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sabato 29 giugno 2024

LA GUARDIA NERA

1505_LA GUARDIA NERA (The Black Watch). Stati Uniti 1929; Regia di John Ford.

Stando a quanto disse John Ford, il film La Guardia Nera venne modificato dopo che il regista aveva abbandonato la produzione. Sempre secondo l’autore, vennero aggiunte delle scene d’amore tra la bellissima Myrna Loy (la divina Yasmani) e il Capitano King (Victor McLaglen); scene che Ford giudicò inutili, lunghe e orribili (“mi venne da vomitare quando le vidi” per citare le parole con cui concluse il suo commento a riguardo). Ora, quelle che probabilmente sono le scene in questione, effettivamente non funzionano: la Loy è meno affascinante del solito (ma non dal punto di vista estetico, laddove è stupenda), mentre McLaglen è decisamente ingessato. Il punto è che, nonostante l’enorme stima verso il gigante del cinema che era John Ford, va detto che il produttore Winfield Sheehan probabilmente non aveva tutti i torti: la storia de La Guardia Nera era troppo scarna. Poi, d’accordo l’attore Lumsden Hare, che nel film interpreta il colonnello della Guardia Nera, era a malapena un attore e non certo un regista, e affidargli la direzione delle scene aggiuntive non fece che peggiorare le cose. Ma è un dato certo che La Guardia Nera è un film tuttora troppo esiguo come sostanza. Ford lascia il segno, è chiaro, e in ogni caso anche Myrna Loy è assolutamente memorabile; già McLaglen appare a disagio in una trama in cui dovrebbe far ricorso ad un carisma da star che, purtroppo per lui, non ha mai avuto. Tra i motivi di interesse del film vanno certamente ricordati i passaggi musicali a cui, evidentemente, Ford, alle prime armi col sonoro, non vedeva l’ora di ricorrere. In effetti, in rapporto alla durata del film e soprattutto all’intreccio, appaiono perfino eccessivi: nel tempo il regista riuscirà a dosare meglio l’apporto della musica, soprattutto nell’ambito dei suoi film imperniati sui corpi militari. Naturalmente l’ironia, presente anche se non in dosi non così massicce, è anche stavolta un altro elemento tipico di Ford, in questo caso impersonata principalmente nel combattente musulmano che chiede perdono ad Allah per la violenza che ha commesso immancabilmente appena prima di commetterne un’altra. C’è un po’ di mancanza del cosiddetto politicamente corretto, è evidente, e la schiettezza del regista americano è un’altra freccia all’arco del film, si veda come esempio la scena finale in cui i nostri si piazzano con le mitragliatrici contro l’avanzare dei ribelli armati unicamente di spade. Vero è che il capitano King riesce addirittura a convincere la guida dei rivoltosi, la divina Yasmani, ad ordinare la resa, per evitare inutili spargimenti di sangue. Ma qui c’è un’altra pennellata di pragmatico realismo di Ford, nella reazione dei mussulmani ribelli che, a fronte di un ordine che per una volta non li sproni alla guerra, decidono addirittura di eliminare quella che fino ad allora era stata trattata da loro come una vera dea. Molto evocativa la scena del successivo attacco dei bellicosi insorti tra i fasci di luci a moltiplicarne le ombre; un espediente tecnico dovuto, sempre secondo Ford, alla carenza di comparse, che dà luogo ad una raffinata rappresentazione. Più ordinarie le scene degli scozzesi impegnati nelle Fiandre; anzi, si potrebbe anche ritenerle sotto ad uno standard accettabile anche per l’epoca. Insomma, non ci siamo eppure qualcosa da salvare c’è, ne La Guardia Nera. Myrna Loy e tutto il suo esotico fascino in primis.








Mirna Loy 






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giovedì 27 giugno 2024

20 DAYS IN MARIUPOL

1504_20 DAYS IN MARIUPOL . Ucraina 2023; Regia di Matyslav Chernov.

