421_C'ERA UNA VOLTA A... HOLLYWOOD (Once upon a time in... Hollywood); Stati Uniti, 2019. Regia di Quentin Tarantino.
Quanto costa andare a vedere un film in prima visione?
Sette, otto euro, a seconda della sala, del cinema e della città. Poco meno di
dieci, insomma. Allora andare a vedere C’era
una volta a… Hollywood, il nuovo lungometraggio di Quentin Tarantino, è un
vero affare. E non per la durata del film, quasi tre ore, sia chiaro; non è nel
formato convenienza il vantaggio che
se ne ricava. Tarantino, con C’era una
volta a… Hollywood ci restituisce nientemeno che il sogno americano. Il sogno americano,
un mito certamente criticabile ma ora, a fronte dei veri frutti della controcultura, degno di essere
rimpianto; e che il geniale Quentin, per una manciata di euro, ci restituisce
ripulito e mondato. Anzi, forse è il caso di dire anche vendicato, alla stregua di un personaggio preso da un rape & revenge, i filmacci che raccontano di una vendetta
in seguito ad uno stupro. Per la verità, in C’era
una volta a… Hollywood manca la deriva sessuale della violenza, visto che
gli hippy demoliti dal formidabile
regista nemmeno hanno il pretesto della necessità fisica da sfogare, per
giustificare la loro insulsa e ottusa rabbia verso il sistema. Quello che, nel 2019, entra nel cinema per vedersi l’ultimo
film di Tarantino è forse lo spettatore più disilluso di sempre; non nei
confronti del cinema del regista, sia chiaro, che gode di una fama eccellente
(e meritata). No, è un discorso generale e che riguarda ogni individuo: la
fiducia nel prossimo, nella società anzi, meglio, nel sistema, è ai minimi storici di sempre, dopo essere stata costantemente
minata da una cinquantina d’anni a questa parte (precisamente, dalla
rivoluzione sessantottina) da notizie vere che smascheravano corruzione e
intrallazzi del suddetto sistema e delle sue istituzioni, ma anche da notizie
false e contro-notizie altrettanto false, diffamazioni, illazioni e calunnie. Insomma,
tonnellate e tonnellate d’odio che, in epoca di social network, sono aumentate esponenzialmente. Cosa c’entra tutto
questo con C’era una volta a… Hollywood,
il film in cui Tarantino addirittura sublima la propria tipica vocazione
metalinguistica e che, quindi, mette al centro del suo discorso il cinema
stesso e non la realtà? Che c’entra la società in cui vive lo spettatore
odierno, se quello mostrato in C’era una volta a… Hollywood ha come suo
più grande riferimento il mondo del cinema?
Perché, se abitualmente il cinema è
la finzione della realtà, C’era una volta
a… Hollywood, avendo come riferimento Hollywood e non tanto il mondo reale,
è piuttosto la finzione della finzione, è la finzione al quadrato se non
addirittura al cubo. Un immenso gioco di rimandi che Tarantino compone come un
puzzle di cui ogni singola tessera ha un suo riferimento specifico. La maggior
parte dei quali riconoscibili o comunque familiari; è però impossibile coglierli
tutti, anche perché, in buona parte dei casi, alcuni rimandi sono inventati a
bella posta dal regista per il suo film. Un labirinto di finzioni nel quale è certamente
bello perdersi, guardando i magnifici protagonisti della storia. Ma di Leonardo
Di Caprio, di Brad Pitt o di Margot Robbie, i tre assi al centro di un cast
ricchissimo di nomi famosi, si può parlare anche dopo, perché la cosa più
importante, la cosa che fa divenire C’era
una volta a… Hollywood una nuova pietra angolare della Storia del Cinema, tanto quanto era stato Pulp Fiction a suo tempo, sono i solidi riferimenti alla realtà,
quella vera. Quella in cui vive lo spettatore di cui si diceva prima, per
rispondere alla domanda rimasta inevasa. Rimandi alla realtà che dunque ci
sono, anche se mischiati a quelli spudoratamente finti o ad altri falsi ma
verosimili, visto che la natura metalinguistica del suo cinema non è
sconfessata da Tarantino nemmeno stavolta, è ovvio.
Il richiamo più evidente
alla realtà storica è la triste vicenda del massacro di Cielo Drive, dove alcuni membri della famiglia Manson uccisero, tra gli altri, Sharon Tate, attrice e
moglie del regista Roman Polanski. Ma ce ne sono anche altri, di riferimenti
molto seri e attendibili, e anche molto ben assestati: come a quello sul
Vietnam, sulla falsità degli attori e quindi del cinema o sulla natura della
violenza nella società che sarebbe originata da quella mostrata sugli schermi,
televisivi e cinematografici. Sono gli hippy, o meglio, per lo più le hippy, della comunità di Charles
Manson a fare questi commenti; niente più che un branco di debosciate e di
debosciati, è evidente, ma i loro argomenti sono quelli che per cinquant’anni
hanno tenuto banco in senso molto più generale, a livello di opinione pubblica.
