1500_eXistenZ . Canada, Regno Unito 1999; Regia di David Cronenberg.
Abitualmente, la natura metalinguistica dei film di
David Cronenberg, è suggerita già dai titoli di testa; questo avviene anche in eXistenZ,
per la verità. L’ammaliante musica di Howard Shore avvolge le ipnotiche
immagini: stratificate su differenti piani e di diverso grado di trasparenza, lasciano
intuire origini e temi differenti, senza che se ne riesca ad afferrare il
disegno complessivo. Tuttavia, eXistenZ segna una differenza perché
Cronenberg utilizza già il titolo –meglio, la grafia del titolo– per dare le
prime coordinate. In realtà c’era già stato M. Butterfly [1993]
nel quale la emme maiuscola seguita dal punto, oltre che inusuale, poteva far
intendere una sorta di abbreviazione di «madame» –da Madama Butterfly, l’opera di Giacomo Puccini
che aveva ispirato il film– ma anche rimandare al simbolo che indica «male»,
maschio. Qui, però, il regista canadese si spinge oltre, perché il racconto
filmico si apre proprio con la spiegazione di come si debba scrivere eXistenZ,
senza maiuscola iniziale ma con la seconda e l’ultima lettera ad avere questa
caratteristica. Nella ricostruzione esaudiente che Gianni Canova ne dà nel «Castoro»
dedicato al Canadese [Gianni Canova, David Cronenberg, Il
Castoro Cinema n.161, Milano, Editrice Il Castoro, Marzo 2007, pagina 107]
possiamo notare come l’assenza di iniziale maiuscola sottragga eXistenZ dalle
tipiche consuetudini, la cui natura deriva dalle regole grammaticali. La
maiuscola, abitualmente, segna l’inizio di una nuova frase o i nomi propri:
quindi il film di Cronenberg dichiara sin dal titolo di non avere un inizio
chiaro, cosa poi certificata dalla vicenda narrata, e nemmeno assurge a
qualcosa di definito e definibile, non essendo un comune appellativo. Di
contro, la X e la Z, le lettere sottolineate dal carattere maiuscolo nel titolo,
sono due delle tre coordinate del sistema tridimensionale: l’incognita X e la
variante Z; mancando però la Y, sarà impossibile stabilire con certezza il senso
del messaggio. In modo un po’ inquietante, se il titolo sembra indicare una
storia senza inizio, la zeta maiuscola con cui termina eXistenZ pone
l’accento sulla fine: da un autore in un certo senso ossessionato dal concetto
di morte, la cosa pare quasi naturale. In ogni caso, interpretandola in senso
metalinguistico –terreno proprio tanto di Cronenberg che di eXistenZ– si
avrebbe poi, a fine visione del film, la conferma che, procedendo all’inverso,
nell’epilogo si trovi quello stratagemma narrativo che potrebbe dare logica al
racconto. Tuttavia, il regista canadese, seppur ami rispettare i canoni del
cinema «di genere» –e, quindi, in una
storia distopica di fantascienza sulla realtà virtuale, dove vale un po’ tutto,
la coerenza interna al racconto va almeno salvaguardata– non pone certo sui
vincoli logici della sceneggiatura il suo interesse. Sia quel che sia, quel che
il regista ricercò, non convinse tuttavia il pubblico. Il motivo dello scarso
successo del film è in parte da ricercare nell’estetica personale di
Cronenberg, forse troppo legata agli effetti speciali artigianali, quando al
tempo impazzavano già simulazioni grafiche assai più spinte, ma, soprattutto,
all’incapacità dello spettatore di coglierne l’inquietante messaggio. Che,
insistendo nell’ambito metalinguistico, è esattamente il tema del film. Cioè, a
prima vista, dal momento che eXistenZ, nella storia narrata dal film, è un
gioco di realtà virtuale, può sembrare, e certo in parte è, che quest’ultima sia
l’argomento portante del lungometraggio. La realtà virtuale era già da tempo un
fulcro di interesse collettivo, ma, da questo punto di vista, il 1999 fu lo
snodo cruciale: lo sviluppo delle nuove tecnologie unite al fatidico avvento
del 2000, per decenni utilizzato come sinonimo di futuro fantascientifico,
rendeva l’ultimo anno del millennio [in realtà era il
penultimo, ma venne universalmente inteso come ultimo]
uno svincolo inevitabile, sia esso come ambientazione, si veda Strange Days
[1995,
regia di Kathryn Bygelow], sia esso come anno di uscita nelle
sale, e l’esempio più eclatante è probabilmente Matrix [The
Matrix, 1999, regia dei fratelli Wachowski].