Per descrivere dell’importanza di 20 days in Mariupol di Mstyslav Chernov si potrebbero citare i numerosissimi premi che l’opera ha ricevuto: a partire naturalmente dall’Oscar 2023 al «miglior lungometraggio documentario», oltre, tra gli altri, ai riconoscimenti al Sundance Film Festival, ai BAFTA, gli awards britannici, e poi ai Directors Guild of America e via di questo passo. Chernov, il regista, insieme a Evgeniy Maloletka e alle colleghe Vasilisa Stepanenko e Lori Hinnant, che hanno collaborato con lui alla realizzazione del documentario, hanno poi vinto anche il Premio Pulitzer. Ora, i riconoscimenti, si sa, lasciano il tempo che trovano, perché molto spesso sottostanno a dinamiche che non necessariamente hanno a che fare con la qualità delle opere. Non in questo caso. Per quanto, 20 days in Mariupol non sia un’opera d’arte che, grazie alla sua qualità, assurga al valore di verità assoluta, la verità dell’Arte. 20 days in Mariupol è semplicemente la verità nuda e cruda. Una verità terribile, inaccettabile e insostenibile, se ci si riferisce a quanto le immagini mostrano sullo schermo. Chernov, insieme a qualcuno dei suoi collaboratori, rimase intrappolato a Mariupol, per venti giorni, dopo il 24 febbraio 2022, documentando dall’interno l’atroce assedio russo alla «città di Maria». L’obiezione, che saremmo i primi a fare, è che non esiste un punto di vista oggettivo, l’abbiamo imparato a scuola, già studiando Giovanni Verga e il Verismo, e poi nei corsi di cinema, con il cortocircuito metalinguistico innescato dal Cineocchio di Dziga Vertov. Temi filosofici, temi importanti; invece, un punto di vista oggettivo c’è eccome, e te ne rendi conto quanto ti stanno puntando contro il cannone di un carro armato. E il terrore ti assale incontrollabile. O quando vedi un ragazzino di 16 anni ferito da un missile mentre giocava a pallone e, qualche giorno dopo, vedi suo padre disperato perché Ilya, il figlio, non ce l’ha fatta. Ma ha ragione Vladimir –il poliziotto che aiuta i nostri reporter che, macabra ironia della sorte, si chiama proprio così– quando sostiene che la scena più importante sia un’altra. 

Del resto Vladimir deve essere un mezzo filosofo, visto che è sua l’interessante osservazione secondo cui la guerra sia una sorta di acceleratore della realtà: i buoni diventano migliori, i cattivi diventano peggiori. In ogni caso, la scena madre, ed è proprio il caso di dirlo, di 20 days in Mariupol –e forse dell’intera guerra– è il bombardamento al Reparto di Maternità n.3 dell’ospedale di Mariupol. La celeberrima scena con la donna che ha appena partorito, Iryna, che viene portata fuori in barella dalla struttura distrutta, è opera di Chernov che era presente e riprese tutto quanto con la sua tremolante ma implacabile cinepresa. A parte l’essere nel posto giusto al momento giusto per cogliere quanto succedeva, il problema, uno tra i tantissimi, era poi la difficoltà a connettersi nella rete internet; non sempre era e quindi possibile inviare il frutto delle riprese all’agenzia AP Associated Press per la successiva distribuzione agli organi di stampa. Naturalmente, il regista, si era trovato alle prese anche con problemi di coscienza, a fronte di persone la cui esistenza era stata distrutta mentre lui stava realizzando il suo film, proprio su questo argomento. Ma la sua opera è di un’importanza ineluttabile. Quando Chernov vide le notizie, provenienti dalla Russia, secondo cui il bombardamento al Reparto Maternità n.3 era una finzione degna di un Mondo movie italiano degli anni Sessanta, ovvero frutto di accurata artificiosa ricostruzione, è tornato sul luogo del crimine. Qui non ha trovato più la povera Iryna, morta, nel frattempo, così come la figlia neonata. E come si fa a sapere se questa è davvero la verità? Si guarda 20 days in Mariupol, si guarda negli occhi l’infermiera che risponde alle domande. 

