1503_INFERNO IN DIRETTA . Italia 1985; Regia di Ruggero Deodato.

Tra le motivazioni che resero i cannibal movie
italiani tanto affascinanti –almeno per giovani e giovanissimi dell’epoca–
c’era forse il palese disimpegno del genere. Intendiamoci: ragioni sociologiche
per un simile fenomeno erano sicuramente alla base del successo, ma si trattava
di situazioni ambientali, generiche e riferite al clima sociale che si
respirava negli anni Settanta in Italia. Parlando dei testi filmici in sé,
bisogna riconoscere che questi non avessero particolare profondità, e la cosa
pare evidente. Soprattutto, la violenza così efferata, in particolare quella a
danno degli animali, era puro nonsense: per quanto l’atmosfera potesse essere
plumbea, e negli anni di piombo lo era di sicuro, perché diamine masse di
giovanissimi si eccitavano parlando di una scena reale in cui una povera
scimmietta finiva brutalmente ammazzata? Poteva davvero essere questa una
risposta diretta alla violenza sociale? Forse, una simile aberrazione,
apparentemente immotivata, era, piuttosto, l’anticipo del vuoto pneumatico che
avrebbe caratterizzato la scena sociale dagli anni Ottanta in poi. Un vuoto
che, negli anni Settanta, anni che avevano la violenza come linguaggio
quotidiano, era colmato appunto da questa violenza, e che, nella Settima Arte,
avrebbe dato luogo al genere più deviato della storia del cinema italiano.
Queste impressioni furono evidentemente percepite anche dagli autori, o almeno
dai principali del filone. Se Sergio Martino non aveva dato seguito alla sua
unica incursione nella corrente, La montagna del dio cannibale (1978),
Umberto Lenzi aveva cercato di chiudere la questione con il suo Cannibal
Ferox (1981), un modo per prenderne anche le distanze. Ruggero Deodato,
soprannominato Monsieur Cannibal, per la sua competenza nel genere, cercò
invece una strada diversa per superare l’impasse, ovvero l’incapacità di
giustificare un cinema tanto violento e senza ragione. In parte, la soluzione
di Deodato, cristallizzata nel film Inferno in diretta, sembra quella di
virare sulla pura avventura, e su questo aspetto niente da dire, era una scelta
anche condivisibile. Oltretutto, quella avventurosa, era una traccia da sempre
presente nei cannibal, che però veniva tenuta sullo sfondo dai
peculiarissimi e sempre presenti cliché narrativi della “corrente”. Deodato
cercò, con Inferno in diretta, di dare maggiore slancio alla componente
avventurosa, tenendola sempre connessa alla matrice violenta, del resto la
natura era violenta quasi per definizione, e, in questo modo, provare a
mantenere una certa coerenza all’interno di questo particolare sottogenere
cinematografico.

La connessione con l’horror o con il cinema bellico erano ulteriori
desinenze che alimentavano questa soluzione: il cannibal poteva quindi
trasformarsi in un genere di film di ambientazione nella giungla, dove la violenza
era notoriamente di casa, perdendo i suoi tratti più deleteri a favore di
tematiche più accettate, come appunto quella orrorifica o quella bellica. In
questo senso sembra anche andare il lavoro di Dardano Sacchetti che, nella
stesura della sceneggiatura, dichiarò di essersi ispirato al romanzo Congo
di Michael Crichton, non un riferimento da poco. Oltretutto, il film, in
origine, era stato affidato a Wes Craven, che abbandonò, in seguito, il
progetto; il regista americano era un altro pezzo da novanta in qualche modo
riconducibile ad Inferno in diretta. In carriera, Craven era riuscito a
trasformare gli impulsi di violenza anarchica degli esordi, L’ultima casa a
sinistra (1972), in una seria e credibile critica alla società degli anni
Ottanta, Nightmare, dal profondo della notte (1984). È quindi evidente
che, tra eredità del progetto originario e ambizioni in sede di sceneggiatura,
Deodato finisca per trovarsi per le mani un lavoro di un certo peso. Il
cineasta italiano regge bene in fase di regia, dosa sapientemente il ritmo e la
violenza efferata, dimostrandosi ancora una volta un maestro nella specialità. La
presenza di un attore come Michael Berryman (è il folle Quecho) è un elemento
controverso: la sua è una presenza ingombrante e la trama non sembra tenere in
debito conto l’impatto che l’interprete americano ha sullo schermo, tanto che,
in un paio di momenti, sembra quasi che Deodato si sia scordato del suo
personaggio. Ma, tutto sommato, si tratta di dettagli narrativi di secondaria
importanza. Bello l’incipit, con l’attacco nella giungla e il primo, e unico,
passaggio antropofago del film; quasi un debito da scontare il prima possibile,
da parte del regista, che poi si può concentrare su quello che davvero gli
preme.

