1504_20 DAYS IN MARIUPOL . Ucraina 2023; Regia di Matyslav Chernov.
Per descrivere dell’importanza di 20 days in Mariupol di Mstyslav Chernov si potrebbero citare i numerosissimi premi che l’opera ha ricevuto: a partire naturalmente dall’Oscar 2023 al «miglior lungometraggio documentario», oltre, tra gli altri, ai riconoscimenti al Sundance Film Festival, ai BAFTA, gli awards britannici, e poi ai Directors Guild of America e via di questo passo. Chernov, il regista, insieme a Evgeniy Maloletka e alle colleghe Vasilisa Stepanenko e Lori Hinnant, che hanno collaborato con lui alla realizzazione del documentario, hanno poi vinto anche il Premio Pulitzer. Ora, i riconoscimenti, si sa, lasciano il tempo che trovano, perché molto spesso sottostanno a dinamiche che non necessariamente hanno a che fare con la qualità delle opere. Non in questo caso. Per quanto, 20 days in Mariupol non sia un’opera d’arte che, grazie alla sua qualità, assurga al valore di verità assoluta, la verità dell’Arte. 20 days in Mariupol è semplicemente la verità nuda e cruda. Una verità terribile, inaccettabile e insostenibile, se ci si riferisce a quanto le immagini mostrano sullo schermo. Chernov, insieme a qualcuno dei suoi collaboratori, rimase intrappolato a Mariupol, per venti giorni, dopo il 24 febbraio 2022, documentando dall’interno l’atroce assedio russo alla «città di Maria». L’obiezione, che saremmo i primi a fare, è che non esiste un punto di vista oggettivo, l’abbiamo imparato a scuola, già studiando Giovanni Verga e il Verismo, e poi nei corsi di cinema, con il cortocircuito metalinguistico innescato dal Cineocchio di Dziga Vertov. Temi filosofici, temi importanti; invece, un punto di vista oggettivo c’è eccome, e te ne rendi conto quanto ti stanno puntando contro il cannone di un carro armato. E il terrore ti assale incontrollabile. O quando vedi un ragazzino di 16 anni ferito da un missile mentre giocava a pallone e, qualche giorno dopo, vedi suo padre disperato perché Ilya, il figlio, non ce l’ha fatta. Ma ha ragione Vladimir –il poliziotto che aiuta i nostri reporter che, macabra ironia della sorte, si chiama proprio così– quando sostiene che la scena più importante sia un’altra.
Del resto Vladimir deve essere un mezzo filosofo, visto che è sua l’interessante osservazione secondo cui la guerra sia una sorta di acceleratore della realtà: i buoni diventano migliori, i cattivi diventano peggiori. In ogni caso, la scena madre, ed è proprio il caso di dirlo, di 20 days in Mariupol –e forse dell’intera guerra– è il bombardamento al Reparto di Maternità n.3 dell’ospedale di Mariupol. La celeberrima scena con la donna che ha appena partorito, Iryna, che viene portata fuori in barella dalla struttura distrutta, è opera di Chernov che era presente e riprese tutto quanto con la sua tremolante ma implacabile cinepresa. A parte l’essere nel posto giusto al momento giusto per cogliere quanto succedeva, il problema, uno tra i tantissimi, era poi la difficoltà a connettersi nella rete internet; non sempre era e quindi possibile inviare il frutto delle riprese all’agenzia AP Associated Press per la successiva distribuzione agli organi di stampa. Naturalmente, il regista, si era trovato alle prese anche con problemi di coscienza, a fronte di persone la cui esistenza era stata distrutta mentre lui stava realizzando il suo film, proprio su questo argomento. Ma la sua opera è di un’importanza ineluttabile. Quando Chernov vide le notizie, provenienti dalla Russia, secondo cui il bombardamento al Reparto Maternità n.3 era una finzione degna di un Mondo movie italiano degli anni Sessanta, ovvero frutto di accurata artificiosa ricostruzione, è tornato sul luogo del crimine. Qui non ha trovato più la povera Iryna, morta, nel frattempo, così come la figlia neonata. E come si fa a sapere se questa è davvero la verità? Si guarda 20 days in Mariupol, si guarda negli occhi l’infermiera che risponde alle domande.
L’agente Vladimir, oltre che un eroe, è anche un ingenuo, perché pensava che quella scena avrebbe fatto smettere il conflitto. In realtà, perfino in Italia, sui social e non solo, sono circolate con insistenza e approvazione quelle voci sulla presunta ricostruzione filmica del bombardamento al Reparto Maternità n.3, come su altre atrocità. Guardando 20 days in Mariupol è facile convenire che nemmeno Steven Spielberg e tutte le major di Hollywood riunite avrebbero potuto mettere in scena un tale pandemonio. Pur con tutto il rispetto possibile per coloro sono morti e coloro hanno sofferto, la cosa più schifosa di questa vicenda è come alcuni, soprattutto in occidente, abbiano scelto di non vedere, non credere. Pregiudizio, negazionismo a prescindere, volontà mal riposta di non piegarsi alla propaganda di regime, per cui si sottostà ad altra propaganda di altro regime, insomma, le ragioni si conoscono e, in qualche ambito e in qualche misura, possono anche essere comprese se non proprio condivise. Ma non in questo caso. Tale comportamento è, in questa circostanza, ignobile. Si potrebbe chiudere con un po’ di sana retorica morale, constatando come i bombardamenti su obiettivi civili abbiano ucciso anche la capacità di discernere il vero dal falso, negli occhi e nei cuori di molti occidentali. Ma non è vero. Erano già morti da un pezzo.
Ma sarebbe una chiusa narrativamente retorica che metterebbe in primo piano meschinità, che, al confronto con quanto successo a Mariupol, non meritano certo la ribalta. Ribalta che, pur con tutti i pregi che gli si riconoscono, forse non merita nemmeno Chernov, «l’uomo con la macchina da presa tremolante», incerta e insicura, certo, nella sua ripresa, ma implacabile nel mostrare la Verità Assoluta. Questa sì che si erge sopra qualsiasi altra cosa, la Verità. Perché, caro Giovanni (Verga), quando sei al cospetto di un Tank con la Z bianca che si aggira in un quartiere residenziale, se inquadri il carro armato, vedi bene quello che sta facendo, ma se inquadri anche da qualche altra parte, vedi comunque i tragici effetti di quello che sta combinando. Non ci sono scuse o disquisizioni filosofiche che tengano di fronte alla morte di civili bersagliati da cecchini, missili e cannoni. 20 days in Mariupol mette tutti spalle al muro: chi ha ucciso, chi ha mentito, chi ha chiuso gli occhi e fatto finta di niente. Ma non c’è di che temere: Storia insegna che la si farà franca anche stavolta. E sulla coscienza di ognuno, purtroppo, è evidente che è inutile contare.
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