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sabato 22 febbraio 2020

NEVE ROSSA

525_NEVE ROSSA (On dangerous ground); Stati Uniti, 1951. Regia di Nicholas Ray.

Dopo la parentesi bellica con I Diavoli Alati, Nicholas Ray ritorna ai temi congeniali del suo inizio carriera con Neve rossa, un poliziesco immerso nelle atmosfere noir. Ma, nel 1951 era già uscito Giungla di asfalto (1950, regia di John Huston), la guerra era finita da un pezzo, quel tipo di inquietudini che avevano contribuito alla nascita del noir erano scemate o lo stavano facendo, anche se avrebbero lasciato presto il posto ad altre; in ogni caso il genere aveva passato il suo apice. Ovviamente ci saranno ancora moltissimi esempi di film noir di eccezionale valore, ma il loro tempo naturale era scaduto. Sarebbe stato difficile, d’ora in poi, fare noir d’attualità con continuità, con ambientazioni che fossero contemporanee; forse l’esempio migliore in tal senso fu il polar francese. Quello che si potrà fare, e Ray è sagacemente in anticipo sui tempi, è una riflessione sul periodo, una sorta di bilancio su quello che ci ha lasciato in eredità il genere nel suo momento culminante. Il che potrebbe far pensare ad un’opera metalinguistica, ma Ray sceglie invece una storia puramente di narrazione, soltanto che la manovra in modo smaccatamente di comodo. Piuttosto che mostrare un lungometraggio in cui il cinema rifletta in modo evidente su sé stesso, il regista prende i personaggi e li sposta con pretesti e tempi narrativi un po’ artificiosi, ma allo scopo di metterli alla prova fuori dal loro contesto filmico tipico. Neve rossa comincia infatti come un poliziesco, anzi meglio, come un crime-movie, visto che il protagonista, Jim Wilson (il grande e beffardo Robert Ryan) è un agente di polizia con modi e sistemi da gangster. 

Il titolo originale, On dangerous ground, pur facendo riferimento al terreno scosceso e insidioso che è fatale al fuggitivo nella scena cruciale, indica in modo assai più pertinente la strada intrapresa da Wilson e dai molti giustizieri in divisa, del cinema ma non solo. Wilson è un duro, uno che va per le spicce; in effetti Ryan spesso è stato utilizzato come personaggio negativo, al cinema. Per stigmatizzare questo comportamento violento, inaccettabile per un tutore dell’ordine, non servono a molto le ramanzine dei colleghi o dei superiori; intendiamoci, ci sono anche in Neve rossa ma, volendo, sono uno dei cliché del genere. Il rischio, di cui si è accorto Ray, è che la violenta situazione delle città americane negli anni 40 ci abbia abituati al fatto che la polizia utilizzi sistemi sbrigativi e assai poco ortodossi per combattere il crimine. 

Soprattutto al cinema si è troppo spesso spacciata l’idea che la violenza possa essere combattuta solo con altra violenza; e chi si opponeva a questa deriva, nei film del periodo, spesso lo faceva per interesse proprio, perché era un superiore corrotto quando non direttamente in combutta coi criminali. Ray decide così di uscire dal cortocircuito che le consuetudini del genere cinematografico hanno creato: forse Wilson può anche essere accettabile, come poliziotto violento, nella classica città americana, più che altro per come siamo abituati ad intendere la questione al cinema. E allora ecco che l’agente viene trasferito su un terreno opposto: in campagna, in un’area impervia e ben poco abitata. Se i suoi metodi sono corretti, lo saranno anche lì, sembra implicitamente dire in modo provocatorio Ray. Invece Wilson si trova di fronte uno scenario anche più brutale, perché primitivo: hanno ucciso la figlia di Walter Brent (War Bond) e l’uomo ora vuole farsi giustizia da sé, con le sue mani, precisamente con la propria doppietta. Senza troppe indagini, approfondimenti o processi: giustizia, Brent vuole farsi giustizia che, secondo la sua logica, significa che vuole la pelle di Danny (Sumner Williams). Il che non dovrebbe nemmeno urtare troppo Wilson, visto che si tratta soltanto di un’estremizzazione dei suoi stessi metodi: brutale e feroce, per via della rabbia del padre della ragazza uccisa, ma nella sua essenza non troppo diversa. Eppure Wilson, che ironicamente viene scambiato da Brent per il classico burocrate cittadino, vacilla, di fronte alla sete di violenza del campagnolo. 


