525_NEVE ROSSA (On dangerous ground); Stati Uniti, 1951. Regia di Nicholas Ray.
Dopo la parentesi bellica con I Diavoli Alati, Nicholas Ray ritorna ai temi congeniali del
suo inizio carriera con Neve rossa,
un poliziesco immerso nelle atmosfere noir.
Ma, nel 1951 era già uscito Giungla di
asfalto (1950, regia di John Huston), la guerra era finita da un pezzo,
quel tipo di inquietudini che avevano contribuito alla nascita del noir erano scemate o lo stavano facendo,
anche se avrebbero lasciato presto il posto ad altre; in ogni caso il genere aveva passato il suo apice.
Ovviamente ci saranno ancora moltissimi esempi di film noir di eccezionale valore, ma il loro tempo naturale era scaduto. Sarebbe
stato difficile, d’ora in poi, fare noir
d’attualità con continuità, con ambientazioni che fossero contemporanee; forse
l’esempio migliore in tal senso fu il polar
francese. Quello che si potrà fare, e Ray è sagacemente in anticipo sui tempi,
è una riflessione sul periodo, una sorta di bilancio su quello che ci ha
lasciato in eredità il genere nel suo
momento culminante. Il che potrebbe far pensare ad un’opera metalinguistica, ma
Ray sceglie invece una storia puramente di narrazione, soltanto che la manovra
in modo smaccatamente di comodo.
Piuttosto che mostrare un lungometraggio in cui il cinema rifletta in modo
evidente su sé stesso, il regista prende i personaggi e li sposta con pretesti
e tempi narrativi un po’ artificiosi, ma allo scopo di metterli alla prova
fuori dal loro contesto filmico tipico. Neve
rossa comincia infatti come un poliziesco,
anzi meglio, come un crime-movie, visto
che il protagonista, Jim Wilson (il grande e beffardo Robert Ryan) è un agente
di polizia con modi e sistemi da gangster.
Il titolo originale, On dangerous ground, pur facendo
riferimento al terreno scosceso e insidioso che è fatale al fuggitivo nella
scena cruciale, indica in modo assai più pertinente la strada intrapresa da
Wilson e dai molti giustizieri in divisa, del cinema ma non solo. Wilson è un
duro, uno che va per le spicce; in effetti Ryan spesso è stato utilizzato come
personaggio negativo, al cinema. Per stigmatizzare questo comportamento
violento, inaccettabile per un tutore dell’ordine, non servono a molto le
ramanzine dei colleghi o dei superiori; intendiamoci, ci sono anche in Neve rossa ma, volendo, sono uno dei
cliché del genere. Il rischio, di cui
si è accorto Ray, è che la violenta situazione delle città americane negli anni
40 ci abbia abituati al fatto che la polizia utilizzi sistemi sbrigativi e
assai poco ortodossi per combattere il crimine.
Soprattutto al cinema si è
troppo spesso spacciata l’idea che la violenza possa essere combattuta solo con
altra violenza; e chi si opponeva a questa deriva, nei film del periodo, spesso
lo faceva per interesse proprio, perché era un superiore corrotto quando non
direttamente in combutta coi criminali. Ray decide così di uscire dal
cortocircuito che le consuetudini del genere cinematografico hanno creato:
forse Wilson può anche essere accettabile, come poliziotto violento, nella
classica città americana, più che altro per come siamo abituati ad intendere la
questione al cinema. E allora ecco che l’agente viene trasferito su un terreno
opposto: in campagna, in un’area impervia e ben poco abitata. Se i suoi metodi
sono corretti, lo saranno anche lì, sembra implicitamente dire in modo
provocatorio Ray. Invece Wilson si trova di fronte uno scenario anche più
brutale, perché primitivo: hanno ucciso la figlia di Walter Brent (War Bond) e
l’uomo ora vuole farsi giustizia da sé, con le sue mani, precisamente con la
propria doppietta. Senza troppe indagini, approfondimenti o processi:
giustizia, Brent vuole farsi giustizia che, secondo la sua logica, significa che
vuole la pelle di Danny (Sumner Williams). Il che non dovrebbe nemmeno urtare
troppo Wilson, visto che si tratta soltanto di un’estremizzazione dei suoi
stessi metodi: brutale e feroce, per via della rabbia del padre della ragazza
uccisa, ma nella sua essenza non troppo diversa. Eppure Wilson, che
ironicamente viene scambiato da Brent per il classico burocrate cittadino,
vacilla, di fronte alla sete di violenza del campagnolo.