Parlando di realtà virtuale, è normale attendersi una grande attenzione all’aspetto
visivo di questi testi e, in effetti, quelli citati, come molti altri dello
stesso tipo, sfruttarono a dovere la Computer Grafica e gli effetti speciali,
al tempo già sufficientemente evoluti, per fornire una confezione formale
accattivante. Matrix, a conti fatti, è ancora oggi invidiabile in tal
senso. Cronenberg non è però così interessato a convincere i suoi spettatori
che la realtà virtuale del suo film sia credibile; casomai è interessato a
farci dubitare della realtà in cui abitualmente viviamo, e, lavorando in questo
senso, può lasciare spiazzato –tanto per cambiare– il pubblico. In effetti eXistenZ,
come accennato, al botteghino fu un flop clamoroso, e questo nonostante il
regista fosse già famoso, avesse un pubblico di fedelissimi e trattasse un
tema, come visto, quanto mai attuale. D’altra parte eXistenZ proseguiva
nella serie di quei film ben poco concilianti con il pubblico, iniziata con Inseparabili
[Dead
Ringers, 1988], proseguita fino a Crash [1996]
e rinnovata quindi ulteriormente. La particolare estetica, non sempre
credibilissima e spesso biologicamente surreale, deve probabilmente essere
frutto del gusto dell’autore nato a Toronto ma in questo caso aveva una ragion
d’essere più razionale. Secondo Marshall McLuhan –il celebre sociologo canadese
a cui Cronenberg ha spesso fatto riferimento, in particolare in Videodrome
[1982]–
sosteneva che le invenzioni tecnologiche avessero, di fatto, esteso in modo
esponenziale la nostra capacità percettiva e, quindi, alterato in maniera,
perlomeno concettuale, la nostra stessa biologia. La creazione di quel «villaggio
globale» di cui il sociologo canadese parlava come
risultato dell’evoluzione dei media elettronici – radio, televisione – con la
possibilità di condivisione istantanea su tutto il globo tramite l’uso dei
satelliti, unita alla capacità potenziata di percepire notizie ed informazioni
da parte dell’individuo, anticipava, di fatto, le caratteristiche dei giochi di
simulazione basati sulla realtà virtuale. I social media porteranno poi questi
aspetti al limite dell’immaginabile ma, tornando alle scelte registiche di
Cronenberg a proposito di eXistenZ, diventa più chiaro il perché
l’autore abbia una poetica visiva così «biologica» e assai meno «tecnologica». In
effetti, computer, monitor, schermi, ologrammi, sono accessori tipici dei film
di fantascienza e sorprende che in eXistenZ non ve ne sia traccia. Questo
perché Cronenberg è sì interessato ai «media» –del resto «il medium è il
messaggio», per restare su McLuhan– ma nel senso appunto del «messaggio», del
contenuto. Quindi, per rappresentare al meglio quell’enorme organismo integrato
che è la nostra società, più che mettere in scena gli strumenti che lo rendono
tale, il regista preferisce dare una visione cinematografica dell’idea: la «nuova
carne», ovvero, i «game pod» di eXistenZ.
