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venerdì 31 maggio 2024

EUROPA DI NOTTE

1490_EUROPA DI NOTTE . Italia, 1959; Regia di Alessandro Blasetti.

Quando si parla di Mondo movie, viene in mente subito Gualtiero Jacopetti. In effetti, il giornalista/scrittore toscano merita il titolo di padre di quel particolare genere di film che salì alla ribalta con il famigerato Mondo Cane, uscito nel 1962 e diretto non solo da Jacopetti, ma anche da Paolo Cavara e Franco Prosperi. Tuttavia, la figura di Jacopetti era talmente invadente che, almeno da questo lato dell’albero genealogico del genere, possiamo ritenerlo il riferimento principale. Perché, e questo può anche essere sorprendente, i Mondo movie hanno anche un altro genitore, che non è né Cavare e né Prosperi, che possono essere al massimo gli zii del genere cinematografico in questione. Influenti, d’accordo, perché il loro lavoro sarà, in modi e quantità diversi, continuativo per tutto il periodo cruciale che ebbero questi particolarissimi film. Ma ha dare i natali a questo singolare tipo di documentari fu, forse più di ogni altro, Alessandro Blasetti. Fu infatti su suo incarico, che Jacopetti partì alla volta dell’Europa notturna alla ricerca di situazioni intriganti da inserire nel progetto Europa di notte. E fu proprio durante questa missione che il giornalista toscano, qui nella veste di sceneggiatore e autore del testo fuori campo, che ebbe l’ispirazione per Mondo Cane. Al di là del suo rapporto con i Mondo movie, Blasetti è giustamente considerato uno dei padri del cinema italiano, nel quale annovera una serie di primati nient’affatto trascurabile. Regista di riferimento del cinema del Ventennio Fascista, precursore del cinema dei Telefoni Bianchi, con L’impiegata di papà (1934), del Fantasy italiano, con La corona di ferro (1941) e dei film a episodi, con Altri Tempi – Zibaldone n. 1 (1952). Suo è il primo film sonoro, Resurrectio (1930), perlomeno come realizzazione, e l’utilizzo del colore, con il cortometraggio La caccia alla volpe nella campagna romana (1938). 

Fu soprattutto un maestro della commedia italiana ma, giusto  per rimarcare ancora una volta il suo eclettismo, 4 passi tra le nuvole (1942), anche quando non viene inserito nella filmografia del Neorealismo, gli consente un posto tra i precursori della corrente più illustre del cinema italiano. E grazie ad Europa di notte, che fu a sua volta, una novità nel panorama cinematografico italiano, è ancora a lui che, abitualmente, si fa riferimento quando si parla dell’origine dell’anomalo fenomeno dei Mondo movie. In realtà il legame è unicamente strutturale: cioè la composizione frammentaria, e priva anche di semplici raccordi tra un segmento filmico e l’altro, Jacopetti, per il suo Mondo Cane, la prese proprio da Europa di notte. Ma, al di là di altre analogie –ad esempio, il commento ironico, del resto opera dello stesso Jacopetti– quello che è diverso lo è in modo sostanziale. La caratteristica principale dei Mondo movie fu infatti l’utilizzo strumentale delle immagini, teso non tanto a seguire uno scopo specifico o preciso, ma piuttosto a destabilizzare tutto quanto quello che veniva percepito dallo spettatore, il “mondo”, se vogliamo utilizzare un termina quanto mai appropriato. Blasetti, in ossequio alla sua capacità di adattamento, non prende certo una posizione tanto drastica. Il suo sguardo complessivo, in Europa di notte, è calibrato in modo da lanciare il sasso nascondendo la mano, come recita un modo di dire che ben spiega lo spirito del film. 