L’agente Vladimir, oltre che un eroe, è anche un ingenuo, perché pensava che quella scena avrebbe fatto smettere il conflitto. In realtà, perfino in Italia, sui social e non solo, sono circolate con insistenza e approvazione quelle voci sulla presunta ricostruzione filmica del bombardamento al Reparto Maternità n.3, come su altre atrocità. Guardando 20 days in Mariupol è facile convenire che nemmeno Steven Spielberg e tutte le major di Hollywood riunite avrebbero potuto mettere in scena un tale pandemonio. Pur con tutto il rispetto possibile per coloro sono morti e coloro hanno sofferto, la cosa più schifosa di questa vicenda è come alcuni, soprattutto in occidente, abbiano scelto di non vedere, non credere. Pregiudizio, negazionismo a prescindere, volontà mal riposta di non piegarsi alla propaganda di regime, per cui si sottostà ad altra propaganda di altro regime, insomma, le ragioni si conoscono e, in qualche ambito e in qualche misura, possono anche essere comprese se non proprio condivise. Ma non in questo caso. Tale comportamento è, in questa circostanza, ignobile. Si potrebbe chiudere con un po’ di sana retorica morale, constatando come i bombardamenti su obiettivi civili abbiano ucciso anche la capacità di discernere il vero dal falso, negli occhi e nei cuori di molti occidentali. Ma non è vero. Erano già morti da un pezzo.  
Ma sarebbe una chiusa narrativamente retorica che metterebbe in primo piano meschinità, che, al confronto con quanto successo a Mariupol, non meritano certo la ribalta. Ribalta che, pur con tutti i pregi che gli si riconoscono, forse non merita nemmeno Chernov, «l’uomo con la macchina da presa tremolante», incerta e insicura, certo, nella sua ripresa, ma implacabile nel mostrare la Verità Assoluta. Questa sì che si erge sopra qualsiasi altra cosa, la Verità. Perché, caro Giovanni (Verga), quando sei al cospetto di un Tank con la Z bianca che si aggira in un quartiere residenziale, se inquadri il carro armato, vedi bene quello che sta facendo, ma se inquadri anche da qualche altra parte, vedi comunque i tragici effetti di quello che sta combinando. Non ci sono scuse o disquisizioni filosofiche che tengano di fronte alla morte di civili bersagliati da cecchini, missili e cannoni. 20 days in Mariupol mette tutti spalle al muro: chi ha ucciso, chi ha mentito, chi ha chiuso gli occhi e fatto finta di niente. Ma non c’è di che temere: Storia insegna che la si farà franca anche stavolta. E sulla coscienza di ognuno, purtroppo, è evidente che è inutile contare. 










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martedì 25 giugno 2024

INFERNO IN DIRETTA

1503_INFERNO IN DIRETTA . Italia 1985; Regia di Ruggero  Deodato.

Tra le motivazioni che resero i cannibal movie italiani tanto affascinanti –almeno per giovani e giovanissimi dell’epoca– c’era forse il palese disimpegno del genere. Intendiamoci: ragioni sociologiche per un simile fenomeno erano sicuramente alla base del successo, ma si trattava di situazioni ambientali, generiche e riferite al clima sociale che si respirava negli anni Settanta in Italia. Parlando dei testi filmici in sé, bisogna riconoscere che questi non avessero particolare profondità, e la cosa pare evidente. Soprattutto, la violenza così efferata, in particolare quella a danno degli animali, era puro nonsense: per quanto l’atmosfera potesse essere plumbea, e negli anni di piombo lo era di sicuro, perché diamine masse di giovanissimi si eccitavano parlando di una scena reale in cui una povera scimmietta finiva brutalmente ammazzata? Poteva davvero essere questa una risposta diretta alla violenza sociale? Forse, una simile aberrazione, apparentemente immotivata, era, piuttosto, l’anticipo del vuoto pneumatico che avrebbe caratterizzato la scena sociale dagli anni Ottanta in poi. Un vuoto che, negli anni Settanta, anni che avevano la violenza come linguaggio quotidiano, era colmato appunto da questa violenza, e che, nella Settima Arte, avrebbe dato luogo al genere più deviato della storia del cinema italiano. Queste impressioni furono evidentemente percepite anche dagli autori, o almeno dai principali del filone. Se Sergio Martino non aveva dato seguito alla sua unica incursione nella corrente, La montagna del dio cannibale (1978), Umberto Lenzi aveva cercato di chiudere la questione con il suo Cannibal Ferox (1981), un modo per prenderne anche le distanze. Ruggero Deodato, soprannominato Monsieur Cannibal, per la sua competenza nel genere, cercò invece una strada diversa per superare l’impasse, ovvero l’incapacità di giustificare un cinema tanto violento e senza ragione. In parte, la soluzione di Deodato, cristallizzata nel film Inferno in diretta, sembra quella di virare sulla pura avventura, e su questo aspetto niente da dire, era una scelta anche condivisibile. Oltretutto, quella avventurosa, era una traccia da sempre presente nei cannibal, che però veniva tenuta sullo sfondo dai peculiarissimi e sempre presenti cliché narrativi della “corrente”. Deodato cercò, con Inferno in diretta, di dare maggiore slancio alla componente avventurosa, tenendola sempre connessa alla matrice violenta, del resto la natura era violenta quasi per definizione, e, in questo modo, provare a mantenere una certa coerenza all’interno di questo particolare sottogenere cinematografico. 