Del resto, Cronenberg non è mai stato tanto interessato a certi canoni estetici
del cinema, non lo era con gli horror degli inizi e non lo è nemmeno nel caso
di questa fantascienza distopica. È, a suo modo, assai più essenziale e
razionale: gli preme la realtà, quella vera, non quella virtuale. Certo è
clamoroso che, per analizzarla, utilizzi ancora una volta un cinema
metalinguistico, in questo caso, poi, addirittura ultra-metalinguistico. Un
cinema, l’arte che riflette la realtà, che parla di una realtà artificiale ma
che ha come obiettivo non tanto queste forme di finzione, ma il mondo reale. Il
concetto è: se, nel film, non si riesce a distinguere il vero dal falso,
nonostante sia tutto palesemente fasullo, posticcio, allora vuol dire siamo
abituati a credere –e a vivere– in una realtà non molto dissimile. Come
protagonisti del suo film, basato su una sceneggiatura dello stesso regista, Cronenberg
prende non a caso dei giocatori di videogiochi: è opinione diffusa che tra i
ludopatici della realtà virtuale più o meno spinta, si rischi una sorta di dipendenza
ma non solo. Il pericolo maggiore è, per essere gentili, il «narcisistico
torpore» di cui parlava ancora Marshall McLuhan; le
lusinghe dei giochi elettronici, la competizione che innescano, con gli altri
utenti ma anche e soprattutto con sé stessi, nell’autocompiacimento nel
divenire totalmente integrato con il mondo virtuale creatosi, erano, nel 1999, già
evidenti. In realtà non si trattava affatto di una novità, e non basta
scomodare i videodipendenti degli anni Ottanta perché McLuhan trovò
quell’efficace definizione a proposito di tecnologie assai più antiche, come,
ad esempio, la stampa a caratteri mobili. Se McLuhan ci vedeva lunghissimo e
Cronenberg almeno lungo, anche un orbo potrebbe accorgersi che, oggi, nel 2024,
gli smartphone e i social network hanno calato tutti quanti nel citato «narcisistico
torpore» in un modo finora sconosciuto. È di questo che parla eXistenZ,
di questo istupidimento che avvolge tutto e tutti e che non ci permette di comprendere
se siamo di fronte alla realtà o ad una sua simulazione. I protagonisti del
film non lo capiscono e nemmeno gli spettatori riuscirono ad orientarsi; questi
ultimi cercarono all’interno del film quegli ancoraggi per gustarsi la storia
–qualcosa di simile alle lusinghe dei media tecnologici avviene anche per i
fruitori di cinema, che fanno quasi gara a comprendere meglio un film– e, non trovandoli,
rimasero delusi. Essendo un testo metalinguistico nel senso profondo del
termine, questi rimandi andavano cercati fuori dalla realtà cinematografica di eXistenZ.
Il film, non a caso, si chiama esattamente come il mondo virtuale al centro
del racconto, anche se poi, nel finale, si scopre che in realtà ci si trovava
all’interno di un altro gioco, transCendenZ, e questo serve a descrivere la
sorta di scatole cinesi che è il lungometraggio, di cui la nostra quotidianità
è quella successiva, la scatola più grande.
Pur se evidenziando una criticità nella situazione, Cronenberg non fornisce una
tesi, una condanna, alle nuove tendenze, o almeno non esplicita e dichiarata.
Pare che l’ispirazione per il film venne data al regista canadese da
un’intervista a Salman Rushdie, autore dei Versetti satanici che gli
costarono la fatwa islamica, una sorta di condanna a morte. Secondo il
regista, Rushdie, con il suo libro, aveva messo in discussione la realtà
consolidata della tradizione islamica e, per poterla ripristinare, le autorità
religiose iraniane ritennero la sua eliminazione fisica l’unica soluzione. Cronenberg
trovò, probabilmente, un’analogia tra la sua condizione e quella di Rushdie:
anche al suo ultimo cinema veniva imputata la colpa di allontanarsi dalla
realtà accettata, comprensibile, i suoi film recenti, Il pasto nudo [Naked
lunch, 1992] e Crash sopra ogni altro
esempio. Allegra Geller (Jennifer Jason Leigh) oltre che la protagonista del
film, è la creatrice di eXistenZ, il gioco virtuale, e, praticamente in
apertura del racconto, subisce un attentato al grido di “Morte al demone
Allegra Geller!”. A volerla morta sono i «realisti» che l’accusano di aver
destabilizzato la realtà creando universi virtuali; in pratica, si tratta di
