430_MANTO NERO (Black Robe); Canada, Australia, Stati Uniti 1991. Regia di Bruce Beresford.
Su uno dei manifesti originali di Black Robe la tagline
recita: patch twice the punch of ‘Dance
with wolves’! E’ quindi legittimata dagli stessi produttori del film Manto Nero, l’idea di ricercare in Balla coi lupi lo spunto di partenza
dell’opera di Bruce Beresford. Perché è un’impressione forte quella che si
avverte, e che viene a prescindere da quanto scritto sul poster, anche perché, ad esempio, su quello italiano non c’era alcun riferimento al film di Kevin Costner. Però,
ad un anno di distanza, vedere ancora sullo schermo, in modo così
significativo, gli indiani d’America, è un fatto che balza all’occhio, visto
che era tempo che questo non accadeva. Ma sono evidenti anche alcune
differenze: il film di Costner, pur se di un certo impatto realistico, aveva un
respiro epico, una magniloquenza che celebrava degnamente (e finalmente) la
cultura dei nativi in modo aperto e scoperto, senza scomodare sottotesti da
interpretare o letture a diversi livelli. Ad onor del vero, va detto che il
cinema di Hollywood era da tempo sostanzialmente filo-indiano, seppure l’intento portante era un altro; e questo sin
dagli anni 50 del western classico ma, per una ragione o per l’altra, l’attenzione
alle ragioni dei nativi presenti nei film di John Ford e compagni furono sostanzialmente
ignorate. Basta riguardarli oggi (ma farlo, non andare a memoria), per rendersi
conto di come la questione indiana
fosse già al tempo trattata in modo equo dal cinema. In ogni caso, agli arbori
degli anni novanta del XX secolo esisteva ancora, e non solo in America, la
convinzione che il cinema hollywoodiano avesse bistrattato in modo eccessivo
gli indiani (quando invece, furono più che altro la politica e la società
americane a farlo).
In quest’ottica, Balla
coi lupi cercò di sanare il debito con gli indiani (e ci riuscì, almeno per
quel che gli competeva), con una celebrazione che rendeva il giusto
riconoscimento ad una cultura che andava assolutamente rimessa in posizione di
massimo rispetto. Costner, per il suo film, prese come protagonista la nazione
Sioux, che tra le popolazioni indiane era di quelle più affascinanti, per
costumi e tradizioni; nel lungometraggio, per la prima volta, i dialoghi dei
nativi erano nel loro vero linguaggio e moltissima cura fu prestata per le
caratteristiche culturali dei pellerossa.
Inevitabilmente, pur con tutta la
buona volontà da parte di Costner di essere fedele alla realtà storica, tutta
questa massa di buone intenzioni (chiamiamole
così), finì per edulcorale alcuni aspetti della civiltà degli indiani che, per
quanto rispettabile e certamente nel complesso piena zeppa di valori positivi,
aveva anche un lato oscuro, selvaggio, anche un po’ primitivo. Ecco, in questo
spazio (virtuale) che si crea tra quella che doveva essere la cruda realtà
dell’America dei pellerossa e l’idea epica di Kevin Costner, si inserisce Manto Nero, come del resto esplicitato
dalla citata tagline che vanta, per
il film, una durezza doppia rispetto
a Balla coi lupi. Il film è un
curioso pastiche di provenienze autoriali: il regista Bruce Beresdorf è
australiano, mentre soggetto e sceneggiatura sono di Brian Moore, scrittore
nato in Irlanda del Nord e solo successivamente emigrato nel Canada dove è
ambientata la nostra storia. Al centro del racconto c’è un gesuita francese
(padre LaForgue, interpretato da Lothaire Bluteau), circondato da indiani, di
ceppo algonchino e irochese, prevalentemente ostili o comunque molto
diffidenti. Il film si distingue, nel complesso, per una eccessiva durezza, sia
sul piano violento che su quello sessuale, e lo spettatore è obbligato, come lo
stesso gesuita del resto, ad assistere ad alcuni spettacoli decisamente
pesanti, e anche un po’ gratuiti.
D’accordo, si cercava di smascherare l’aura
di epica, probabilmente poco realistica, che Balla coi lupi aveva lasciato in eredità, ma forse lo si poteva
anche fare senza beccarsi la famigerata ‘R’ (per restricted, definizione che ne limita la visibilità; la versione
americana del nostrano Vietato ai Minori).