Hollywood era il biglietto da visita del sogno
americano: ovviamente nascondeva e ometteva le criticità del modello di società che rappresentava, ma
la critica feroce, dalle elite intellettuali ai movimenti più popolari, non gli
risparmiò nulla e fece di ogni erba un fascio. In senso letterale: chiunque,
anche al cinema, provasse con forza, anche laddove questa fosse indispensabile,
a far rispettare le regole collettive, è stato per decenni etichettato come
fascista (nel film c’è un esplicito riferimento in tal senso). Nel nome del
Vietnam, (altro elemento, come già detto, invocato nel film), che era
certamente una guerra sporca, si è trovato il pretesto per mettere in
discussione qualunque forma non solo di autorità ma anche di rispetto delle
regole del vivere civile.
Lo stesso sistema economico, di cui il cinema era (ed
è) un fiore all’occhiello, è stato ideologicamente contestato al di là del
ragionevole, si vedano i casi della comune
di Manson, come quelli del terrorismo, ma questi erano gli aspetti più estremi
di un fenomeno su più larga scala. La furia della contestazione al sistema
influenzò tutta quanta l’opinione pubblica, o forse ne fu solo la cresta
dell’onda; fatto sta che avere successo,
se da un lato era certamente un vantaggio riconosciuto, da un altro era quasi
una colpa. Molti dei film degli anni settanta, tra i quali numerosi girati in
Italia, e celebrati (e citati) non a caso da Tarantino, raccontavano
dell’aggressione alla borghesia e della ribellione violenta da parte dei
giovani rivoluzionari contro il ceto medio, reo unicamente di aver raggiunto
una sorta di pace economica.
La questione sociale tanto cara
all’opinione pubblica tendeva spesso a legittimare questa aggressione e a
bollare come fascista la difesa borghese ai propri privilegi, veri o presunti che fossero. Può sorprendere, ma è
questo il tema principale, in C’era una
volta a… Hollywood e non i rimandi al western di serie B o ad altri affettuosi omaggi all’universo hollywoodiano. C’era una volta a… Hollywood è un rape & revenge (anomalo, mancando lo
stupro, si è detto), ma il godimento sadico e compiaciuto che assale lo
spettatore nel vedere trucidati i tre sub-umani
della comune di Manson non ha pari nell’intera Storia del Cinema. E qui sta la
grandezza di Tarantino e di C’era una
volta a… Hollywood: non ci si sente minimamente in colpa, e nemmeno un
tantino fascisti, nel lasciarsi trasportare dalla libidine di vedere i teppisti
massacrati. Perché tanto è solo un film, non è possibile dimenticarlo, non dopo
più di due ore di cinema metalinguistico del regista, che ci ricorda, ogni
minuto del suo lungometraggio, che quello che vediamo è un'opera di pura
finzione (al cubo). E quindi, almeno al cinema, facciamo fare la fine che
merita a feccia umana della stregua dei Mansons.
Anche se questo ci costringe ad ammettere con noi stessi di
essere persone violente, perlomeno al cinema. Ma senza alibi: il rapporto con
la violenza, da sempre presente nel cinema del regista americano, è
laconicamente liquidato da Cliff (Brad Pitt), uno dei protagonisti del film. Se
ammazzi qualcuno, anche a mani nude, anche non del tutto volontariamente, sei
responsabile come minimo di omicidio colposo. Semplice e lineare. E, come
detto, senza alibi; al contrario degli hippy, che ripetono di essere violenti per colpa del Vietnam o dei programmi visti
alla Tv. Cliff, a cui Brad Pitt concede un carisma magnetico, è un gran bel
personaggio: nonostante sia accusato, senza che si possa sapere quanto ci sia
di vero, di essere un impunito (è
addirittura sospettato di aver ammazzato la moglie) è, al contrario, un
individuo che si prende le sue responsabilità, si prende cura di quello che gli
sta attorno, di quello che succede. Oltre a fare di mestiere la controfigura di
Rick Dalton (Leonardo Di Caprio), e quindi assumersi rischi per conto
dell’altro per professione, Jeff è una sorta di fac-totum: autista,
accompagnatore, riparatore.