La connessione con l’horror o con il cinema bellico erano ulteriori desinenze che alimentavano questa soluzione: il cannibal poteva quindi trasformarsi in un genere di film di ambientazione nella giungla, dove la violenza era notoriamente di casa, perdendo i suoi tratti più deleteri a favore di tematiche più accettate, come appunto quella orrorifica o quella bellica. In questo senso sembra anche andare il lavoro di Dardano Sacchetti che, nella stesura della sceneggiatura, dichiarò di essersi ispirato al romanzo Congo di Michael Crichton, non un riferimento da poco. Oltretutto, il film, in origine, era stato affidato a Wes Craven, che abbandonò, in seguito, il progetto; il regista americano era un altro pezzo da novanta in qualche modo riconducibile ad Inferno in diretta. In carriera, Craven era riuscito a trasformare gli impulsi di violenza anarchica degli esordi, L’ultima casa a sinistra (1972), in una seria e credibile critica alla società degli anni Ottanta, Nightmare, dal profondo della notte (1984). È quindi evidente che, tra eredità del progetto originario e ambizioni in sede di sceneggiatura, Deodato finisca per trovarsi per le mani un lavoro di un certo peso. Il cineasta italiano regge bene in fase di regia, dosa sapientemente il ritmo e la violenza efferata, dimostrandosi ancora una volta un maestro nella specialità. La presenza di un attore come Michael Berryman (è il folle Quecho) è un elemento controverso: la sua è una presenza ingombrante e la trama non sembra tenere in debito conto l’impatto che l’interprete americano ha sullo schermo, tanto che, in un paio di momenti, sembra quasi che Deodato si sia scordato del suo personaggio. Ma, tutto sommato, si tratta di dettagli narrativi di secondaria importanza. Bello l’incipit, con l’attacco nella giungla e il primo, e unico, passaggio antropofago del film; quasi un debito da scontare il prima possibile, da parte del regista, che poi si può concentrare su quello che davvero gli preme. 

Ovvero dimostrare una motivazione sociale alla violenza del film, anche attraverso la trama stessa del racconto, quasi a smentire l’eventuale impressione che le giustificazioni portate, nel corso degli anni, a difesa dei cannibal, fossero posticce e poco credibili. Almeno, questa è l’idea che tutta quanta la faccenda del traffico di stupefacenti lascia intendere. La droga era un problema sociale già da decenni ma, negli anni Ottanta, la coscienza collettiva nel merito andò sempre più facendosi consapevole. Le notizie sulla violenza che circondava il traffico di stupefacenti, indotte dall’immane circolo di denaro, avevano spostato il fuoco del problema: se nel decennio precedente la tossicodipendenza era vista perlopiù come malsana e pericolosa scorciatoia per affrontare le difficoltà della vita di un’intera generazione, ora il traffico di droga diveniva anche il volano per il dilagare di una violenza inaudita. L’intuizione di collegare il problema del narcotraffico con la violenza del cannibal poteva anche essere funzionale, ma non era onesta e, in fin dei conti, nemmeno credibile. È infatti proprio qui che Deodato scivola, nel suo tentativo di nobilitare il cinema di cui era ritenuto il maestro, Monsieur Cannibal, quando, lui per primo, avrebbe dovuto sapere che la violenza dei film sui cannibali non aveva motivazioni così scontate e prevedibili come quelle legate all’attualità, per quanto tragica. Forse era davvero il clima, l’aria che si respirava, a contaminare l’immaginazione dei giovanissimi degli anni Settanta. O forse era la natura stessa, di quella immaginazione, che per la prima volta da secoli nella Storia dell’Umanità, poteva finalmente rivelare la sua matrice più autentica. 

