520_IL CAVALIERE SOLITARIO (Buchanan rides alone); Stati Uniti, 1958. Regia di Budd Boetticher.
Prosegue la collaborazione del regista Budd Boetticher con i
suoi fedelissimi, l’attore Randolph Scott (qui nella parte di Buchanan, il cavaliere solitario del titolo italiano)
anche coproduttore insieme ad Harry Joe Brown, in un nuovo capitolo di quello
che in genere viene indicato come il ciclo
di Ranown (dai nomi dei due produttori Ran-dolph
Scott e Harry Joe Br-own appunto). Alla
sceneggiatura è accreditato il solo Charles Lang (che figurava nei credits di un altro film del ciclo, Decisione al tramonto), sebbene ci siano voci che ci abbia messo la penna anche
Burt Kennedy (sue le sceneggiature dei precedenti I sette assassini e I tre
banditi, altri due Ranown).
Questo per dire come Il cavaliere
solitario sia un prodotto di un team perfettamente oliato, dove tutti i meccanismi
filano alla perfezione e, ci fosse anche qualche sbavatura, questa viene in
qualche modo compensata dalla funzionalità degli elementi ampiamente rodati. Il
film ha un tono quasi da commedia, con numerose battute umoristiche (si vedano
quelle nell’improvvisato tribunale come esempio), e il regista sembra giocare
al gioco delle tre carte con lo spettatore. Tre, infatti, sono i fratelli Agry
che tengono sotto scacco la città di confine di Agry town; tre sono i buoni, Buchanan (Randolph Scott, come
detto), Juan (Manuel Rojas) e Pecos (L.Q. Jones) e tre gli
aiutanti dello sceriffo che li inseguono. La figura simbolica del film non è
Buchnan ma piuttosto Amos Agry (Peter Whitney), l’albergatore, che è sempre
indeciso se schierarsi con il fratello sceriffo Lew (Barry Kelley) o l’altro
fratello, il giudice Simon (Tol Avery).
Il correre da una parte all’altra di
Amos è enfatizzato dall’atteggiamento goffo e sofferente dell’uomo, ma anche
gli altri personaggi non fanno altro che andare e venire, per ritrovarsi alla
fine nello stesso posto (Buchanan lo dice esplicitamente a Juan quando si
ritrovano in cella), oppure scambiarsi posizione e ruolo. In questa commedia
non tanto degli equivoci ma delle situazioni, che tutto sia capovolto lo
possiamo capire anche da come si risolve un altro dei terzetti di cui si compone la storia.
Pecos Hill (nome che fa
ironicamente il verso al leggendario Pecos Bill) ha appena svoltato, passando
dalla parte di Buchanan e, invece di freddare il nostro eroe, come avrebbe
dovuto, ha fatto fuori il collega con il quale condivideva l’incarico. E già
questo è un ribaltone quantomeno atipico, la cui scena clou è ambiguamente sia
comica che drammatica. Ma il tono scema decisamente al farsesco durante il
funerale dell’uomo ucciso, che viene legato su una pianta per evitare che le
bestie ne facciano scempio. Ma non si poteva seppellire, viene da chiedersi?
Buchanan ci ha provato, in effetti, ma, essendo vicino al fiume l’acqua ha
inondato la fossa, vanificando l’operazione. Situazioni che sfiorano il comico
ma che lo diventano appieno quando Pecos Hill recita il discorso di commiato al
compare, sistemato sull’albero: l’immagine ha un suo impatto emotivo, ma le
parole a corredo sono davvero spassose. Tutti questi passaggi leggeri non
devono far pensare però che il film tradisca il suo compito di tenere lo
spettatore incollato allo schermo: la narrazione ad incastri è serrata e tutto
sommato ben congeniata e lo spettacolo nel complesso è di pregevole livello. Come
è lecito attendersi da un film di Budd Boetticher.
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