1502_IL SEGNO DELLA LEGGE (The Tin Star). Stati Uniti 1957; Regia di Anthony Mann.
Quando si parla dei mirabili western di Anthony Mann, uno degli assoluti
maestri del genere, abitualmente si citano i cinque film nei quali James
Stewart fu protagonista, che vanno da Winchester ’73 (1950) a L’uomo
di Laramie (1955). In realtà, già l’approccio di Mann al genere fu
notevole, con Il Passo del Diavolo (1950) e, almeno fino al 1958 del capolavoro
Dove la terra scotta, il regista americano si dimostrò a pieno agio tra
i paesaggi della frontiera. Tra i western sottovalutati del regista c’è
sicuramente Il segno della Legge, del 1957; basato su una sceneggiatura
di Dudley Nichols, l’opera soffre un po’ della simbolica e manichea
impostazione che Nichols dava alle sue storie. Il ruolo del protagonista,
Morgan Hickman, un ex sceriffo ora cacciatore di taglie, stando al sito IMDb,
era stato previsto per James Stewart, un habitué di Mann, ma finì poi sulle
spalle di Henry Fonda. Questo contribuì, in un certo senso, ad aumentare lo
schematismo del film, perché Jimmy Stewart, se aveva un lato tenero perfino più
tenero di Fonda e dei suoi occhioni chiari, aveva sepolta in profondità una
metà oscura che, forse, solo Mann sapeva stanare, e che, nel caso, era davvero
inquietante. Con Fonda questo non poteva accadere: l’attore era stato in grado
di interpretare l’americano più illustre, Abramo Lincoln (Alba di Gloria,
1939, di John Ford), e quello più spiantato, Tom Joad (Furore, 1940,
sempre di Ford) e, sempre a schiena dritta, era passato indenne pure attraverso
i tranelli di Hitchcock (Il ladro, 1956). Oltretutto, in quel 1957, era
probabilmente ancora negli occhi di molti la sua interpretazione dell’uomo
ragionevole e giusto ne La parola ai giurati (1957, regia di Sidney
Lumet), tra i manifesti liberal del tempo. Il western, che aveva
l’incarico «ufficiale»
di celebrare la nascita della nazione americana e per farlo creava degli eroi cinematografici,
si era già reso conto che Fonda avesse anch’egli un suo lato oscuro, e che era
esattamente il rovescio della medaglia della sua apparente integrità morale.
Lo
stesso Ford ne Il massacro di Fort Apache (1948) aveva cominciato a
guardare oltre la pulita presenza scenica dell’attore, e su quella strada
avevano poi proseguito, tra gli altri, Edward Dmytryk (Ultima notte a
Warlock, 1959) e Sergio Leone (C’era una volta il west, 1968). Ma,
come detto, nel 1957 l’eco di La parola ai giurati doveva essere ancora
forte: anche alla luce di ciò, il Morgan Hickman interpretato da Henry Fonda dovette
apparire, quindi e senza alcun dubbio, un personaggio positivo, solamente
amareggiato dalle tragedie della vita. In questo senso, la sua interpretazione,
di gran lunga la più ingombrante nel film, rinfranca lo schematismo di cui si
diceva, per cui, ad esempio, il «cattivo» della storia, Bart Bogardus (Neville
Brand) è un personaggio negativo in tutti i sensi che il copione gli propone. È
nemico di Morgan, dello sceriffo Ben (Anthony Perkins) e perfino di Kip (Michel
Ray) un ragazzino; insomma, una caratterizzazione psicologica piuttosto
marcata; tra i villain della vicenda, va aggiunto poi Lee Van Cleef,
specialista nei ruoli di cattivo. La splendida fotografia in bianco e nero, di
Loyal Griggs, alimenta il senso manicheo della vicenda dove uno sceriffo troppo
inesperto ed idealista –Perkins perfetto per il ruolo– è tenuto in ostaggio
dall’ipocrisia della borghesia cittadina. Gli abitanti più illustri vogliono
che la loro bella città si elevi dalla barbarie del far west e pretendono che
la Legge sia applicata senza ricorso alla violenza; ideale condiviso anche
dallo sceriffo Ben, sia chiaro, che però deve metterci la faccia direttamente,
all’occorrenza. Ma tutto ciò, ad inizio film, ancora non è noto, perché nel
perfetto incipit, vediamo semplicemente un uomo a cavallo con un cadavere
appresso.
Accompagnate dalle splendide note di Elmer Bernstein, un classico motivo
western, sulle immagini della tipica natura del west americano scorrono gli
eleganti titoli di testa; quando finiscono, si arriva finalmente in città.