Ci sono dei frammenti stuzzicanti, del resto il titolo del film è un evidente richiamo in tal senso. Ma, insieme a spettacoli di varietà con pagliacci e prestigiatori, si possono ammirare le gambe delle ballerine dei night club e tabarin delle capitali europee, ma Blasetti non si spinge mai oltre il lecito concesso dalla censura. Per quanto, lo spettatore sia comunque istigato a dovere, andando ad esempio, a scovare un personaggio come Coccinelle, una tra le prime transessuali della storia, sapendo bene che la cosa avrebbe creato un certo riscontro senza bisogno di mostrare niente di eccessivo. In effetti, un critico severo nei confronti dei Mondo movie come Morando Morandini, così definisce Europa di notte: “È il film-inchiesta che, con ineguagliata eleganza, diede il via ad un esecrabile e sensazionalistico filone sexy che imperversò negli anni Sessanta. (…) fa spettacolo sullo spettacolo.” [Morando Morandini. Il dizionario dei film 2003, Bologna. Zanichelli Editore, 2002]. In realtà è un film sostanzialmente innocuo, che si finge stuzzicante ma è ligio a non uscire dal seminato. Quanto all’eleganza formale, certamente Blasetti sa il fatto suo, e i suoi collaboratori anche; in questo senso, va messo a referto il Nastro D’Argento 1960 vinto da Gábor Pogány per la migliore fotografia a colori. Il film ebbe un notevole successo di pubblico, la critica approvò: guardandolo oggi, onestamente, qualcosa non torna. E, paradossalmente, il merito maggiore che gli si può riconoscere, è proprio quello che, almeno secondo alcuni, è il tasto dolente dell’intera faccenda. L’ineffabile Blasetti, il regista del Ventennio Fascista e di 4 passi tra le nuvole, è riuscito anche stavolta a preparare la strada a qualcosa di nuovo. Se, al netto della pessima fama, i Mondo movie possano definirsi un evento in qualche modo positivo, è certamente tutto da stabilire; comunque sia, parte del merito –o forse bisognerebbe dire della colpa, dando retta alla critica ufficiale– è di Blasetti e del suo Europa di notte. E, in fondo, questo è un elemento più interessante che disquisire sulla qualità o sull’eleganza di un innocuo documentario sui tabarin d’epoca.

Coccinelle 




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mercoledì 29 maggio 2024

L'ALBERO DELLA VENDETTA

1489_L'ALBERO DELLA VENDETTA (Ride lonesome). Stati Uniti, 1959; Regia di Budd Boetticher.

Il regista Budd Boetticher è uno dei pochi cineasti in grado di girare B-Movie come fossero produzioni più importanti. É il caso anche di questo ottimo L’albero della vendetta, che, pur disponendo del formato Cinemascope e degli ottimi colori della Eastman Color, ed essendo girato completamente in esterni di grande impatto visivo –le Alabama Hills presso Lone Pine, California– rimane per sua natura intrinseca un solido film di serie B. Però si tratta di serie B di ottima fattura: secco e concentrato sul proprio tema, senza fronzoli, dritto a bersaglio. La trama, opera del bravo Burt Kennedy –soggetto e sceneggiatura– è lineare, niente di complicato; ma i suoi risvolti si dipanano un poco alla volta, tenendo sempre lo spettatore sulla corda. Ben Brigade (l’ineffabile Randolph Scott) sta dando la caccia ad un fuorilegge; poi si scopre che in realtà la caccia è un diversivo per attirare il fratello del bandito; e non è la taglia che interessa a Brigade, ma una quello che vuole questi è una vendetta da consumare. Questo meccanismo è utilizzato anche per svelare man mano le intenzioni di Sam e Whit, i due uomini che incontra Brigade, e, nel complesso permette di tenere sempre vivo l’interesse sulla vicenda, perché il quadro generale della vicenda, come detto, muta e si chiarisce progressivamente. Questo pur rimanendo nei canoni delle produzioni minori, i B-Movie, appunto. Le psicologie dei personaggi, in effetti, non compiono particolari evoluzioni o sviluppi, nel tempo –se non Sam che, per un certo periodo, rimane in bilico– ma sono piuttosto figure adatte allo scopo del racconto. Maestro, in questo, Randolph Scott, non troppo espressivo ma solido e adeguato al livello di racconto e produzione; da ricordare Lee Van Cliff, nei panni del fratello cattivo del bandito, e James Coburn, in quelli del poco sveglio With, per un cast di sorprendente livello. In quest’ottica, doverosa la chiusura dedicata a Karen Steele, davvero troppo bella per un B-Movie. Del resto, la bravissima attrice americana, è uno dei grandi rimpianti di Hollywood, non avendo avuto il posto che avrebbe meritato nell’Olimpo delle Star del cinema. 







Karen Steele 






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lunedì 27 maggio 2024

IL GIORNO PIU' CORTO

1488_IL GIORNO PIU' CORTO . Italia, 1963; Regia di Sergio Corbucci.