Gli sconquassi della rivoluzione sessantina avevano demolito le istituzioni tradizionali, sull’onda del motto quanto mai inequivocabile “né Dio, né Stato, né Famiglia”, e i ragazzi dei Settanta potevano finalmente pensare (quasi) liberamente. Era quindi violenta, la natura stessa dell’uomo? Ma certo che sì, la risposta a questa domanda è perfino banale. Quello che più inquieta nell’ipotesi formulata poc’anzi, è che, oltre che violenta, la natura umana può facilmente prendere una deriva sadica, qualora ne scorgesse l’opportunità. Era quello che succedeva, ad esempio, durante il periodo del Servizio di Leva, dove giovanotti abitualmente educati e “per bene”, si trasformavano in aguzzini degni delle SS, alimentando con impensabile vigore il becero fenomeno del nonnismo, che prosperò indisturbato per decenni nelle caserme italiane. Questa inclinazione, questa natura deviata, era –ed evidentemente è– alla base della natura stessa dell’uomo ed è quella che fece appassionare i giovani degli anni Settanta ai cannibal, proprio per la presenza dell’inaudita violenza. Non servivano pretesti; i pretesti erano stati eliminati dalla contestazione giovanile e ora la “bestia umana” era finalmente libera di manifestarsi. Presto, o relativamente presto, sarebbe arrivato il Politicamente Corretto, ad insabbiare ogni possibile elemento fuori registro, ma nel 1985 c’era ancora tempo per chi, come Deodato, poteva provare a spacciare il cannibal come genere in qualche modo legato alla contestazione sociale. Inferno in diretta è, in buona sostanza, un maldestro tentativo di far proprio questo: dare da intendere che i film dei cannibali fossero una manifestazione che risentiva della violenza del tempo. In realtà, la violenza nei cannibal ha una radice ben più profonda, appartiene alla natura umana forse più di ogni altra cosa, e fu, semmai, l’assenza di influenze, nello specifico quelle restrittive della morale costituita e tradizionale, a farla sgorgare. Il genere cannibal non è una risposta alla violenza sociale, ma è piuttosto, l’esplosione della violenza intrinsecamente individuale, qualcosa di assai più antico e personale. E, proprio per questo, così affascinante. Ancora oggi.    

  


Lisa Blount 


Valentina Forte 


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domenica 23 giugno 2024

IL SEGNO DELLA LEGGE

1502_IL SEGNO DELLA LEGGE (The Tin Star). Stati Uniti 1957; Regia di Anthony Mann.