Questa vocazione ad avere attenzione all’altro è poi ribadita da più di un
elemento: dalle amorevoli ma autorevoli cure al cane, alla volontà di
accertarsi sulla maggiore età di Pussycat (Margaret Qualley) a fronte
dell’offerta sessuale della giovane, all’ostinazione nel verificare che George
Spahn (Bruce Dern) non sia tenuto segregato dagli hippy. Non è un dettaglio
secondario: la propensione a non limitarsi a farsi i fatti propri è la
caratteristica più peculiare dell’eroe classico e Jeff, in teoria, non dovrebbe
essere né eroe né classico. E’ infatti solo la controfigura (una sorta di
doppio, di falso), di un attore (concetto legato alla finzione) di film di serie B (e quindi di bassa lega). Quanto
di meno eroico e classico possibile.
Ma, nell’enorme gioco di specchi di
Tarantino, i due protagonisti sono appunto uno la controfigura dell’altro, non
è ovviamente tutto come sembra. Perché Jeff ha davvero la stoffa dell’eroe e
anche il finale lo certifica, nel momento in cui si sacrifica per l’altro, rimanendo ferito, sostanzialmente
al posto del padrone di casa. Che è appunto Rick Dalton, al quale Di Caprio conferisce
una statura tragica notevole: un attore di mezza tacca che, di fronte
all’ultimo treno della propria carriera, sfodera una prova d’attore
superlativa. Ma Rick è un vero uomo, non solo un vero attore, e lo dimostra
tanto quando si lascia andare a momenti di sconforto un po’ imbarazzanti, quanto
commuovendosi facendo il bilancio della propria carriera, o forse della propria
vita, mentre racconta la trama di un romanzetto western. Ha torto, Pussycat,
lei sì finta nel suo puerile e sterile anticonformismo, quando dice che gli
attori sono gente fasulla: Rick Dalton non è fasullo per niente, sebbene sia un
personaggio fittizio (inventato da Tarantino per il suo film). Ma non è finta nemmeno
Sharon Tate (una superlativa Margot Robbie) personaggio infatti vero, reale, ma
al centro della manovra distopica di Tarantino su cui verte C’era una volta a… Hollywood. Margot è
bravissima nella tenera scena in cui Sharon va in un cinema qualsiasi e si
rivede in un filmetto con Dean Martin.
La voglia di essere riconosciuta come
attrice del film, la disponibilità a posare in foto, nonostante la cassiera si
dimostri piuttosto rozza nei suoi confronti, ci regalano alcuni passaggi quasi
commoventi, come anche la successiva scena nella quale la ragazza si gode il
piacere di sentire i mormorii di approvazione dello scarso pubblico presente in
sala, a fronte delle sue prestazioni non certo indimenticabili di attrice. Ma
la felicità stampata sul volto di Margot, quella si è indimenticabile. Altro che gente finta, verrebbe da dire;
sebbene la Robbie
la stesse ovviamente recitando, quella felicità. Ma è proprio questa la magia
del cinema. Al di là delle sue qualità artistiche, Sharon Tate si merita
l’omaggio di Tarantino, non fosse altro che per simbolico risarcimento alla
barbara fine che la vita reale le ha riservato. Perché, come è noto, la Tate rimase vittima del
massacro di Cielo Drive, opera dei
criminali senza senso plasmati non solo da Manson ma, duole dirlo, anche da una
distorta idea di controcultura molto
in voga al tempo (e per molto tempo dopo). E c’è un dolorosissimo riferimento
di Tarantino, in questo senso, nell’esclamazione di Rick rivolta ai teppisti
che disturbano la quiete notturna di Beverly Hills: “Hey Dennis Hopper!” li
appella l’attore, ricordando (e ammettendo) che Easy Rider era il manifesto di quella stessa controcultura di cui i Mansons
erano certamente illustri
ambasciatori. Ma C’era una volta a…
Hollywood, come si evince dal titolo, è una favola e non la realtà, e
quindi il regista può cambiare anche la Storia ,
quella con la S maiuscola, quella già sconfitta dalla leggenda
western ai tempi di John Ford di L’uomo
che uccise Liberty Valance. E Tarantino, ovviamente, la Storia
la cambia a suo (e nostro) piacimento e, perlomeno nel suo universo
(cinematografico), sono i cattivi, i Mansons, a finire all’inferno. E, almeno
al cinema, da adesso in poi, più precisamente da C’era una volta a… Hollywood in poi, possiamo mandarceli davvero,
all’inferno, i cattivi, e mandarceli con
massimo godimento. Senza per questo sentirci in colpa, o peggio, fascisti,
razzisti o altre baggianate moralistiche.
Fosse anche solo per questo, grazie Quentin.
Margot Robbie
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