L’ironico e esplicito riferimento del titolo di questo film di Sergio Corbucci è ovviamente a Il giorno più lungo, opera di autori vari e uscito l’anno precedente. Il titolo simile ma dal significato contrario, in questo caso si tratta infatti de Il giorno più corto, racchiude in senso del film: semplificando, possiamo dire che si tratta di due film bellici ma quest’ultimo è comico mentre l’altro drammatico e questo è riferito alla Grande Guerra e l’altro al conflitto mondiale più recente. Analogamente a Il giorno più lungo nel film di Corbucci sono chiamati a recitare o anche solo a fare una comparsata, una moltitudine di attori: sempre fedele al rapporto simile ma rovesciato rispetto al film americano, Il giorno più corto, pur essendo appunto più corto, ha circa il doppio di interpreti che danno il loro contributo in scena. Pare che in questo caso siano addirittura 88, almeno stando a quanto dichiarato dal manifesto del film, in ogni caso tantissimi. Tuttavia al centro della scena rimangono costantemente Franco Franchi e Ciccio Ingrassia, ancora relativamente all’inizio della loro fortunata carriera cinematografica. La coppia funziona già egregiamente e, in questo caso, può approfittare di una storia tutto sommato dotata di una struttura narrativa che rende le loro gag organiche con il testo. Tra i personaggi che hanno più spazio spicca la performance di Virna Lisi nei panni di Naja, una sorta di artista volenterosa di dare una mano al fronte. La Lisi comincia sgambettando vivace sul palco per i soldati, successivamente ha un ruolo nel racconto vero e proprio: nel complesso regge con buona presenza scenica lo spazio che il copione le concede.   Walter Chiari e Raimondo Vianello interpretano in tono oltremodo farsesco i loro ruoli e, avendo una certa esperienza nel genere comico, se la cavano con mestiere. 

Il film scorre via liscio tra qualche risata e qualche moto di sorpresa allorché si scopre Jean Paul Belmondo o Stewart Granger nel cast: pare inoltre che la maggior parte degli attori si prestò a queste comparsate gratuitamente per aiutare la Titanus, lo studio di produzione, che rischiava il fallimento. Da sottolineare, oltre alla classiche melodie italiane della Prima Guerra Mondiale, la divertente canzone sui titoli di testa di Piero Piccioni. In definitiva va detto che Corbucci coglie tutto sommato rapidamente lo spunto di Mario Monicelli che, con il suo capolavoro La Grande Guerra (1959), si era permesso (anche) di scherzare con un evento tanto importante della storia italiana. Quello di Monicelli è un film di caratura ovviamente superiore a cui quello di Corbucci fa un po’ il verso anche se prende, come detto, ispirazione dichiarata dall’americano Il giorno più lungo. Ma la Prima Guerra Mondiale è un evento che per noi italiani è italianissimo e, anche se negli anni sessanta il ventennio era passato da un pezzo, scherzarci sopra non era cosa così scontata. La grande Guerra aveva dimostrato che si poteva fare, seppur aveva mantenuto una cifra drammatica, anzi tragica: in questo incarnando assai meglio del film di Corbucci l’italica natura. Ma la chiave di lettura comica de Il giorno più corto è esplicitata sin dal titolo e dagli attori messi in evidente primissimo piano rispetto agli altri: Corbucci è quindi stato tempestivo e corretto. In chiusura anche Totò, che stava girando Il Monaco di Monza, saluta dalla finestra nei panni di un cappellano bersagliere: la benedizione del principe della risata vale da conferma che il film ha raggiunto il suo scopo. 



Virna Lisi 



Sandra Milo 

Anouk Aimée 

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sabato 25 maggio 2024

LA DONNA DI PICCHE (1949)

1487_LA DONNA DI PICCHE (The Queen of Spades). Regno Unito, 1949; Regia di Thorold Dickinson.

Il demone del giuoco, film del 1937 di Fyodor Ocep, aveva lasciato solo intendere le potenzialità interpretative del cinema sonoro in merito a La Dama di Picche di Aleksandr Puškin. La versione del 1949 di Thorold Dickinson riesce finalmente a dare forma cinematografica degna e compiuta ad uno dei capolavori letterari russi più importanti di sempre. La Donna di Picche di Dickinson è infatti un fiore all’occhiello del cinema britannico, un thriller cupo, con momenti agghiaccianti e passaggi onirico-soprannaturali che lo fanno sconfinare spesso nell’horror d’atmosfera. La messa in scena del regista inglese è a dir poco sontuosa, a partire dall’eccellente fotografia, in un denso bianco e nero, di Otto Heller, passando per le scenografie e i costumi, di Oliver Messel, che ci immergono nella Pietroburgo di inizio Ottocento. La musica, di Georges Auric, accompagna adeguatamente la narrazione, prendendosi le opportune pause, per un racconto che ha bisogno anche dei suoi momenti intimi o angosciosi, ma quando c’è da sferzare l’atmosfera, lo fa con la potenza dell’orchestra a pieno regime. Da parte sua, Dickinson, in regia, si muove con destrezza, assecondando i passaggi drammatici del testo di Puškin, ricorrendo senza indugio ai cliché tecnici –la zoomata improvvisa a sottolineare il dettaglio, la suspense creata e alimentata senza reticenze– del cinema horror. Gli interpreti, a cominciare da Aron Walbrook, completano l’opera con prestazioni eccellenti. L’attore austriaco è un credibile capitano Herman Suvorin, il protagonista: ombroso e taciturno in principio, si fa via via sempre più audace e allucinato, rivelando la propria natura, nel momento in cui crede di aver trovato la chiave per la sua rivalsa. L’uomo, infatti, pur essendo un ufficiale ingegnere, non fa parte dei reparti d’élite come, ad esempio, gli Ufficiali della Guardia, e ha disponibilità finanziare, per nascita e per stipendio, non all’altezza delle sue ambizioni. 

