che se in un primo momento
sembra essere sopravvissuta, poi viene addirittura data per morta. Questa, che
sembra essere a tutti gli effetti un’incongruenza della trama, in un certo
senso certifica, col suo essere un evento raro in Meyer, la relativa bontà di
queste strutture narrative del regista californiano, nel complesso abbastanza
plausibili. A questo punto Cory si lancia alla ricerca dei tre balordi, mentre
lo sceriffo, interpretato dallo stesso Meyer, appare meno intraprendente.
Qui
c’è forse una divertente dichiarazione programmatica del regista: il suo
personaggio, mentre si sofferma a guardare sotto la coperta della povera Gail, (e
viene anche sgridato per questo dal medico dell’ambulanza), non pare troppo
propenso a mettersi in caccia dei malviventi. Come dire: come già dietro la
macchina da presa, anche nelle vesti di attore Meyer è più propenso a
contemplare le bellezze femminili piuttosto che imbastire azioni avventurose. Un’altra
conferma di questa tendenza metalinguistica del regista in quest’opera
l’abbiamo anche dalle parole di Ruby (la conturbante Haji) che, per
giustificare la sua storia intrisa di sesso e violenza, rivolta a Cory commenta
acida: “che ti aspettavi, la storia di
Fanny Hill?”, facendo riferimento al tentativo, fallito, di Meyer di
entrare nella Hollywood mainstream (La cugina Fanny, 1964).
Tornando alla
storia, vista l’indolenza dello sceriffo, Cory si mette ad investigare in
proprio e sulla pista dei motorpshyco
l’uomo incontra così la suddetta Ruby, vittima, insieme all’anziano marito,
della furia tre: il vecchio c’è rimasto mentre lei, fortunosamente, l’ha
scampata. Nel finale, in uno scontro tipicamente western che rende omaggio
all’ambientazione, Cory sconfigge, a suon di dinamite, Brahim e convola a lieto
fine con Ruby (con buona pace della moglie Gail che, per altro, a quel punto
viene data per morta). Il film pur avendone molte occasioni, nelle scene degli
stupri, non indugia particolarmente sulla sponda erotica e anzi, c’è un
passaggio emblematico delle scelte del regista. Nel loro inseguimento ai tre
folli delinquenti, Cory e Ruby si imbattono in un serpente che morde la gamba
dell’uomo. Il momento è drammatico perché, se non viene estratto il veleno
rapidamente, per Cory non ci sarà scampo; per questo motivo il morso viene
inciso per tempo con il coltello, ma non basta.
Occorre impedire al veleno di
entrare in circolo e così l’uomo intima in modo più che energico alla
spaventatissima Ruby di succhiarlo fuori: è una scena violenta nei modi e anche
negli evidentissimi rimandi ad un rapporto orale di natura sessuale. Nonostante
ciò che viene mostrato sia del tutto giustificato dalla trama, la concitazione
dei drammatici momenti è legata alla paura che il veleno faccia effetto, è
evidente il gioco che Meyer intesse con il pubblico per aggirare i problemi di
censura. Si tratta di un’enfatizzazione di elementi tipici del cinema anche
classico, che spesso aveva usato queste metafore visive (tipo un treno che
entra in una galleria) per aggirare i problemi della censura. In Motorpsycho! ce n’è uno smaccato esempio
quando, durante le scene della violenza su Gail, il montaggio alternato propone
la pistola della pompa di benzina che si infila nel serbatoio del furgone di
Cory. In questo caso è il classico semplice rimando, quella successiva al morso
del serpente è invece un’intera sequenza costruita appositamente alla bisogna.
Nella quale, la natura scherzosa di matrice metalinguistica, con regista e
spettatori che se la intendono, smorza la violenza insita, che diventa quindi
evidentemente doppiamente posticcia, visto che è una finzione nella finzione. E’ in fondo questo il vero passaggio
chiave di Motorpsycho!, ovvero quando
il regista apre finalmente una strada per comunicare col pubblico aggirando i limiti
della censura, non soltanto con qualche sporadico spunto, ma con l’intera sua
opera.
Russ Meyer ha finalmente trovato
la formula del suo cinema.
Haji
Sharon Lee
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