Quando si parla dei mirabili western di Anthony Mann, uno degli assoluti maestri del genere, abitualmente si citano i cinque film nei quali James Stewart fu protagonista, che vanno da Winchester ’73 (1950) a L’uomo di Laramie (1955). In realtà, già l’approccio di Mann al genere fu notevole, con Il Passo del Diavolo (1950) e, almeno fino al 1958 del capolavoro Dove la terra scotta, il regista americano si dimostrò a pieno agio tra i paesaggi della frontiera. Tra i western sottovalutati del regista c’è sicuramente Il segno della Legge, del 1957; basato su una sceneggiatura di Dudley Nichols, l’opera soffre un po’ della simbolica e manichea impostazione che Nichols dava alle sue storie. Il ruolo del protagonista, Morgan Hickman, un ex sceriffo ora cacciatore di taglie, stando al sito IMDb, era stato previsto per James Stewart, un habitué di Mann, ma finì poi sulle spalle di Henry Fonda. Questo contribuì, in un certo senso, ad aumentare lo schematismo del film, perché Jimmy Stewart, se aveva un lato tenero perfino più tenero di Fonda e dei suoi occhioni chiari, aveva sepolta in profondità una metà oscura che, forse, solo Mann sapeva stanare, e che, nel caso, era davvero inquietante. Con Fonda questo non poteva accadere: l’attore era stato in grado di interpretare l’americano più illustre, Abramo Lincoln (Alba di Gloria, 1939, di John Ford), e quello più spiantato, Tom Joad (Furore, 1940, sempre di Ford) e, sempre a schiena dritta, era passato indenne pure attraverso i tranelli di Hitchcock (Il ladro, 1956). Oltretutto, in quel 1957, era probabilmente ancora negli occhi di molti la sua interpretazione dell’uomo ragionevole e giusto ne La parola ai giurati (1957, regia di Sidney Lumet), tra i manifesti liberal del tempo. Il western, che aveva l’incarico «ufficiale» di celebrare la nascita della nazione americana e per farlo creava degli eroi cinematografici, si era già reso conto che Fonda avesse anch’egli un suo lato oscuro, e che era esattamente il rovescio della medaglia della sua apparente integrità morale. 

Lo stesso Ford ne Il massacro di Fort Apache (1948) aveva cominciato a guardare oltre la pulita presenza scenica dell’attore, e su quella strada avevano poi proseguito, tra gli altri, Edward Dmytryk (Ultima notte a Warlock, 1959) e Sergio Leone (C’era una volta il west, 1968). Ma, come detto, nel 1957 l’eco di La parola ai giurati doveva essere ancora forte: anche alla luce di ciò, il Morgan Hickman interpretato da Henry Fonda dovette apparire, quindi e senza alcun dubbio, un personaggio positivo, solamente amareggiato dalle tragedie della vita. In questo senso, la sua interpretazione, di gran lunga la più ingombrante nel film, rinfranca lo schematismo di cui si diceva, per cui, ad esempio, il «cattivo» della storia, Bart Bogardus (Neville Brand) è un personaggio negativo in tutti i sensi che il copione gli propone. È nemico di Morgan, dello sceriffo Ben (Anthony Perkins) e perfino di Kip (Michel Ray) un ragazzino; insomma, una caratterizzazione psicologica piuttosto marcata; tra i villain della vicenda, va aggiunto poi Lee Van Cleef, specialista nei ruoli di cattivo. La splendida fotografia in bianco e nero, di Loyal Griggs, alimenta il senso manicheo della vicenda dove uno sceriffo troppo inesperto ed idealista –Perkins perfetto per il ruolo– è tenuto in ostaggio dall’ipocrisia della borghesia cittadina. Gli abitanti più illustri vogliono che la loro bella città si elevi dalla barbarie del far west e pretendono che la Legge sia applicata senza ricorso alla violenza; ideale condiviso anche dallo sceriffo Ben, sia chiaro, che però deve metterci la faccia direttamente, all’occorrenza. Ma tutto ciò, ad inizio film, ancora non è noto, perché nel perfetto incipit, vediamo semplicemente un uomo a cavallo con un cadavere appresso. 

