587_SENSO ; Italia, 1954. Regia di Luchino Visconti.
Capolavoro del cinema mondiale
e di quello italiano in particolare, Senso di
Luchino Visconti deve la suprema importanza a molteplici aspetti. E' il film
che sostanzialmente segna la fine del neorealismo,
riflette sulla matrice fallace dell'Italia come paese sin dalla sua
(ri)nascita, è calligraficamente superbo e praticamente perfetto dal punto di
vista visivo e sonoro. Ma Senso è
anche uno dei film di cui si è scritto maggiormente e i rimandi colti (ad
esempio alla pittura dei macchiaioli o
a quella di Francesco Hayez per il bacio
tra Franz e Livia) sono stati analizzati già in decine di recensioni. Del
resto, l'opera di Visconti è di portata enorme per i differenti livelli a cui
accede, per cui è forse il caso di isolare i temi che possano essere ritenuti
più interessanti o attuali. L’aspetto che colpisce maggiormente oggi è forse
che il regista lombardo metta al centro della sua opera il melodramma,
ovvero un genere diametralmente opposto a quel neorealismo di
cui era stato uno dei maggiori artefici a partire da Ossessione. La
scena iniziale, con la macchina da presa che entra nel teatro La
Fenice di
Venezia e compie una panoramica sul palcoscenico, prima di girare verso le
tribune, sembra un nuovo inizio del cinema di Visconti, sul modello
dell'incipit altrettanto magistrale e significativo di quello nella sua opera
prima, il citato Ossessione. In
quel film, che di fatto aveva aperto la stagione del neorealismo, nell'arrivo
di Gino sul camion e nella sua entrata nella locanda, c'erano tutti gli
elementi della nuova e rivoluzionaria corrente cinematografica, in modo
praticamente programmatico.
Allo stesso modo l'apertura di Senso ci dice che è tempo che l'Opera, di cui il melodramma è la versione cinematografica, riprenda il centro della scena artistica. Il che è
una scelta curiosa, essendo il neorealismo una corrente del presente quotidiano
quasi per definizione e, proprio nel dopoguerra, l’era contemporanea ebbe un’accelerazione che ne conferì un sapore
che sembra attuale ancora oggi. Quali possono essere, quindi, le ragioni che
spingono Visconti a chiudere con un movimento tanto apparentemente funzionale? L’autore,
probabilmente avverte come le difficoltà nazionali, che faticano ad essere
superate anche con l’imminenza del boom economico, indichino che i problemi
dell’Italia abbiano una ragione ben più antica rispetto alla situazione
economica contingente del dopoguerra. Per cui, per comprendere meglio le
difficoltà di una nazione che nazione non è, non basta il racconto semplice tipico del neorealismo: le ragioni sono più profonde, sono storiche e non
legate alla disperata condizione sociale della penisola in quegli anni. E per
meglio capire quelle ragioni, occorre raccontarle con un testo che sia in
sintonia con la sensibilità (il "senso") di quel movimento che, a suo
tempo, aveva sostanzialmente imbrogliato
i cosiddetti italiani, il Risorgimento. Il Verdi che infiammava i cuori
patriottici viene così usato da Visconti per ricreare quella atmosfera
melodrammatica, ma il racconto che poi il regista va a narrare è esattamente
l'opposto dell'Aida verdiana.Là i protagonisti sottomettevano il proprio amore a
quello delle rispettive patrie, qui invece la contessa Livia (Alida Valli,
algida in apparenza, ma interiormente travolta da una torbida anche se ottusa
passione) tradisce la propria patria a causa dell'amore folle ed insensato per
Franz Mahelr (Farley Granger), il quale viene meno al suo dovere di soldato per
mera viltà.
Ma lo scarso patriottismo dell'ufficiale austriaco non interessa Visconti, ed è unicamente usato per rincarare la dose della scelleratezza di Livia che non solo tradisce il suo paese, ma lo fa per un vigliacco che neanche l'ama. Questo
melodrammone dai toni accesi quanto un film di Matarazzo (Catene, Vortice), è
quindi perfetto per raccontare il Risorgimento, un movimento falso e posticcio
che tradì sin da subito la sua infondatezza. Le guerre di indipendenza italiane
sono mostrate bene da Visconti come episodi marginali nel contesto
internazionale e il valore della presunta patria è lapidariamente mostrato
nella infamante sconfitta di Custoza. Custoza,
tra l’altro, doveva essere il titolo del film, ma fu invece bocciato, anche se
ben avrebbe espresso il valore morale dell’Italia. Evidentemente nel 1954 c'era
già troppo d'affare per nascondere le numerose debacle militari del paese nella
seconda guerra mondiale , per rimettere sotto l'obiettivo quella che
probabilmente era la madre di tutte le disgrazie belliche italiane. Visconti
opera quindi da un punto di vista artistico, il ritorno agli stilemi di una
narrativa forte, perché sente che il problema nazionale ha un'origine che non è
da ricercarsi nel passato prossimo, ma all'origine del paese e va quindi smesso
l’alibi della povertà del dopoguerra per giustificare la nostra impreparazione
di popolo. L’Italia è una farsa già a partire dal movimento che ne ha ispirato
l’unità: piangersi addosso, come in fondo aveva fatto o rischiava di fare il neorealismo, non aveva più senso.
Alida Valli
Nessun commento:
Posta un commento