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mercoledì 12 febbraio 2020

IL CAVALIERE SOLITARIO

520_IL CAVALIERE SOLITARIO (Buchanan rides alone); Stati Uniti, 1958. Regia di Budd Boetticher.

Prosegue la collaborazione del regista Budd Boetticher con i suoi fedelissimi, l’attore Randolph Scott (qui nella parte di Buchanan, il cavaliere solitario del titolo italiano) anche coproduttore insieme ad Harry Joe Brown, in un nuovo capitolo di quello che in genere viene indicato come il ciclo di Ranown (dai nomi dei due produttori Ran-dolph Scott e Harry Joe Br-own appunto). Alla sceneggiatura è accreditato il solo Charles Lang (che figurava nei credits di un altro film del ciclo, Decisione al tramonto), sebbene ci siano voci che ci abbia messo la penna anche Burt Kennedy (sue le sceneggiature dei precedenti I sette assassini e I tre banditi, altri due Ranown). Questo per dire come Il cavaliere solitario sia un prodotto di un team perfettamente oliato, dove tutti i meccanismi filano alla perfezione e, ci fosse anche qualche sbavatura, questa viene in qualche modo compensata dalla funzionalità degli elementi ampiamente rodati. Il film ha un tono quasi da commedia, con numerose battute umoristiche (si vedano quelle nell’improvvisato tribunale come esempio), e il regista sembra giocare al gioco delle tre carte con lo spettatore. Tre, infatti, sono i fratelli Agry che tengono sotto scacco la città di confine di Agry town; tre sono i buoni, Buchanan (Randolph Scott, come detto), Juan (Manuel Rojas) e Pecos (L.Q. Jones) e tre gli aiutanti dello sceriffo che li inseguono. La figura simbolica del film non è Buchnan ma piuttosto Amos Agry (Peter Whitney), l’albergatore, che è sempre indeciso se schierarsi con il fratello sceriffo Lew (Barry Kelley) o l’altro fratello, il giudice Simon (Tol Avery). 

Il correre da una parte all’altra di Amos è enfatizzato dall’atteggiamento goffo e sofferente dell’uomo, ma anche gli altri personaggi non fanno altro che andare e venire, per ritrovarsi alla fine nello stesso posto (Buchanan lo dice esplicitamente a Juan quando si ritrovano in cella), oppure scambiarsi posizione e ruolo. In questa commedia non tanto degli equivoci ma delle situazioni, che tutto sia capovolto lo possiamo capire anche da come si risolve un altro dei terzetti di cui si compone la storia. 


Pecos Hill (nome che fa ironicamente il verso al leggendario Pecos Bill) ha appena svoltato, passando dalla parte di Buchanan e, invece di freddare il nostro eroe, come avrebbe dovuto, ha fatto fuori il collega con il quale condivideva l’incarico. E già questo è un ribaltone quantomeno atipico, la cui scena clou è ambiguamente sia comica che drammatica. Ma il tono scema decisamente al farsesco durante il funerale dell’uomo ucciso, che viene legato su una pianta per evitare che le bestie ne facciano scempio. Ma non si poteva seppellire, viene da chiedersi? Buchanan ci ha provato, in effetti, ma, essendo vicino al fiume l’acqua ha inondato la fossa, vanificando l’operazione. Situazioni che sfiorano il comico ma che lo diventano appieno quando Pecos Hill recita il discorso di commiato al compare, sistemato sull’albero: l’immagine ha un suo impatto emotivo, ma le parole a corredo sono davvero spassose. Tutti questi passaggi leggeri non devono far pensare però che il film tradisca il suo compito di tenere lo spettatore incollato allo schermo: la narrazione ad incastri è serrata e tutto sommato ben congeniata e lo spettacolo nel complesso è di pregevole livello. Come è lecito attendersi da un film di Budd Boetticher.   




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