1509_ANNA KARENINA - LO SCENEGGIATO . Italia 1974; Regia di Sandro Bolchi.
Tra i molti adattamenti per lo schermo di Anna Karenina di Lev
Tolstoj –almeno una ventina per il cinema e una dozzina per la televisione– un
posto di rilievo lo merita lo sceneggiato Rai di Sandro Bolchi. Spesso si legge
che, in quei tempi, la grande stagione della fiction televisiva italiana era agli
sgoccioli; in realtà, negli anni Settanta inoltrati la televisione di stato del
Belpaese sfornò alcuni dei suoi più compiuti capolavori e Anna Karenina
fu tra quelli. Basti citare, tanto per dire l’impegno produttivo profuso, i
quattro mesi di lavorazione sul set, con le complicatissime e affollatissime
scene dei balli ottocenteschi, un via vai di eleganti dame e cavalieri impettiti.
Sandro Bolchi, in regia, conosceva perfettamente i tempi e i movimenti degli
sceneggiati, format molto particolare che, a fronte di budget non
particolarmente elevati per le scenografie, si affidava alla teatralità degli
interpreti. In quegli anni Settanta, questa peculiarità dei film televisivi Rai
si era attenuata, trovando un maggior equilibrio, aumentando la resa scenica
degli ambienti, si è detto delle sontuose scene nel mondo aristocratico russo, e
richiedendo agli attori prestazioni più «moderne», più sobrie, meno enfatizzate, che in passato.
Bolchi, come detto, sapeva gestire al meglio questi aspetti tecnici che stanno «alle
spalle» del prodotto finito, con intuizioni funzionali alla riuscita del film.
In questo caso, essendo Anna Karenina un racconto incentrato sulla
protagonista, è vincente la scelta di lasciare campo libero al carisma naturale
di Lea Massari, in una delle migliori prestazioni della sua grande carriera. La
Massari non solo era bella, ma aveva anche una presenza scenica superba: nel
corso degli eventi raccontati dalla trama, ha tuttavia modo di sfoderare tutto
il suo campionario espressivo, apparendo, in qualche frangente, se certamente
non brutta, quantomeno sofferta.
La storia mette al centro questa nobildonna
russa dell’Ottocento che, ad un certo punto della sua vita, si innamora
perdutamente del conte Vronskij (Pino Colizzi), in un contesto in cui
l’apparenza e il rispetto dell’etichetta e del buon nome erano requisiti
imprescindibili. Che a buttare a carte quarant’otto tutto quanto –una famiglia
altolocata, un matrimonio sicuro, un marito con una posizione invidiabile, un
figlio non ancora adolescente– fosse una donna –siamo in Russia, nel 1800, all’epoca
dello Zar– era, al tempo del romanzo di Tolstoj, un fatto inaudito. Nell’Italia
degli anni Settanta, la vicenda rappresentava invece una sorta di «prova del
nove» delle idee rivoluzionarie legate alla contestazione sessantottina. Come
avrebbe reagito, il pubblico di Rai 1, emittente molto conservativa e legata
alla politica democristiana del paese, a fronte di una donna che, in modo del
tutto arbitrario, tradiva il marito (Karenin, interpretato da Giancarlo
Sbraglia) perché trovava un amante più bello, più giovane e più aitante? Nel
loro adattamento, Bolchi e Renato Mainardi, non tradiscono lo spirito
rivoluzionario del romanzo, non cercano né offrono alibi alla protagonista;
Anna Karenina è, da un punto di vista socio-culturale, dalla parte del torto,
oltre a tradire il marito ed infrangere il giuramento matrimoniale, colpisce
alle spalle l’istituzione cardine della nostra società, la famiglia. E lo fa,
molto semplicemente, perché è innamorata di Vronskij e, nonostante i tentativi
di mitigare in qualche modo la cosa, si tratta di una scelta libera e
consapevole di cui, quindi, si assume piena responsabilità. Se questa «naturalezza»
nel prevedere un personaggio principale che non rispettasse i vigenti codici
sociali, era amplificato nel romanzo dal fatto che la protagonista era una
donna e Tolstoj scriveva nella Russia di fine Ottocento, nello sceneggiato era
la sacralità del matrimonio ad alimentare l’ambiguità del comportamento della
Karenina. Nel 1974 il divorzio era già in uso, nello Stivale, ma da soli
quattro anni e, pur essendo garantito da una Legge apposita, non era del tutto
accettato dalla comunità, soprattutto dalla consistente componente cattolica
per cui il sacramento era inviolabile.