Sono i frutti,
narrativi beninteso, dell’esperimento
metalinguistico di Ray: mettere un elemento fuori dal proprio contesto di genere, e vedere come reagisce. E’ più
che plausibile, infatti, che un risoluto giustiziere di città, di fronte alla
primitiva aggressività di un uomo inferocito come Brent, si renda conto di
quanto i suoi stessi sistemi di poliziotto spietato lo stiano facendo tornare
alla barbarie. E, proprio in ossequio a questo modo consapevole, da parte di
Ray, di gestire la storia, solo a questo punto, è introdotta la protagonista
femminile del film, Mary Malden (Ida Lupino), sorella dell’assassino. La
ragazza è cieca, e vive da sola; il fratello è un ragazzo con problemi, che
probabilmente lo hanno anche indotto su una
strada pericolosa che lo porterà prima a divenire un assassino, poi a
morire tragicamente. Come si vede, Ray, autore intellettualmente onesto, pur in
una critica alla vita metropolitana, di cui la gestione dell’ordine è uno degli
aspetti cruciali, non edulcora la vita di campagna. Affatto: poliziotti bonari
ma inefficienti, padri violenti e vendicativi, famiglie omertose, giovani
disabili o con problemi abbandonati al proprio destino. Ma torniamo alla
ragazza: Brent e Wilson arrivano alla sua casa e notano una luce accesa, al
piano di sopra, che subito si spegne. Quando entrano nell’abitazione di Mary,
Wilson si rende conto che la ragazza è una non vedente, mentre Brent, accecato
dalla furia, perquisisce e rovista dappertutto.
Ray ha predisposto una
situazione davvero ben congegnata: è evidente che la ragazza sia veramente
cieca e non faccia finta, e questo la mette su un piano di estrema
vulnerabilità e debolezza ma, al contempo, ragionevolmente la scagiona dall’essere
in qualche modo implicata nel delitto. In città abbiamo visto, o meglio
intuito, Wilson maltrattare anche donne di malaffare, pur di farle cantare; sapendo, e costatando di
persona, che poi la malavita avrebbe punito in modo letale chi avesse parlato.
Ma infischiandosene. Potrebbe ora avere lo stomaco di prendersela anche con
Mary? Una luce accesa, in casa di una cieca, indicava chiaramente che c’era
qualcuno, e quindi la ragazza mentiva quando diceva di essere stata da sola. Il
fatto che la ragazza non sia in grado di vedere la pone su un piano di estrema
debolezza, ma è tutta la situazione che la espone senza alcuna infrastruttura
che le offra un qualche riparo.
Se le persone che si ponevano fuori dalle
istituzioni nella realtà cittadina potevano trovare asilo nella criminalità,
facendosi scudo con essa, Mary (e Danny) non hanno niente a cui affidarsi.
Emarginati per via dei loro problemi fisici, sono abbandonati al loro destino;
Wilson sa che Mary mente, ma non deve nemmeno sforzarsi perché lei crolla quasi
subito, cercando in lui, tutore dell’ordine, un baluardo a cui affidare la
salvezza del fratello. Forse, il fatto che sia cieca, è una piccola nota
metalinguistica: oltre alla vulnerabilità, Ray sottolinea la sua verginità
dello sguardo che, raccontata proprio al cinema, assomiglia ad una sorta di autocritica.
Alcune idee stereotipate su come combattere il crimine organizzato nelle grandi
città sono state veicolate anche grazie ai film: non vederle, ha reso Mary pura
e innocente. Ovviamente, a questo punto, il lieto fine è dietro l’angolo.
Wilson si redime e Mary trova un compagno e un aiuto; anche Brent, alla fine
pare rinsavito. Ma c’è un prezzo da pagare. Danny muore: Brent ha avuto la sua giustizia che, guardando il ragazzo
morto, non gli sembra più così giusta;
Wilson, da parte sua, deve ammettere il fallimento. La donna che ama gli aveva
chiesto di salvare il fratello; ma salvare qualcuno è assai più difficile che
farlo fuori e così, la nuova vita
professionale di Wilson, comincia con un fallimento. Beffardamente da
contrapporre ai ripetuti successi a suon di soprusi del tempo precedente. Il
rispetto delle regole è un terreno forse meno pericoloso di quello del
giustiziere, ma più arduo e difficile.
Ida Lupino
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