Il riferimento alle diverse origini geografiche degli autori può essere utile
per cercare di capire quello che forse è il tentativo di universalizzare la questione indiana ridivenuta di
attualità all’alba degli anni novanta. Con il suo essere molto fedele alle
culture interessate dal film, il citato Balla
coi lupi rischiava di essere interpretato come un testo specifico sui Sioux
o al massimo sugli indiani delle praterie; oppure, in estrema istanza, riferito
a tutte quante le tribù pellerossa degli States.
Manto Nero non solo estende il
discorso ai nativi del Canada attraverso la storia narrata ma, se consideriamo
che il film che ricorda maggiormente è Mission, (di Roland Joffé, 1986),
ambientato tra gli indios del Sudamerica, allora si può intendere come una
riflessione sui problemi della colonizzazione di tutto quanto il continente.
E
se a dirigerlo è un regista australiano, viene il sospetto che in suddetta
riflessione possano venir interessati anche i problemi che hanno sofferto gli
aborigeni dell’Oceania con l’arrivo anche là degli europei. La storia narrata è
l’incursione nella natura selvaggia di un uomo di chiesa, peraltro molto
pragmatico come tutti i gesuiti: ma padre LaForgue rappresenta soprattutto la
civiltà di origine europea e il suo essere in quei territori completamente
fuori luogo è il rovesciamento dei canoni di normalità e quindi di civiltà. Il
prelato è fuoriposto sia in aperta natura, sia dentro la tenda, manufatto e
concreto esempio della civiltà indigena americana.
Il gesuita si perde nel
bosco prima e, in seguito, è palesemente turbato per i rapporti sessuali dei
suoi coinquilini dentro l’abitazione itinerante. Daniel (Aden Young), il
giovane che l’accompagna insieme agli Algonchini, rivede presto i suoi
intendimenti, a proposito di recarsi in Francia e seguire la via talare: a
contatto con la natura, trova più ovvio, più normale, divenire algonchino; ad essere onesti anche per via della
presenza di Annuka (Sandrine Holt). Chomina (August Schellenberg), il capo
degli Algonchini lo ammette, perfino gli odiati Irochesi non sono uomini crudeli,
sono gente normale, si comportano con
la necessaria durezza in un ambiente spietato che non concede errori; ma per la
verità, lo stesso indiano si rende conto, proprio in punto di morte, di non
essere stato molto diverso da un comune uomo bianco.
Tuttavia, l’atteggiamento
di padre LaForgue, la sua attenzione a cose che agli occhi degli indiani paiono
bizzarrie, è sottolineato più volte nei dialoghi tra i pellerossa come del
tutto privo di senso. E proprio Chomina, mentre sente la vita sfuggirgli,
rinuncia alla proposta di conversione, rivelando quanto sia vana l’opera del Manto Nero. Lo stesso gesuita si rende così
conto, nel finale, dell’inefficacia del suo affannarsi nell’opera di
conversione dei nativi, e il suo sconforto si avverte nella parole di commiato dai
suoi ultimi compagni di viaggio, Daniel e Annuka. Raggiunta la missione ha il
tempo di assistere alla morte del suo predecessore; a quel punto arrivano gli
Uroni che, disperati per le febbri che falcidiando la loro popolazione, si sono
decisi a convertirsi.
Dietro questa decisione c’è la convinzione, da parte
degli indigeni, che l’infezione sia stata portata dai bianchi come punizione
per chi non si converte: cosa, almeno nella prima parte, probabilmente neppure
troppo lontana dalla verità. Nonostante la perplessità di padre LaForgue, che
auspicherebbe una comprensione dei valori cristiani prima della conversione, si
potrebbe pensare comunque ad un mezzo successo, per l’opera
dell’evangelizzazione dei nativi. Nella realtà storica, e una didascalia nel finale
del film si premura di informacene, questa conversione al cristianesimo e la
connessa alleanza con i francesi costò cara agli Uroni che furono sterminati
dagli Irochesi, 15 anni dopo i fatti narrati. Insomma, non ci fu niente di
epico nella colonizzazione, che non fu altro che uno scontro di civiltà, con
più punti di contrasto che di incontro. Ma il regista sembra concludere con
amara ironia, sottolineando come nel colonialismo ci fossero anche ‘buone
intenzioni’: in effetti Manto Nero si
chiude con la bellezza universale di un tramonto, con il sole che illumina il
crocefisso della missione. L’estrema sintesi della nuova vita offerta ai
pellerossa e a tutti i popoli colonizzati dagli europei: il martirio sulla
terra, da vivere in prima persona.
Sandrine Holt
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