Figuriamoci come potesse essere
accettato un adulterio e, almeno per larghe parti del paese, peggio ancora se a
commetterlo era la moglie. Qui, in soccorso di Bolchi, arriva la prestazione attoriale
e scenica della Massari che ha una forza naturale tale da rendere plausibili e
accettabili tutti i tormenti interiori e le debolezze del proprio personaggio.
A far da contraltare alla torbida storia tra Anna e Vronskij c’è una vicenda
sentimentale che procede assai lentamente ma poi trova sfogo nel classico lieto
fine, tra Levin (Sergio Fantoni) e Kitty (Valeria Ciangottini). Levin e Kitty sono
la risposta tradizionale e conforme alla norma e al buon senso,
all’irrazionalità di Anna e dei suoi travagli sentimentali. A turno, Levin
prima e Kitty poi, devono pazientemente sopportare le incertezze del partner ma
tutto si supera in nome di un amore devoto e solido. Levin, pur essendo nobile,
è, tra l’altro, interprete anche di alcune aperture progressiste in ambito
politico, influenzato forse dal fratello Nicolaj (Sergio Graziani), vero
rivoluzionario. La traccia politico sociale non è però il vero motore della
vicenda, anche perché, pur se Levin viene spesso ritenuto una sorta di alter
ego di Tolstoj, non ha la forza dirompente della Karenina. Anna è un
personaggio disposto a tutto, persino a perdere il proprio figlioletto, pur di
stare con Vronskij, figura peraltro, almeno nello sceneggiato, piuttosto
monodimensionale. Le due storie d’amore raccontate dal film sono, in un certo
senso, speculari, almeno rispetto ai canoni della famiglia nella tradizione europea,
e alcuni intrecci ne sottolineano il rapporto. Vronskij, in principio, ha
un’intesa con Kitty che, proprio per questo, rifiuta le avances di Levin; ma, a
quel punto, irrompe sulla scena Anna e il conte perde completamente la bussola,
nonostante la Karenina fosse già una donna sposata. La stessa situazione, in
qualche modo rovesciata e quindi speculare, avviene quando Kitty e Levin sono
ormai sposati e questi incontra per la prima volta Anna, rimanendone invaghito.
In questo caso, la volontà tanto di Levin che di Kitty, riesce a respingere
l’elemento perturbante la quiete famigliare, e l’amore iscritto nella più
antica istituzione sociale riesce a sopravvivere. A confermare l’alternatività
di queste due situazioni è la loro posizione all’interno del racconto: la prima
è giusto all’inizio, la seconda sul finale, in mezzo il corpo narrativo
perlopiù basato sulle vicende della Karenina, vera e propria mattatrice. A cui
tanto il romanzo che lo sceneggiato riservano un finale tragico, anticipato, o
meglio gemellato, anche questo caso da una scena analoga in apertura. Le
motivazioni dell’estremo gesto della Karenina sono, in genere, ricercate nell’intolleranza
subìta dalla donna in una società fortemente ipocrita, a fronte dei suoi
sconvenienti comportamenti. Forse anche qualche dubbio di Anna, in merito alla
propria moralità, è da mettere in conto: dubbi che rimangono probabilmente anche
nello spettatore, perché Anna Karenina non è un film che fornisca
risposte. Men che meno alibi.
Lea Massari
Valeria Ciangottini
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