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lunedì 21 marzo 2022

FRONTIERE SELVAGGE

990_FRONTIERE SELVAGGE (Trail Street). Stati Uniti 1947;  Regia di Ray Enright. 

Far West: nella prigione del paese, sono asserragliati l’eroe tutto d’un pezzo, il suo valido amico con qualche difficoltà esistenziale e il vecchietto brontolone. I banditi stanno arrivando in massa per liberare i detenuti; ah, e non va assolutamente dimenticata la ballerina del saloon dalle splendide gambe. No, non siamo in un western classico di Howard Hawks. Frontiere selvagge è infatti un western romantico, di quelli degli anni Quaranta, opera del bravo regista Ray Enright. Oltre a ciò, Frontiere selvagge è un gran bel film: gli manca giusto il valore simbolico tipico dei classici ma, se si può definire questa un’occasione persa da parte del regista (ovvero inserire un suo titolo insieme a quelli di John Ford, Anthony Mann, Howard Hawks eccetera), bisogna riconoscere che il suo film si colloca come caposaldo indiscutibile nel filone del citato western romantico, la corrente precedente alla gloriosa golden age. Il che non è affatto una soddisfazione da poco perché, mentre gli autori più capaci avevano cominciato da tempo (Ford, con Ombre Rosse, addirittura dal 1939) ad utilizzare il western con intenti più alti, il genere, pur di conquistarsi i favori del pubblico, si era concesso qualche pericolosa licenza poetica di troppo. Proprio la RKO Radio Pictures, lo studio alle spalle dello stesso Frontiere selvagge, l’anno precedente aveva prodotto La terra dei senza legge (1946, regia di Tim Whelan), che avrebbe dato il via alla cosiddetta trilogia dei Badmen. Questi film, come altri del periodo, celebravano le gesta dei fuorilegge del west, idealizzando la figura del romantico fuorilegge ma prendendo troppo spesso come spunto le azioni di veri e propri criminali, come i famigerati membri della banda Quantrill. Enright, che aveva già detto la sua nel 1941 (Bad Men of Missouri, da noi curiosamente tradotto con I tre moschettieri del Missouri), e che approfondirà l’argomento fuorilegge in seguito (Gli avvoltoi, 1948 e I predoni del Kansas, 1950), con Frontiere selvagge fa chiarezza una volta per tutte, mettendo ordine nel filone quanto il suo protagonista, Bat Masterson (un araldico Randolph Scott), fa nella cittadina di Liberal, Kansas.  

Masterson fu un personaggio storico, un uomo di legge: già questo utilizzo di una figura realmente vissuta ma stavolta dalla parte della legalità, sembra una risposta ai tantissimi esempi in cui gli outlaw del west, come Jesse James o i fratelli Dalton, erano protagonisti dei film del periodo. Scott, che pure non aveva una grande gamma espressiva, è perfetto nel ruolo di uomo tutto d’un pezzo che si incarica di sistemare in modo spiccio le questioni che animano la turbolenta Liberal. E qui Enright assesta un altro pesante colpo alla mitologia del Far West: la disputa è tra allevatori, i gloriosi cowboy, e agricoltori, i più prosaici coloni. E le ragioni, il regista lo mostra in modo impietoso, sono tutte dalla parte dei secondi. Insomma, Enright, mette al centro del suo film un uomo di legge e non un bandito e mostra senza sconti i soprusi che gli allevatori perpetravano ai danni dei poveri contadini. Fuorilegge e cowboy sono così sistemati. Ma la verve del regista non è ancora appagata: in un western che non contempla la presenza degli indiani, Enright trova lo spazio per mostrare un pacifico nativo che dà un’indicazione ad Allen (Robert Ryan, per una volta in un ruolo completamente positivo), personaggio che affianca Bat nella battaglia contro gli allevatori. Quello dell’indiano è un dettaglio da nulla, ininfluente nella trama; ma proprio il suo essere gratuito ci dice che è stato evidentemente inserito per un motivo altro rispetto alle esigenze narrative. 


Come mostrare l’indole pacifica e collaborativa degli indiani, che non furono il problema principale del Far West. Se questo aspetto fa riferimento ad una questione storica, Enright ha ben presente anche il west in senso cinematografico: il confronto tra la vera protagonista del film, la ballerina del saloon Ruby (una deliziosa Anne Jeffreys) e Susan (Madge Merendith), la fidanzatina di Allen, presenta analogie a quello nel citato Ombre rosse, tra la fulgida Dallas, la prostituta interpretata da Claire Trevor, e la smunta Lucia/Luoise Platt. La presenza di due donne che vanno ad intessere le loro vicende sentimentali coinvolgendo anche il cattivo della storia, Logan Maury (Steve Brodie) certifica l’appartenenza di Frontiere selvagge al filone romantico del genere. Le donne, nei film western degli anni Quaranta, hanno sempre un ruolo piuttosto rilevante e, a testimonianza dell’importanza di Frontiere selvagge, in questo caso Ruby si prende la scena a discapito degli altri personaggi, meritandosi il titolo di assoluta protagonista. 

Il suo ingresso, in un abito che mostra generosamente le gambe, avviene durante lo spettacolo nel saloon: una scena sontuosa. Enright si rivela particolarmente a suo agio con il personaggio di Ruby, avendo una certa esperienza con questo tipo di figure femminili dai tempi dei suoi film per la Warner Bros. Ma è naturalmente con il drammatico finale che Ruby assurge a protagonista assoluta, oscurando i pur validi personaggi di Scott e Ryan. Nel cast non va dimenticato George Hayes nella parte del solito vecchietto arzillo; Gabby era un habitué dei western del periodo, ovviamente doppiato da Lauro Gazzolo (per intenderci lo stesso che dava la voce a Walter Brennan) e naturalmente non tradisce le consegne. 

Il film ha una confezione formale pregevole e particolare cura è prestata nella descrizione della città di Liberal, come detto luogo della maggior parte degli avvenimenti. Il fermento che l’attraversa è, in un certo senso, bilanciato dalla ricercatezza degli edifici e anche gli abiti dei personaggi, specie quelli maschili, spiccano per un’inconsueta eleganza. Almeno per un western ma, in questo modo, il film rivela la contaminazione, frequente negli anni Quaranta, con il noir. La matrice positiva che Enright imprime al suo film si manifesta però nella scena in cui, a casa dei coloni liberati da Allen, l’ampia finestra si spalanca su una sterminata distesa di grano. Il tipo di questo cereale, resistente alla siccità e alle alte temperature dell’estate del Kansas, è la soluzione per i problemi di Allen e degli allevatori ed è un prospero e pacifico presagio per il futuro dell’America. Con tutti questi presupposti, il film fila via piacevole a vedersi anche se, come detto, manca della struttura dei classici. Tuttavia, per essere una storia d’avventure, ha un rigore morale che la pone ad un livello di assoluto rilievo. E poi la fine tragica di Ruby è il colpo d’ala che avrebbe potuto cambiare definitivamente la valutazione di questo Frontiere selvagge: resta da capire se fosse Enright a non essere all’altezza dei maestri o il western a non essere pronto ad una eroina che rubasse la scena ai maschi della storia. 

 


Anne Jeffreys






Madge Meredith



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