1441_PIENA LUCE SULL'ASSASSINO (Pleins feux sur l'assassin). Francia 1961; Regia di Georges Franju.
Dopo i suoi due primi più che positivi lungometraggi, La fossa dei disperati (1958) e Occhi senza volto (1960), Georges Franju si conferma ulteriormente validissimo regista con Piena luce sull’assassino. Il film, oltre a ribadire l’inclinazione dell’autore francese per i temi piuttosto cupi, è una dimostrazione di quanto Franju abbia preso dimestichezza con i meccanismi narrativi tipici del giallo. Qui, grazie anche ad una sceneggiatura opera nientemeno che di Pierre Boileau e Thomas Narcejac, già autori di soggetti come I Diabolici (1955, di H.G. Clouzot) e La donna che visse due volte (1958, di Alfred Hitchcock), il regista bretone riesce ad imbastire un doppio colpo di scena capace di sorprendere lo spettatore nonostante la trama si presenti come un prevedibile giallo à la Agatha Christie. In effetti qualche rimando, soprattutto nell’impostazione, a Dieci piccoli indiani si può anche intravvedere, ma il finale di Piena luce sull’assassino è decisamente più efficace e interessante. Già il fatto di prendersi un riferimento così noto in modo esplicito, ci dice che Franju e i suoi collaboratori non vogliono giocare la partita sul piano dell’imprevedibilità assoluta, il che in un giallo potrebbe essere uno svantaggio mica da poco. E, oltretutto, l’idea che i colpi di scena avvengano proprio durante le rappresentazioni pseudo-teatrali – ottenute mediante giochi di luce nel favoloso Chateau de la Bretesche dove è ambientata la vicenda – è un ulteriore dimostrazione della capacità degli autori. Il racconto fittizio su cui verte lo spettacolo di luci prevede il colpo di scena finale – già noto, essendo un’antica vicenda dei signori del castello – ma per ben due volte questo viene sostituito da una svolta clamorosa della trama principale. In sostanza Franju prende un modello molto conosciuto – Agatha Christie – apparecchia il finale prevedibile – ribadito dal soggetto dello spettacolo inscenato – per poi spiazzarci due volte. In un certo senso, visto che si prende a riferimento un testo giallo – il romanzo della Christie o il film di René Clair del 1945 – più che la realtà, si può dire che Piena luce sull’assassino sia un’opera metalinguistica.
E i ripetuti riferimenti alla luce, tra cui anche il titolo, materia si cui è fatto il cinema, potrebbero esserne la conferma. La vena onirica di Franju, si veda il suicidio di Jeanne (Pascale Audret) che confonde realtà e fantasia, ci mette in guardia dal prendere troppo sul serio la cosa. Del resto il tono beffardo dell’opera è esplicitato nell’incipit in cui il vecchio conte di Keraudren (Pierre Brasseur) che, mentre muore, imbastisce una sorta di caccia al tesoro dove l’oggetto della ricerca è proprio il suo cadavere. Senza il quale, agli eredi toccherà aspettare cinque anni per mettere le mani sul patrimonio del nobile vegliardo. La situazione è ironica e i convenuti al castello per il funerale del conte si ritrovano con la certezza, data dal medico, che il vecchio è morto ma senza la salma c’è il rischio di rimanere a bocca asciutta. Tra il manipolo di personaggi spiccano Jean-Marie (Jean-Louis Trintignant), André (Phillipe Leroy) e l’intrigante Edwige (Marianne Koch); come nel citato Dieci piccoli indiani i congiunti cominceranno ad essere assassinati uno ad uno ma, come detto, l’interesse di Franju non è tanto nel meccanismo ad eliminazione del giallo. Il regista sembra voler affermare, e farlo proprio in un genere in cui la forma è sostanza, la necessità di avere padronanza del gioco e non farsi dominare da esso. Per questo Edwige, nella scena più bella e significativa del film, quando lo stalliere non accetta il gioco sadomaso, se ne va scocciata: l’uomo interpreta politicamente le avances pepate della donna, nel senso che le intende come le angherie di una aristocratica nei confronti di un plebeo. Il gesto di delusione della vedova sembra piuttosto rivelare che la bella Edwige volesse semplicemente divertirsi con un aitante giovanotto. In questo senso, proprio di questa singola scena, il film sembra particolarmente moderno anche se, a dirla tutta, pur se condivisibilissimo, il passaggio di Franju pare andare nella direzione opposta rispetto alla tendenza attuale, tutta protesa ad estirpare la piaga delle molestie sessuali in campo professionale. Oggi, infatti, se una nobile si facesse togliere gli stivali dallo stalliere stuzzicando poi il lavoratore, sarebbe inevitabilmente tacciata di pretendere favori sessuali. Il che può essere anche vero, in molti casi, ma non necessariamente in tutti. Franju, con la soluzione del giallo ottenuta ai danni del colpevole che finisce giocato dalla commedia recitata ai suoi danni, cercava di convincerci che la ricetta è proprio quella: giocate con intelligenza e non fatevi giocare, siate partecipi e non subite passivamente il gioco altrui. Una ricetta valida sempre e non solo al cinema.
Ma che, di questi tempi, sembra ormai dimenticata.
Marianne Koch
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