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martedì 25 giugno 2024

INFERNO IN DIRETTA

1503_INFERNO IN DIRETTA . Italia 1985; Regia di Ruggero  Deodato.

Tra le motivazioni che resero i cannibal movie italiani tanto affascinanti –almeno per giovani e giovanissimi dell’epoca– c’era forse il palese disimpegno del genere. Intendiamoci: ragioni sociologiche per un simile fenomeno erano sicuramente alla base del successo, ma si trattava di situazioni ambientali, generiche e riferite al clima sociale che si respirava negli anni Settanta in Italia. Parlando dei testi filmici in sé, bisogna riconoscere che questi non avessero particolare profondità, e la cosa pare evidente. Soprattutto, la violenza così efferata, in particolare quella a danno degli animali, era puro nonsense: per quanto l’atmosfera potesse essere plumbea, e negli anni di piombo lo era di sicuro, perché diamine masse di giovanissimi si eccitavano parlando di una scena reale in cui una povera scimmietta finiva brutalmente ammazzata? Poteva davvero essere questa una risposta diretta alla violenza sociale? Forse, una simile aberrazione, apparentemente immotivata, era, piuttosto, l’anticipo del vuoto pneumatico che avrebbe caratterizzato la scena sociale dagli anni Ottanta in poi. Un vuoto che, negli anni Settanta, anni che avevano la violenza come linguaggio quotidiano, era colmato appunto da questa violenza, e che, nella Settima Arte, avrebbe dato luogo al genere più deviato della storia del cinema italiano. Queste impressioni furono evidentemente percepite anche dagli autori, o almeno dai principali del filone. Se Sergio Martino non aveva dato seguito alla sua unica incursione nella corrente, La montagna del dio cannibale (1978), Umberto Lenzi aveva cercato di chiudere la questione con il suo Cannibal Ferox (1981), un modo per prenderne anche le distanze. Ruggero Deodato, soprannominato Monsieur Cannibal, per la sua competenza nel genere, cercò invece una strada diversa per superare l’impasse, ovvero l’incapacità di giustificare un cinema tanto violento e senza ragione. In parte, la soluzione di Deodato, cristallizzata nel film Inferno in diretta, sembra quella di virare sulla pura avventura, e su questo aspetto niente da dire, era una scelta anche condivisibile. Oltretutto, quella avventurosa, era una traccia da sempre presente nei cannibal, che però veniva tenuta sullo sfondo dai peculiarissimi e sempre presenti cliché narrativi della “corrente”. Deodato cercò, con Inferno in diretta, di dare maggiore slancio alla componente avventurosa, tenendola sempre connessa alla matrice violenta, del resto la natura era violenta quasi per definizione, e, in questo modo, provare a mantenere una certa coerenza all’interno di questo particolare sottogenere cinematografico. 

La connessione con l’horror o con il cinema bellico erano ulteriori desinenze che alimentavano questa soluzione: il cannibal poteva quindi trasformarsi in un genere di film di ambientazione nella giungla, dove la violenza era notoriamente di casa, perdendo i suoi tratti più deleteri a favore di tematiche più accettate, come appunto quella orrorifica o quella bellica. In questo senso sembra anche andare il lavoro di Dardano Sacchetti che, nella stesura della sceneggiatura, dichiarò di essersi ispirato al romanzo Congo di Michael Crichton, non un riferimento da poco. Oltretutto, il film, in origine, era stato affidato a Wes Craven, che abbandonò, in seguito, il progetto; il regista americano era un altro pezzo da novanta in qualche modo riconducibile ad Inferno in diretta. In carriera, Craven era riuscito a trasformare gli impulsi di violenza anarchica degli esordi, L’ultima casa a sinistra (1972), in una seria e credibile critica alla società degli anni Ottanta, Nightmare, dal profondo della notte (1984). È quindi evidente che, tra eredità del progetto originario e ambizioni in sede di sceneggiatura, Deodato finisca per trovarsi per le mani un lavoro di un certo peso. Il cineasta italiano regge bene in fase di regia, dosa sapientemente il ritmo e la violenza efferata, dimostrandosi ancora una volta un maestro nella specialità. La presenza di un attore come Michael Berryman (è il folle Quecho) è un elemento controverso: la sua è una presenza ingombrante e la trama non sembra tenere in debito conto l’impatto che l’interprete americano ha sullo schermo, tanto che, in un paio di momenti, sembra quasi che Deodato si sia scordato del suo personaggio. Ma, tutto sommato, si tratta di dettagli narrativi di secondaria importanza. Bello l’incipit, con l’attacco nella giungla e il primo, e unico, passaggio antropofago del film; quasi un debito da scontare il prima possibile, da parte del regista, che poi si può concentrare su quello che davvero gli preme. 