L’ingresso nella civiltà è segnato da un’inquadratura che, sfruttando
l’architettura dei portici delle abitazioni, incornicia il nuovo venuto. Nel
corso della pellicola c’è più di un’immagine, di questo tipo, ma in questa
iniziale sequenza c’è una «composizione» tipica del regista americano, davvero
magistrale: Morgan, sceso da cavallo, entra nell’ufficio dello sceriffo mentre la
luce di porte e finestre ritaglia lo spazio attraverso cui si vedono, in ognuna
delle aperture, altri personaggi. Non è, naturalmente un vezzo stilistico,
perché la scena è carica della muta tensione scaturita dagli sguardi ostili e
interrogativi degli abitanti della cittadina al centro della scena, che vedono
arrivare un tizio che si accompagna ad un morto. Mann sembra quindi sottolineare,
già dal primo vero fotogramma del suo racconto filmico, come la storia,
inquadrata dentro schemi piuttosto rigidi, sia una sorta di rappresentazione.
Quasi una recita dentro la recita: Morgan, infatti, è un ex sceriffo onesto che
si ostina a fingersi freddo e calcolatore cacciatore di taglie mentre gli
squali della borghesia cittadina si presentano ipocritamente come persone
rispettabili. Lo sceriffo Ben, da parte sua, viene letteralmente sorpreso da
Morgan, mentre «gioca» con le pistole, e la presenza e l’importanza nella
storia di un ragazzino come Kip, certifica questa deriva leggera, si veda anche
come si risolve senza traumi la sua scomparsa nel finale. Del resto gli attori,
in inglese, sono definiti «players», un termine utilizzato anche per coloro che
giocano. Con uno sceriffo imbranato, un ex sceriffo che, al di là delle sue
esternazioni, è uomo di coscienza, e un cattivo a tutto tondo, è evidente quale
sarà la parabola della vicenda. Il segno della Legge è, in sostanza, una
storia di formazione, con Ben che imparerà da Morgan come essere uomo, prima
che uomo di legge, e con Morgan che, negli ideali del giovane, troverà lo
sprone a smetterla con la cinica disillusione in cui si è rifugiato. Nella
prevedibilità del racconto c’è un primo punto debole del film, che non regge
nemmeno nella scelta, nel finale, di chiudere la questione non solo in modo edulcorato,
la cattura dei banditi senza colpo ferire, ma anche e soprattutto coinvolgendo
il piccolo Kip senza poi metterne a rischio in qualche modo l’incolumità.
Ciò toglie, paradossalmente,
tensione al racconto: lo spettatore è preoccupato, prima di tutto, per la sorte
del ragazzino; quando questi viene rapidamente messo al sicuro, l’attenzione
per la vicenda perde inevitabilmente di tono. A quel punto era meglio non
coinvolgerlo del tutto. Detto questo, il film è formalmente girato in modo
superbo da Mann, a partire dal citato e splendido incipit senza parole, alle
magistrali scene dei duelli, giocate su più piani. Oltre a questa pregevolezza
calligrafica delle immagini del film, Il segno della Legge, se non
affonda nemmeno le varie tracce romantiche, dissemina qualche indizio sulla
gravità della «questione indiana». In una cittadina
americana, che ostenta il suo essere emancipata dai tempi del selvaggio west, è
normale che il «cattivo» del paese freddi per la strada un indiano e venga
scagionato da qualsiasi accusa, senza nemmeno un processo. Nella stessa
civilizzata collettività, una donna, Nona (Betsy Palmer) è emarginata perché vedova
di un nativo; e suo figlio Kip è giusto tollerato, essendo un «mezzosangue». Lo
stesso protagonista, Morgan, l’eroe della vicenda, è palesemente razzista: i
meticci li riconosce a vista, cosa evidenziata in più di un’occasione. Quando a
Nona, con la quale intesse una storia sentimentale, chiede delle origini di
Kip, c’è un interessante scambio di battute. La donna, che ha patito sulla
propria pelle la discriminazione razziale per via del marito, spiega a Morgan
come gli indiani siano persone né più né meno come le altre. L’uomo non
replica, nel merito, ma si limita ad osservare come sia difficile cambiare una
convinzione radicata dall’educazione ricevuta. Il segno della Legge, pur
nel breve tempo che dedica agli indiani, è un testo importante in questo senso,
perché vi è l’ammissione che l’ostilità verso i nativi non aveva ragioni di
esistere se non nella sua stessa esistenza. “Ci hanno allevato così” ammette
Morgan, e alle ragionevoli repliche della di Nona, conclude amaro: “non si
cambia, quando si è cresciuti odiandoli”. Ma è solo un’altra delle sue tante
bugie: prima della fine del film, aiuterà Ben, si rimetterà la stella di latta,
avrà la sua storia romantica con Nona e smetterà di odiare gli indiani. Si è
detto, che il film ha un finale edulcorato, ma in un testo simbolico è più che
ammissibile.
Oltre che onesto.
Oltre che onesto.
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