1445_APOCALYPSE DOMANI . Italia, Spagna 1980; Regia di Antonio Margheriti.
La contrapposizione tra elementi differenti sembra essere la cifra stilistica dominante in Apocalypse Domani, film di Antonio Margheriti del 1980. Sin da subito, sin dal titolo, con il termine “Apocalisse” che è un concetto che si riferisce al futuro ma proviene a noi dall’antichità, con il tema cronologico rafforzato dall’avverbio “domani”. L’accostamento delle due parole che compongono il titolo sembra cercato per citare i riferimenti del film di Margheriti, che sono Apocalypse Now (1979) di Francis Ford Coppola e Cannibal Holocaust di Ruggero Deodato (1980). In effetti, il titolo del film di Margheriti, sembra riprendere spudoratamente quello di Coppola, laddove il “now”, adesso, è sostituito, e concettualmente spostato solo leggermente un po’ più in là, per divenire “domani”. Tuttavia, tra i tanti titoli con cui è stato distribuito nel mondo, spicca il Cannibal Apocalypse dei paesi anglosassoni, dove si cercò di sfruttare anche l’effetto traino del leggendario film di Deodato. In ogni caso, la simbiosi di elementi diversi caratterizza anche la sostanza del lavoro di Margheriti: Apocalypse domani è, infatti, un curioso innesto tra il cinema bellico, e più specificatamente quello noto come Vietnam movie, e il genere cannibal italiano. Ma prima di addentrarci nel dettaglio di come questo avvenga sullo schermo, ci sono ancora alcune curiosità che sottolineano la natura binaria del film di Margheriti. È bizzarro, ad esempio, che il titolo sia composto da una parola in inglese e una in italiano, senza una ragione valida, dal momento che “apocalisse”, come termine, esiste anche nella nostra lingua. Questa sorta di esterofilia del regista, che firma il film sui credits con il suo noto pseudonimo Anthony M. Dawson, è un altro elemento da segnalare: la moda di utilizzare nomi anglosassoni, per i nostri registi e attori, era cominciata negli anni Sessanta, quando il cinema italiano provò a sondare generi, come il gotico e in seguito il western, che gli erano sconosciuti. Riccardo Freda raccontava l’aneddoto di una coppietta, fuori da un cinema a Sanremo, che, una volta letto il nome italiano del regista sul manifesto de I vampiri, preferì glissare e voltò i tacchi. Il regista sulla locandina in questione era, naturalmente, lo stesso Freda e l’anno era il 1957: nasceva così l’esigenza di utilizzare nomi anglosassoni, inizialmente per i film dell’orrore ma poi la cosa si diffuse trasversalmente per altri generi, al fine di convincere gli spettatori della qualità delle opere.
Un’abitudine pericolosa, a dirla tutta, perché sottintendeva che gli italiani, in quanto tali, non fossero in grado di cimentarsi con alcune tipologie di film: non a caso, ci fu chi, come Mario Bava, che, appena gli fu possibile, provò ad affermarsi con il proprio nome all’anagrafe. Margheriti, al contrario, mantenne fede al suo nickname anglofilo e, in Apocalypse domani, prova anche a confermare questa specie di “ipocrisia” perfino all’interno nel testo filmico: il lungometraggio è una produzione italo spagnola, ma si presenta in tutto e per tutto come una pellicola americana. La capacità di interpretare gli stilemi del cinema di genere hollywoodiano da parte di Margheriti è sorprendente: forse unicamente le scene ambientate nella giungla vietnamita sono un po’ deboli, in questo senso, anche per via del contrasto creato da sequenze che sembrano riprese originali di guerra. Tuttavia, appena la storia comincia a muoversi nel tipico scenario americano, la classica cittadina di provincia –gli esterni sono girati perlopiù ad Atlanta– il film appare come un credibile prodotto d’oltreoceano. Non una pellicola mainstream, ovviamente, ma un onesto film di genere, di quelli che, nel decennio al tempo appena cominciato, invaderanno il globo.