Accompagnate dalle splendide note di Elmer Bernstein, un classico motivo western, sulle immagini della tipica natura del west americano scorrono gli eleganti titoli di testa; quando finiscono, si arriva finalmente in città. L’ingresso nella civiltà è segnato da un’inquadratura che, sfruttando l’architettura dei portici delle abitazioni, incornicia il nuovo venuto. Nel corso della pellicola c’è più di un’immagine, di questo tipo, ma in questa iniziale sequenza c’è una «composizione» tipica del regista americano, davvero magistrale: Morgan, sceso da cavallo, entra nell’ufficio dello sceriffo mentre la luce di porte e finestre ritaglia lo spazio attraverso cui si vedono, in ognuna delle aperture, altri personaggi. Non è, naturalmente un vezzo stilistico, perché la scena è carica della muta tensione scaturita dagli sguardi ostili e interrogativi degli abitanti della cittadina al centro della scena, che vedono arrivare un tizio che si accompagna ad un morto. Mann sembra quindi sottolineare, già dal primo vero fotogramma del suo racconto filmico, come la storia, inquadrata dentro schemi piuttosto rigidi, sia una sorta di rappresentazione. Quasi una recita dentro la recita: Morgan, infatti, è un ex sceriffo onesto che si ostina a fingersi freddo e calcolatore cacciatore di taglie mentre gli squali della borghesia cittadina si presentano ipocritamente come persone rispettabili. Lo sceriffo Ben, da parte sua, viene letteralmente sorpreso da Morgan, mentre «gioca» con le pistole, e la presenza e l’importanza nella storia di un ragazzino come Kip, certifica questa deriva leggera, si veda anche come si risolve senza traumi la sua scomparsa nel finale. Del resto gli attori, in inglese, sono definiti «players», un termine utilizzato anche per coloro che giocano. Con uno sceriffo imbranato, un ex sceriffo che, al di là delle sue esternazioni, è uomo di coscienza, e un cattivo a tutto tondo, è evidente quale sarà la parabola della vicenda. Il segno della Legge è, in sostanza, una storia di formazione, con Ben che imparerà da Morgan come essere uomo, prima che uomo di legge, e con Morgan che, negli ideali del giovane, troverà lo sprone a smetterla con la cinica disillusione in cui si è rifugiato. Nella prevedibilità del racconto c’è un primo punto debole del film, che non regge nemmeno nella scelta, nel finale, di chiudere la questione non solo in modo edulcorato, la cattura dei banditi senza colpo ferire, ma anche e soprattutto coinvolgendo il piccolo Kip senza poi metterne a rischio in qualche modo l’incolumità.  

Ciò toglie, paradossalmente, tensione al racconto: lo spettatore è preoccupato, prima di tutto, per la sorte del ragazzino; quando questi viene rapidamente messo al sicuro, l’attenzione per la vicenda perde inevitabilmente di tono. A quel punto era meglio non coinvolgerlo del tutto. Detto questo, il film è formalmente girato in modo superbo da Mann, a partire dal citato e splendido incipit senza parole, alle magistrali scene dei duelli, giocate su più piani. Oltre a questa pregevolezza calligrafica delle immagini del film, Il segno della Legge, se non affonda nemmeno le varie tracce romantiche, dissemina qualche indizio sulla gravità della «questione indiana». In una cittadina americana, che ostenta il suo essere emancipata dai tempi del selvaggio west, è normale che il «cattivo» del paese freddi per la strada un indiano e venga scagionato da qualsiasi accusa, senza nemmeno un processo. Nella stessa civilizzata collettività, una donna, Nona (Betsy Palmer) è emarginata perché vedova di un nativo; e suo figlio Kip è giusto tollerato, essendo un «mezzosangue». Lo stesso protagonista, Morgan, l’eroe della vicenda, è palesemente razzista: i meticci li riconosce a vista, cosa evidenziata in più di un’occasione. Quando a Nona, con la quale intesse una storia sentimentale, chiede delle origini di Kip, c’è un interessante scambio di battute. La donna, che ha patito sulla propria pelle la discriminazione razziale per via del marito, spiega a Morgan come gli indiani siano persone né più né meno come le altre. L’uomo non replica, nel merito, ma si limita ad osservare come sia difficile cambiare una convinzione radicata dall’educazione ricevuta. Il segno della Legge, pur nel breve tempo che dedica agli indiani, è un testo importante in questo senso, perché vi è l’ammissione che l’ostilità verso i nativi non aveva ragioni di esistere se non nella sua stessa esistenza. “Ci hanno allevato così” ammette Morgan, e alle ragionevoli repliche della di Nona, conclude amaro: “non si cambia, quando si è cresciuti odiandoli”. Ma è solo un’altra delle sue tante bugie: prima della fine del film, aiuterà Ben, si rimetterà la stella di latta, avrà la sua storia romantica con Nona e smetterà di odiare gli indiani. Si è detto, che il film ha un finale edulcorato, ma in un testo simbolico è più che ammissibile.
Oltre che onesto.   










Betsy Palmer 



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