Ovvero dimostrare una motivazione sociale alla violenza del film, anche attraverso la trama stessa del racconto, quasi a smentire l’eventuale impressione che le giustificazioni portate, nel corso degli anni, a difesa dei cannibal, fossero posticce e poco credibili. Almeno, questa è l’idea che tutta quanta la faccenda del traffico di stupefacenti lascia intendere. La droga era un problema sociale già da decenni ma, negli anni Ottanta, la coscienza collettiva nel merito andò sempre più facendosi consapevole. Le notizie sulla violenza che circondava il traffico di stupefacenti, indotte dall’immane circolo di denaro, avevano spostato il fuoco del problema: se nel decennio precedente la tossicodipendenza era vista perlopiù come malsana e pericolosa scorciatoia per affrontare le difficoltà della vita di un’intera generazione, ora il traffico di droga diveniva anche il volano per il dilagare di una violenza inaudita. L’intuizione di collegare il problema del narcotraffico con la violenza del cannibal poteva anche essere funzionale, ma non era onesta e, in fin dei conti, nemmeno credibile. È infatti proprio qui che Deodato scivola, nel suo tentativo di nobilitare il cinema di cui era ritenuto il maestro, Monsieur Cannibal, quando, lui per primo, avrebbe dovuto sapere che la violenza dei film sui cannibali non aveva motivazioni così scontate e prevedibili come quelle legate all’attualità, per quanto tragica. Forse era davvero il clima, l’aria che si respirava, a contaminare l’immaginazione dei giovanissimi degli anni Settanta. O forse era la natura stessa, di quella immaginazione, che per la prima volta da secoli nella Storia dell’Umanità, poteva finalmente rivelare la sua matrice più autentica. 

Gli sconquassi della rivoluzione sessantina avevano demolito le istituzioni tradizionali, sull’onda del motto quanto mai inequivocabile “né Dio, né Stato, né Famiglia”, e i ragazzi dei Settanta potevano finalmente pensare (quasi) liberamente. Era quindi violenta, la natura stessa dell’uomo? Ma certo che sì, la risposta a questa domanda è perfino banale. Quello che più inquieta nell’ipotesi formulata poc’anzi, è che, oltre che violenta, la natura umana può facilmente prendere una deriva sadica, qualora ne scorgesse l’opportunità. Era quello che succedeva, ad esempio, durante il periodo del Servizio di Leva, dove giovanotti abitualmente educati e “per bene”, si trasformavano in aguzzini degni delle SS, alimentando con impensabile vigore il becero fenomeno del nonnismo, che prosperò indisturbato per decenni nelle caserme italiane. Questa inclinazione, questa natura deviata, era –ed evidentemente è– alla base della natura stessa dell’uomo ed è quella che fece appassionare i giovani degli anni Settanta ai cannibal, proprio per la presenza dell’inaudita violenza. Non servivano pretesti; i pretesti erano stati eliminati dalla contestazione giovanile e ora la “bestia umana” era finalmente libera di manifestarsi. Presto, o relativamente presto, sarebbe arrivato il Politicamente Corretto, ad insabbiare ogni possibile elemento fuori registro, ma nel 1985 c’era ancora tempo per chi, come Deodato, poteva provare a spacciare il cannibal come genere in qualche modo legato alla contestazione sociale. Inferno in diretta è, in buona sostanza, un maldestro tentativo di far proprio questo: dare da intendere che i film dei cannibali fossero una manifestazione che risentiva della violenza del tempo. In realtà, la violenza nei cannibal ha una radice ben più profonda, appartiene alla natura umana forse più di ogni altra cosa, e fu, semmai, l’assenza di influenze, nello specifico quelle restrittive della morale costituita e tradizionale, a farla sgorgare. Il genere cannibal non è una risposta alla violenza sociale, ma è piuttosto, l’esplosione della violenza intrinsecamente individuale, qualcosa di assai più antico e personale. E, proprio per questo, così affascinante. Ancora oggi.    

  


Lisa Blount 


Valentina Forte 


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4 commenti:

  1. È anche l'epoca del debutto di Dylan Dog, c'era qualcosa nell'aria evidentemente...

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  2. Beh, gli Ottanta, il decennio pneumatico - nel senso di vuoto - favorirono molte "reazioni" sociali o fenomeni sociali, come fu appunto il nostro amato Dyd, forse proprio per la loro natura di vera o presunta libertà. Quello di Sclavi fu, secondo me, una reazione disperata di chi si sentiva disagiato rispetto al conformismo imperante - paninari ecc ecc. La cosa stupefacente, che ho costatato in prima persona in qualità di testimone diretto, è che, in capo a tre/quattro anni, tutta quella pletoria di giovani conformisti si riconobbe, tra la fine degli 80 e i primissimi 90, nella figura di Dylan. Dylan uscì alla fine del 86 come sorta di moto di sopravvivenza da parte di una "vittima" del conformismo anni 80: in breve si scoprì che questo disagio era comune proprio ai suoi "carnefici". Chiuso questo cerchio, anche il fumetto stesso si affievolì.

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  3. Ti ascolterei parlare di anni '80 (e di Dylan Dog) per ore, Giorgio! 😃👏🏻

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  4. Beh, essendoci passato attraverso nella mia fase cruciale, è un periodo che conosco.

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