Sono i frutti, narrativi beninteso, dell’esperimento metalinguistico di Ray: mettere un elemento fuori dal proprio contesto di genere, e vedere come reagisce. E’ più che plausibile, infatti, che un risoluto giustiziere di città, di fronte alla primitiva aggressività di un uomo inferocito come Brent, si renda conto di quanto i suoi stessi sistemi di poliziotto spietato lo stiano facendo tornare alla barbarie. E, proprio in ossequio a questo modo consapevole, da parte di Ray, di gestire la storia, solo a questo punto, è introdotta la protagonista femminile del film, Mary Malden (Ida Lupino), sorella dell’assassino. La ragazza è cieca, e vive da sola; il fratello è un ragazzo con problemi, che probabilmente lo hanno anche indotto su una strada pericolosa che lo porterà prima a divenire un assassino, poi a morire tragicamente. Come si vede, Ray, autore intellettualmente onesto, pur in una critica alla vita metropolitana, di cui la gestione dell’ordine è uno degli aspetti cruciali, non edulcora la vita di campagna. Affatto: poliziotti bonari ma inefficienti, padri violenti e vendicativi, famiglie omertose, giovani disabili o con problemi abbandonati al proprio destino. Ma torniamo alla ragazza: Brent e Wilson arrivano alla sua casa e notano una luce accesa, al piano di sopra, che subito si spegne. Quando entrano nell’abitazione di Mary, Wilson si rende conto che la ragazza è una non vedente, mentre Brent, accecato dalla furia, perquisisce e rovista dappertutto. 

Ray ha predisposto una situazione davvero ben congegnata: è evidente che la ragazza sia veramente cieca e non faccia finta, e questo la mette su un piano di estrema vulnerabilità e debolezza ma, al contempo, ragionevolmente la scagiona dall’essere in qualche modo implicata nel delitto. In città abbiamo visto, o meglio intuito, Wilson maltrattare anche donne di malaffare, pur di farle cantare; sapendo, e costatando di persona, che poi la malavita avrebbe punito in modo letale chi avesse parlato. Ma infischiandosene. Potrebbe ora avere lo stomaco di prendersela anche con Mary? Una luce accesa, in casa di una cieca, indicava chiaramente che c’era qualcuno, e quindi la ragazza mentiva quando diceva di essere stata da sola. Il fatto che la ragazza non sia in grado di vedere la pone su un piano di estrema debolezza, ma è tutta la situazione che la espone senza alcuna infrastruttura che le offra un qualche riparo. 

Se le persone che si ponevano fuori dalle istituzioni nella realtà cittadina potevano trovare asilo nella criminalità, facendosi scudo con essa, Mary (e Danny) non hanno niente a cui affidarsi. Emarginati per via dei loro problemi fisici, sono abbandonati al loro destino; Wilson sa che Mary mente, ma non deve nemmeno sforzarsi perché lei crolla quasi subito, cercando in lui, tutore dell’ordine, un baluardo a cui affidare la salvezza del fratello. Forse, il fatto che sia cieca, è una piccola nota metalinguistica: oltre alla vulnerabilità, Ray sottolinea la sua verginità dello sguardo che, raccontata proprio al cinema, assomiglia ad una sorta di autocritica. Alcune idee stereotipate su come combattere il crimine organizzato nelle grandi città sono state veicolate anche grazie ai film: non vederle, ha reso Mary pura e innocente. Ovviamente, a questo punto, il lieto fine è dietro l’angolo. 

Wilson si redime e Mary trova un compagno e un aiuto; anche Brent, alla fine pare rinsavito. Ma c’è un prezzo da pagare. Danny muore: Brent ha avuto la sua giustizia che, guardando il ragazzo morto, non gli sembra più così giusta; Wilson, da parte sua, deve ammettere il fallimento. La donna che ama gli aveva chiesto di salvare il fratello; ma salvare qualcuno è assai più difficile che farlo fuori e così, la nuova vita professionale di Wilson, comincia con un fallimento. Beffardamente da contrapporre ai ripetuti successi a suon di soprusi del tempo precedente. Il rispetto delle regole è un terreno forse meno pericoloso di quello del giustiziere, ma più arduo e difficile. 





Ida Lupino



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