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domenica 23 giugno 2024

IL SEGNO DELLA LEGGE

1502_IL SEGNO DELLA LEGGE (The Tin Star). Stati Uniti 1957; Regia di Anthony Mann.

Quando si parla dei mirabili western di Anthony Mann, uno degli assoluti maestri del genere, abitualmente si citano i cinque film nei quali James Stewart fu protagonista, che vanno da Winchester ’73 (1950) a L’uomo di Laramie (1955). In realtà, già l’approccio di Mann al genere fu notevole, con Il Passo del Diavolo (1950) e, almeno fino al 1958 del capolavoro Dove la terra scotta, il regista americano si dimostrò a pieno agio tra i paesaggi della frontiera. Tra i western sottovalutati del regista c’è sicuramente Il segno della Legge, del 1957; basato su una sceneggiatura di Dudley Nichols, l’opera soffre un po’ della simbolica e manichea impostazione che Nichols dava alle sue storie. Il ruolo del protagonista, Morgan Hickman, un ex sceriffo ora cacciatore di taglie, stando al sito IMDb, era stato previsto per James Stewart, un habitué di Mann, ma finì poi sulle spalle di Henry Fonda. Questo contribuì, in un certo senso, ad aumentare lo schematismo del film, perché Jimmy Stewart, se aveva un lato tenero perfino più tenero di Fonda e dei suoi occhioni chiari, aveva sepolta in profondità una metà oscura che, forse, solo Mann sapeva stanare, e che, nel caso, era davvero inquietante. Con Fonda questo non poteva accadere: l’attore era stato in grado di interpretare l’americano più illustre, Abramo Lincoln (Alba di Gloria, 1939, di John Ford), e quello più spiantato, Tom Joad (Furore, 1940, sempre di Ford) e, sempre a schiena dritta, era passato indenne pure attraverso i tranelli di Hitchcock (Il ladro, 1956). Oltretutto, in quel 1957, era probabilmente ancora negli occhi di molti la sua interpretazione dell’uomo ragionevole e giusto ne La parola ai giurati (1957, regia di Sidney Lumet), tra i manifesti liberal del tempo. Il western, che aveva l’incarico «ufficiale» di celebrare la nascita della nazione americana e per farlo creava degli eroi cinematografici, si era già reso conto che Fonda avesse anch’egli un suo lato oscuro, e che era esattamente il rovescio della medaglia della sua apparente integrità morale. 

Lo stesso Ford ne Il massacro di Fort Apache (1948) aveva cominciato a guardare oltre la pulita presenza scenica dell’attore, e su quella strada avevano poi proseguito, tra gli altri, Edward Dmytryk (Ultima notte a Warlock, 1959) e Sergio Leone (C’era una volta il west, 1968). Ma, come detto, nel 1957 l’eco di La parola ai giurati doveva essere ancora forte: anche alla luce di ciò, il Morgan Hickman interpretato da Henry Fonda dovette apparire, quindi e senza alcun dubbio, un personaggio positivo, solamente amareggiato dalle tragedie della vita. In questo senso, la sua interpretazione, di gran lunga la più ingombrante nel film, rinfranca lo schematismo di cui si diceva, per cui, ad esempio, il «cattivo» della storia, Bart Bogardus (Neville Brand) è un personaggio negativo in tutti i sensi che il copione gli propone. È nemico di Morgan, dello sceriffo Ben (Anthony Perkins) e perfino di Kip (Michel Ray) un ragazzino; insomma, una caratterizzazione psicologica piuttosto marcata; tra i villain della vicenda, va aggiunto poi Lee Van Cleef, specialista nei ruoli di cattivo. La splendida fotografia in bianco e nero, di Loyal Griggs, alimenta il senso manicheo della vicenda dove uno sceriffo troppo inesperto ed idealista –Perkins perfetto per il ruolo– è tenuto in ostaggio dall’ipocrisia della borghesia cittadina. Gli abitanti più illustri vogliono che la loro bella città si elevi dalla barbarie del far west e pretendono che la Legge sia applicata senza ricorso alla violenza; ideale condiviso anche dallo sceriffo Ben, sia chiaro, che però deve metterci la faccia direttamente, all’occorrenza. Ma tutto ciò, ad inizio film, ancora non è noto, perché nel perfetto incipit, vediamo semplicemente un uomo a cavallo con un cadavere appresso. 