In quest’ottica ambigua è scelto anche il cast, dominato dalla prestazione non solo muscolare dell’ottimo John Saxon, nei panni dell’ex capitano Norman Hopper. Saxon, oltre che di origini italiane –che il vero nome Carmine Orrico lascia ampiamente intendere– era attore capace di stare a suo agio sullo schermo in produzioni hollywoodiane allo stesso modo in cui si cimentava con il cinema di cassetta del Belpaese, e in Apocalypse domani garantisce, con la sua esperienza e il suo carisma fisico, un’ampia parte della riuscita del film. Il resto degli interpreti è scelto alimentando questa doppia anima dell’operazione: sul versante italiano, Giovanni Lombardo Radice –è Charlie Bukowski, il reduce del Vietnam che innesca tutta quanta la vicenda– era sostanzialmente all’esordio, mentre un po’ di esperienza in più la poteva vantare Cinzia De Carolis –nel ruolo di Mary, la ragazzina che provoca il capitano Hopper. Nonostante non venga citato nei titoli di testa, l’esponente più importante e noto del cinema italiano coinvolto nel cast è però Venantino Venantini, nei panni dell’agente di polizia. La moglie del capitano Hopper, Jane, è interpretata dalla semisconosciuta Elizabeth Turner, un altro elemento un tantino ambiguo: già vista in più di qualche film italiano, aveva però l’aspetto della tipica donna americana emancipata. Bella, alta, bionda, fisicamente inappuntabile, si destreggia con mestiere in un classico ruolo di contorno. Più invasiva la prestazione di Tony King –è Tom Thompson, l’altro soldato americano salvato in Vietnam– che dà man forte al commilitone nella bagarre cannibalica.
King era attore americano relativamente noto, sia per i suoi ruoli marginali ma anche in produzioni importanti –era addirittura nel cast de Il Padrino, 1972, regia di Francis Ford Coppola– sia per film d’azione, le partecipazioni a serie televisive, o le pellicole blaxploitation. Anche per quel che concerne il canovaccio, Margheriti mischia sapientemente le carte, dal momento che il tema cannibalico è trattato prendendo spunto dai film sugli zombie o, volendo, su quelli dei vampiri. Bukoswki e Thompson, durante la prigionia di guerra in Vietnam, avrebbero infatti contratto un virus che li ha trasformati in cannibali. In questo modo Margheriti può alimentare il suo film con la suspense legata al dubbio o alla tempistica degli effetti del contagio che i reduci distribuiscono durante il racconto. Naturalmente anche Hopper finirà contagiato, per la verità sin da subito, ovvero dalla liberazione dei soldati prigionieri che si vede nell’incipit bellico della pellicola. La presenza di un virus che trasmette il fatale contagio, permette al regista romano un finale aperto, assai pessimista ma a suo modo anche ironico, in linea con gli horror del tempo. In ogni caso, pur presentando il suo film come un prodotto americano, Margheriti ha sempre la capacità di tenere in vita il suo legame con il cinema di genere italiano, si veda, giusto a titolo di simbolico esempio, il whisky J&B insistentemente in bella vista in casa Hopper. Più che una citazione, in questo caso, la bottiglia verde con l’etichetta gialla sembra una sorta di ancora, un legame, con il cinema del paese d’origine del regista. Intanto, dopo una lunga sequenza ambientata tra le fogne, le forze dell’ordine riescono ad avere la meglio sullo sparuto manipolo di cannibali e la polizia può dirsi soddisfatta per aver finalmente chiuso la questione. Guardando l’autopattuglia con gli agenti andarsene, Mary e il fratellino, sorridono sornioni. Dietro di loro, si vede penzolare sanguinante il cadavere della loro acida zia (Joan Riordan): la fine che meritava, almeno in un film di cannibali.
Elizabeth Turner
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