Ovvero dimostrare una motivazione sociale alla violenza del film, anche
attraverso la trama stessa del racconto, quasi a smentire l’eventuale
impressione che le giustificazioni portate, nel corso degli anni, a difesa dei cannibal,
fossero posticce e poco credibili. Almeno, questa è l’idea che tutta quanta la
faccenda del traffico di stupefacenti lascia intendere. La droga era un
problema sociale già da decenni ma, negli anni Ottanta, la coscienza collettiva
nel merito andò sempre più facendosi consapevole. Le notizie sulla violenza che
circondava il traffico di stupefacenti, indotte dall’immane circolo di denaro,
avevano spostato il fuoco del problema: se nel decennio precedente la tossicodipendenza
era vista perlopiù come malsana e pericolosa scorciatoia per affrontare le
difficoltà della vita di un’intera generazione, ora il traffico di droga diveniva
anche il volano per il dilagare di una violenza inaudita. L’intuizione di
collegare il problema del narcotraffico con la violenza del cannibal
poteva anche essere funzionale, ma non era onesta e, in fin dei conti, nemmeno
credibile. È infatti proprio qui che Deodato scivola, nel suo tentativo di
nobilitare il cinema di cui era ritenuto il maestro, Monsieur Cannibal, quando,
lui per primo, avrebbe dovuto sapere che la violenza dei film sui cannibali non
aveva motivazioni così scontate e prevedibili come quelle legate all’attualità,
per quanto tragica. Forse era davvero il clima, l’aria che si respirava, a
contaminare l’immaginazione dei giovanissimi degli anni Settanta. O forse era
la natura stessa, di quella immaginazione, che per la prima volta da secoli
nella Storia dell’Umanità, poteva finalmente rivelare la sua matrice più
autentica.

Gli sconquassi della rivoluzione sessantina avevano demolito le
istituzioni tradizionali, sull’onda del motto quanto mai inequivocabile “né
Dio, né Stato, né Famiglia”, e i ragazzi dei Settanta potevano finalmente
pensare (quasi) liberamente. Era quindi violenta, la natura stessa dell’uomo?
Ma certo che sì, la risposta a questa domanda è perfino banale. Quello che più
inquieta nell’ipotesi formulata poc’anzi, è che, oltre che violenta, la natura
umana può facilmente prendere una deriva sadica, qualora ne scorgesse
l’opportunità. Era quello che succedeva, ad esempio, durante il periodo del
Servizio di Leva, dove giovanotti abitualmente educati e “per bene”, si
trasformavano in aguzzini degni delle SS, alimentando con impensabile vigore il
becero fenomeno del nonnismo, che prosperò indisturbato per decenni nelle
caserme italiane. Questa inclinazione, questa natura deviata, era –ed
evidentemente è– alla base della natura stessa dell’uomo ed è quella che fece appassionare
i giovani degli anni Settanta ai cannibal, proprio per la presenza
dell’inaudita violenza. Non servivano pretesti; i pretesti erano stati
eliminati dalla contestazione giovanile e ora la “bestia umana” era finalmente
libera di manifestarsi. Presto, o relativamente presto, sarebbe arrivato il
Politicamente Corretto, ad insabbiare ogni possibile elemento fuori registro,
ma nel 1985 c’era ancora tempo per chi, come Deodato, poteva provare a
spacciare il cannibal come genere in qualche modo legato alla
contestazione sociale. Inferno in diretta è, in buona sostanza, un maldestro
tentativo di far proprio questo: dare da intendere che i film dei cannibali
fossero una manifestazione che risentiva della violenza del tempo. In realtà,
la violenza nei cannibal ha una radice ben più profonda, appartiene alla
natura umana forse più di ogni altra cosa, e fu, semmai, l’assenza di
influenze, nello specifico quelle restrittive della morale costituita e
tradizionale, a farla sgorgare. Il genere cannibal non è una risposta
alla violenza sociale, ma è piuttosto, l’esplosione della violenza
intrinsecamente individuale, qualcosa di assai più antico e personale. E,
proprio per questo, così affascinante. Ancora oggi.

Lisa Blount