582_K-19 (K-19: The Widowmaker); Stati Uniti, Regno Unito, Germania, 2002. Regia di Kathryn Bigelow.
K-19 è un film su
un sottomarino nucleare sovietico. Un lungometraggio bellico, quindi; si e no,
perché il racconto è ambientato nel 1961, in piena Guerra Fredda. Si sa che la Guerra
Fredda era quella contrapposizione tra i due blocchi, la Nato
e il Patto di Varsavia, che lasciava
intendere l’imminenza di uno scontro bellico concreto e che proprio questo
timore mantenne solo potenziale questa eventualità. In sostanza la Guerra Fredda fu una guerra
non combattuta sul fronte di battaglia e in questo senso va vista l’ambiguità
che deriva dall’ambientazione temporale del film. In effetti la Bigelow è brava, come suo
consueto, a tenere il racconto teso e concitato dalla serie ininterrotta di
esercitazioni a bordo del K-19: come
detto nella Guerra Fredda non si combatteva ma ci si preparava a farlo. Esercitazioni,
prove, simulazioni; almeno fino all’evento drammatico culminante, anche questo
di natura non-bellica: l’incidente al sistema di raffreddamento del reattore
nucleare. In realtà un contatto con il nemico, all’interno del racconto, c’è:
l’offerta di aiuto via radio da parte di un incrociatore americano. Certo, gli
americani avranno fiutato la possibilità di mettere le mani su una succulente
preda bellica russa, il formidabile K-19; ma a conti fatto l’unico ingaggio con
il nemico per l’equipaggio russo rimane un’offerta di soccorso.
Ma allora di che parla, questo K-19? Di gravissimi e mortali incidenti radioattivi quando non di
esercitazioni (nella quale si feriscono comunque un paio di uomini)? Certo, il
racconto è quello. Ma non possiamo trascurare che siamo a bordo di un
sottomarino, quindi nel posto più claustrofobico del cinema (anche rispetto
alle astronavi: lì, almeno, fuori, c’è lo spazio).
Quindi, riassumendo: in un ambiente chiuso su sé stesso i pericoli derivano
dalle proprie azioni (le esercitazioni) e dall’interno dell’ambiente stesso.
Anzi dal cuore pulsante di quell’ambiente, il reattore nucleare. Vale a dire
che, con i nemici che dall’esterno offrono soccorso, i marinai del K-19 devono
guardarsi dalla loro scarsa preparazione e dalle insidie tecniche dei propri
strumenti. Detta così sembra un film di dietrologica
propaganda ai danni dell’Unione Sovietica. Ma l’impressione guardando l’opera
non è affatto quella, perché la regista è bravissima a cogliere l’umanità dell’equipaggio
e a creare empatia con i protagonisti della vicenda.
E proprio la scelta degli
attori per interpretare questi personaggi è illuminante: Liam Neeson è il
Capitano Mikhail Polenin e Harrison Ford il Comandante Alexei Vostrikov. Cioè
due star di Hollywood, un cavaliere Jedi e Han Solo, tanto per citare una
traccia comune a tutte e due. Insomma, è dura credere che si possa coinvolgerli
in prima persona per una puerile e tardiva azione denigratoria di
contropropaganda. Piuttosto, guardando
il manifesto di K-19 si nota una certa
analogia con quello di Air Force One,
opera del 1997 di Wolfgang Petersen: un intenso primo piano di Harrison Ford
occupa tutto lo spazio a disposizione. Se invertissimo didascalie e titoli
i manifesti sarebbero quasi indistinguibili.
Insomma, la questione, sembra
dirci Kathryn Bigelow, non è tra buoni
e cattivi, ma tra noi e noi stessi, perché russi o americani non cambia la sostanza e i
pericoli maggiori sono quelli che ci creiamo con le nostre stesse mani. Per una
efficiente donna d’azione come l’autrice americana, la mancanza di
meritocrazia, le raccomandazioni, l’incompetenza, sono all’origine dei nostri
guai collettivi. Nella messa in scena di questa sua riflessione
sull’autodistruttiva natura umana, la regista sfodera un film emozionante,
avvincente, drammatico, dove vengono esaltati quei valori di solidarietà che quella
stessa inclinazione autolesionista mai avrebbe lasciato intendere fossero
possibili.
Infatti saranno proprio i due raccomandati, due personaggi che sono frutto e simbolo dell’inefficienza, ad ottenere il maggiore riscatto: il comandante Vostrikov
(quello interpretato da Ford), che ha fatto carriera perché ha sposato la
figlia di un pezzo grosso, e l’ufficiale addetto ai reattori, nominato per un
simile incarico pur se privo di esperienza. Il senso del dovere, il rispetto
per i propri compagni (termine qui enfatizzato dall’ambientazione russa) sono
però il vero tema del film: il sottomarino funge così da concentratore, obbliga
e forza i membri del suo equipaggio, (anche quelli eticamente meno nobili, i raccomandati) a fare fronte
comune. Il comandante Vostrikov che non ordina, ma chiede (su suggerimento di Polemin) un sacrificio al suo equipaggio
è il segnale del cambiamento di rotta decisivo. Lo spirito di corpo, la
solidarietà uno per l’altro (contrapposta in un simile contesto
all’individualismo di stampo americano) è la vera forza a cui attingere. Quelle dell’amichevole partita
sul ghiaccio, e soprattutto la foto ricordo come una vera squadra di calcio,
non a caso uno sport collettivo, rimangono come immagini simbolo di questo
ottimo K-19.
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