Accompagnate dalle splendide note di Elmer Bernstein, un classico motivo western, sulle immagini della tipica natura del west americano scorrono gli eleganti titoli di testa; quando finiscono, si arriva finalmente in città. L’ingresso nella civiltà è segnato da un’inquadratura che, sfruttando l’architettura dei portici delle abitazioni, incornicia il nuovo venuto. Nel corso della pellicola c’è più di un’immagine, di questo tipo, ma in questa iniziale sequenza c’è una «composizione» tipica del regista americano, davvero magistrale: Morgan, sceso da cavallo, entra nell’ufficio dello sceriffo mentre la luce di porte e finestre ritaglia lo spazio attraverso cui si vedono, in ognuna delle aperture, altri personaggi. Non è, naturalmente un vezzo stilistico, perché la scena è carica della muta tensione scaturita dagli sguardi ostili e interrogativi degli abitanti della cittadina al centro della scena, che vedono arrivare un tizio che si accompagna ad un morto. Mann sembra quindi sottolineare, già dal primo vero fotogramma del suo racconto filmico, come la storia, inquadrata dentro schemi piuttosto rigidi, sia una sorta di rappresentazione. Quasi una recita dentro la recita: Morgan, infatti, è un ex sceriffo onesto che si ostina a fingersi freddo e calcolatore cacciatore di taglie mentre gli squali della borghesia cittadina si presentano ipocritamente come persone rispettabili. Lo sceriffo Ben, da parte sua, viene letteralmente sorpreso da Morgan, mentre «gioca» con le pistole, e la presenza e l’importanza nella storia di un ragazzino come Kip, certifica questa deriva leggera, si veda anche come si risolve senza traumi la sua scomparsa nel finale. Del resto gli attori, in inglese, sono definiti «players», un termine utilizzato anche per coloro che giocano. Con uno sceriffo imbranato, un ex sceriffo che, al di là delle sue esternazioni, è uomo di coscienza, e un cattivo a tutto tondo, è evidente quale sarà la parabola della vicenda. Il segno della Legge è, in sostanza, una storia di formazione, con Ben che imparerà da Morgan come essere uomo, prima che uomo di legge, e con Morgan che, negli ideali del giovane, troverà lo sprone a smetterla con la cinica disillusione in cui si è rifugiato. Nella prevedibilità del racconto c’è un primo punto debole del film, che non regge nemmeno nella scelta, nel finale, di chiudere la questione non solo in modo edulcorato, la cattura dei banditi senza colpo ferire, ma anche e soprattutto coinvolgendo il piccolo Kip senza poi metterne a rischio in qualche modo l’incolumità.  

Ciò toglie, paradossalmente, tensione al racconto: lo spettatore è preoccupato, prima di tutto, per la sorte del ragazzino; quando questi viene rapidamente messo al sicuro, l’attenzione per la vicenda perde inevitabilmente di tono. A quel punto era meglio non coinvolgerlo del tutto. Detto questo, il film è formalmente girato in modo superbo da Mann, a partire dal citato e splendido incipit senza parole, alle magistrali scene dei duelli, giocate su più piani. Oltre a questa pregevolezza calligrafica delle immagini del film, Il segno della Legge, se non affonda nemmeno le varie tracce romantiche, dissemina qualche indizio sulla gravità della «questione indiana». In una cittadina americana, che ostenta il suo essere emancipata dai tempi del selvaggio west, è normale che il «cattivo» del paese freddi per la strada un indiano e venga scagionato da qualsiasi accusa, senza nemmeno un processo. Nella stessa civilizzata collettività, una donna, Nona (Betsy Palmer) è emarginata perché vedova di un nativo; e suo figlio Kip è giusto tollerato, essendo un «mezzosangue». Lo stesso protagonista, Morgan, l’eroe della vicenda, è palesemente razzista: i meticci li riconosce a vista, cosa evidenziata in più di un’occasione. Quando a Nona, con la quale intesse una storia sentimentale, chiede delle origini di Kip, c’è un interessante scambio di battute. La donna, che ha patito sulla propria pelle la discriminazione razziale per via del marito, spiega a Morgan come gli indiani siano persone né più né meno come le altre. L’uomo non replica, nel merito, ma si limita ad osservare come sia difficile cambiare una convinzione radicata dall’educazione ricevuta. Il segno della Legge, pur nel breve tempo che dedica agli indiani, è un testo importante in questo senso, perché vi è l’ammissione che l’ostilità verso i nativi non aveva ragioni di esistere se non nella sua stessa esistenza. “Ci hanno allevato così” ammette Morgan, e alle ragionevoli repliche della di Nona, conclude amaro: “non si cambia, quando si è cresciuti odiandoli”. Ma è solo un’altra delle sue tante bugie: prima della fine del film, aiuterà Ben, si rimetterà la stella di latta, avrà la sua storia romantica con Nona e smetterà di odiare gli indiani. Si è detto, che il film ha un finale edulcorato, ma in un testo simbolico è più che ammissibile.
Oltre che onesto.   










Betsy Palmer 



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