Il confronto con il principe Andrei Rumoff (Ronald Howard) o il principe Fyodor Pavlich (Anthony Dawson), due veri aristocratici, è impietoso: essi possono giocare tranquillamente la propria paga di ufficiali a faro, un gioco d’azzardo legato unicamente alla sorte e in voga in Russia in quel periodo. Quando Suvorin viene a conoscenza della leggenda legata alla vecchissima contessa Ranevskaya (Edith Evans, superlativa), che avrebbe fatto una sorta di patto con il diavolo avendo in cambio il segreto delle carte nel gioco d’azzardo, il suo unico scopo diviene riuscire a scoprirlo. Per far questo, non esista ad ingannare, corteggiandola subdolamente, la povera dama di compagnia della contessa, Lizabeta Ivanovna (una fresca e delicata Yvonne Mitchell), con l’unico intento di potersi introdurre nella sontuosa residenza e far parlare la vecchia aristocratica. Al momento dell’agognato confronto, il racconto entra nel vivo e la tensione nel film sale, soprattutto grazie ai primi piani, di Walbrook e della Evans, in un allucinato campo e controcampo. Tuttavia la situazione non si sblocca e, a quel punto, l’uomo, per vincere la resistenza dell’anziana, estrae una pistola: il cuore della contessa cede e la nobildonna muore di paura. Suvorin sembra crollare e l’attore austriaco mantiene la sua performance adeguata, anche nel passaggio intimo con la povera Lizabeta, che comprende, solo allora, di essere stata ingannata. Il losco individuo sembra completamente svuotato: forse per il senso di colpa, o, più prosaicamente, per aver perso ogni speranza di conoscere il segreto della contessa. 

Ma, ecco, che una pagina aperta sul vecchio libro che aveva dato il via alla vicenda, riaccende in lui il bramoso demone che era giusto appena sopito. Allucinato, Suvorin si precipita in chiesa, al commiato al cadavere della contessa, in una delle scene più folgoranti del film di Dickinson, con un acuto degno di un horror. Un altro passaggio da pelle d’oca è il successivo confronto con Andrei, nelle fatidiche tre mani di “faro”, condensate una dopo l’altra anche in questo caso, come nel precedente filmico di Ocep, per una resa scenica decisamente più avvincente. Il colpo di scena finale, arricchito da una sequenza particolarmente onirica, rivela l’onestà della regia di Dickinson, che lascia effettivamente la possibilità di un errore da parte di Suvorin, nello scegliere l’asso vincente. La donna di picche è, infatti, accanto all’asso, nel mazzo, e il regista toglie l’inquadratura giusto un attimo prima che Suvorin prelevi la carta da giocare, per concentrarsi sui primissimi piani di Howard e Dawson. Gli attori sono bravissimi nel trasmettere la tensione del momento, ma Walbrook è addirittura superlativo: le guance sembrano davvero tremare in modo incontrollabile per lo stato nervoso che il suo personaggio sta vivendo. Una volta scoperto l’atroce destino, Suvorin crolla di nuovo, stavolta definitivamente, ed è accompagnato dal principe Andrei, animo nobile, che non infierisce sul rivale ormai in disarmo. Dickinson tralascia il soggiorno al manicomio del protagonista, per riprendere un dettaglio della trama inserito in precedenza, con Andrei e Liza che rilasciano gli uccellini dalle gabbie del mercato. Una maniera per sfogare il senso oppressivo del racconto che, in Inghilterra, alla fine degli anni 40, difficilmente poteva essere accettato senza, se non un lieto fine, almeno un minimo di sollievo. Tuttavia questo passaggio conclusivo, seppure è funzionale, non inficia minimamente la resa clamorosa del film di Dickinson, a tutt’oggi, con ogni probabilità, la migliore versione de La dama di Picche.  






Yvonne Mitchell 


Violetta Elvin