una difesa di un mondo, quello ritenuto reale, dall’ingerenza del virtuale o,
volendo aggiornare i termini, dell’IA, l’Intelligenza Artificiale. Cronenberg,
come detto, forse ci vede una possibile similitudine tra il suo cinema e il
resto della normale produzione, e, volendo, anche all’interno della sua stessa
filmografia, essendo la sua poetica divenuta via via sempre più ermetica, anche
per il suo stesso pubblico. Nel parapiglia successivo all’attentato, dove
Allegra rimane ferita, Ted Pikul (Jude Law), l’addetto al marketing
dell’Antenna Research, la società produttrice di eXistenZ, l’aiuta a
dileguarsi. Ted Pikul ha il ruolo proprio dello spettatore: colto e istruito, è
in pratica del tutto impreparato a qualsiasi situazione lo veda coinvolto. In
sostanza, l’«idiota tecnologico» di McLuhan, ultra-specializzato nel proprio
campo ma incapace, proprio per questo, di cogliere con uno sguardo critico ciò
che lo circonda. Egli, infatti, non ha ancora la «bioporta»,
orifizio artificiale praticato alla base della schiena dove i giocatori
devono inserire il cordone che li collega al «game pod»,
la consolle biotecnologica necessaria per accedere a eXistenZ. Nonostante
lavori per un’azienda produttrice di questi nuovi passatempi tecnologici, è
restio a queste forme di condivisione estrema che necessitano i giochi come
eXistenZ. Lo stesso atteggiamento di diffidenza che, di lì a pochi anni, avrebbero
manifestato quelle persone che, oggi, vengono definite appartenenti alle
generazioni «boomer» o «X», nei confronti dei social media come Facebook et
similia. Un atteggiamento non del tutto da biasimare, in realtà, considerato le
conseguenze che provocano questi media sulle persone, evidenziati, con una
certa ironia, dai loop in cui cadono spesso i personaggi del gioco. Questi inceppamenti
vanno sbloccati da un richiamo forte al contesto in cui si trovano, e sono, da
una parte una metafora dei nostri cliché comportamentali indotti dalle nuove tecnologie,
dall’altra espressione dal sottile umorismo che, rispetto al suo solito,
Cronenberg dispensa maggiormente nel film. Che, in modo un po’ sornione, si può
percepire anche nelle scene, dal sapore vagamente sessuale, relative alle citate
bioporte. Gli incastri narrativi della storia sono costruiti con mestiere da
Cronenberg, che si preoccupa poi che la resa visiva sullo schermo risulti
costantemente artificiale, anche negli scenari più realistici. I passaggi da un
piano del racconto all’altro, tra la realtà e il gioco, non sono evidenziati da
alcun espediente di montaggio cinematografico, risultando quindi
indistinguibili e confondendo tutti i livelli narrativi. La cosa è, in un certo
senso, proposta anche sotto il profilo etico: il gioco ha passaggi chiave
prestabiliti per potersi svolgere correttamente, questo a discapito del libero
arbitrio in senso assoluto dei personaggi. Che è poi la stessa situazione,
osserva Allegra, che si ha nella realtà. Questo punto è illuminante, e illustra
in modo implacabile l’illusione di libera scelta della nostra quotidianità. In
pratica, è come se Cronenberg rigirasse la frittata. Accusato di snaturare il
realismo della sua arte, il regista dimostra come non vi siano sostanziali
differenze tra i suoi onirici mondi e il nostro abituale contesto. Uscendo dal
cinema, come fanno Allegra e Ted dalla chiesa, nel finale, potremmo –o
dovremmo?– infatti ritrovarci anche noi a chiederci: “siamo ancora nel gioco?”.
il mio prof di Storia della Chiesa a lezione ha citato tantissime volte Matrix come esempio di "gnosticismo moderno"...
RispondiEliminacomunque condivido il discorso sul fatto che è bello curare anche il modo in cui si scrive il titolo di un film, mi vengono in mente i titoli all'interno dell'albo nei vecchi Zagor, ad esempio, quanta espressività!...
Mentre leggevo mi è venuta in mente la storia "Topolino e i casi X Y Z" :)
(io sono della generazione "Y" e ho vissuto per un po' un tempo in cui non c'era internet, di cui ho dolci ricordi...)
...ah, dimenticavo: 1999, anno fatidico per produrre un film del genere ;)
RispondiEliminaBeh, si in effetti, al tempo si temeva assai il cosiddetto "millenium bug", poi rivelatosi un bluff
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