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giovedì 24 ottobre 2019

KING KONG

431_KING KONG ; Stati Uniti 1933Regia di Marion C. Cooper e Ersnt B. Schoedsack.

Caposaldo del cinema in senso assoluto, King Kong è un film che ha molti motivi di interesse, tra i quali quello di interpretare il genere fantastico nella sua completezza e in modo mirabile. Perfettamente bilanciato tra film d’avventura e dell’orrore, incarnando così appieno lo spirito del genere fantastico, King Kong ha anche una vena romantica ma più che altro è una storia di grande valenza simbolica. La struttura speculare su cui verte è infatti ben calibrata, e permette una facile lettura del significato senza per altro distogliere l’attenzione dal compito primario della pellicola, che è quello di meravigliare. La meraviglia intesa nel film è quella primordiale, che crea una sensazione di ammirazione nell’uomo, mentre nel contempo lo atterrisce anche un poco perché mette in evidenza la minuscola (rispetto alla grandiosità della manifestazione meravigliosa) condizione umana. La matrice metalinguistica dell’opera è intrinseca: il cinema è l’arte che meglio di ogni altra può ambire a produrre nello spettatore una moderna versione della Sindrome di Stendhal; quindi, in questo caso, la meraviglia nello spettatore è raddoppiata, per il cinema come spettacolo da un lato e, nello specifico, per il protagonista di questa storia, King Kong. E nel secondo caso, questa sensazione si traduce quasi istantaneamente in terrore, essendo il primate gigante un soggetto piuttosto pericoloso. Ma, considerato anche che lo spettacolo cinematografico ci mantiene al sicuro al di qua dello schermo, si può tranquillamente affermare che, prima di esserne spaventati, la gigantesca figura di Kong eserciti sul pubblico un fascino notevole. E, questa sensazione, ben comunicata dal film di Cooper e Schoedsack, è un altro aspetto del genere fantastico; e l’attenzione al genere è un altro dettaglio metalinguistico. 

L’avventura è avvincente, c’è ritmo quando serve e suspense in abbondanza: il compito di divertire è certamente assolto. Il tema, ribadito anche nel film a più riprese proprio da Carl Denham (Robert Armstrong), di professione regista e importante personaggio nella storia, è quello della bella e la bestia. Che il protagonista della vicenda sia un regista e che il racconto narri proprio delle riprese di un film, tolgono ogni possibile dubbio sul fatto che King Kong sia una pellicola che mette il cinema al centro del suo obiettivo. Il nostro Denham vuole girare un film in un’isola dove pare vi sia un mistero di grande fascino; ingaggia quindi una ragazza, la bellissima Ann Darrow (Fay Wray, davvero splendida), non certo un’attrice professionista, e parte con una nave alla volta della terra misteriosa. Gli sviluppi delle vicende per la bella e per la bestia, sono simili: Denham si reca nella giungla cittadina, dove il muro di indifferenza della metropoli tiene segregata dalla società la povera Ann. 

L’ingaggio della ragazza avviene per trasformarla in un’esca per attirare attenzione. La stessa sequenza viene poi ripetuta per Kong: nella giungla dell’isola sperduta, tenuto separato dal villaggio da un alto muro, viene catturato per finire a fungere da richiamo per gli spettatori di New York. Queste due storie si intersecano a metà, essendo Ann l’esca per richiamare Kong: la bestialità è quindi strettamente connessa alla bellezza, di cui si può dire che sia l’altra faccia della medaglia. E parlando di bestialità non può non essere evidente che ci si riferisca a quella umana: infatti nel film abbondano i mostri, perlopiù dinosauri, ma il mostro per eccellenza della storia è King Kong. Il quale è una sorta di gorilla, quindi un primate, ovvero qualcosa di fortemente imparentato (certamente più dei dinosauri) con l’uomo. 


C’era quindi la necessità, secondo gli autori, di mettere al centro della storia una bestialità che fosse condivisibile dall’uomo; diversamente si poteva usare come mostro protagonista del film, uno dei dinosauri presenti nell’isola. Ma, ovviamente, lo scopo di mostrare il lato primordiale umano serve a ribadire come sarà la bellezza, anch’essa in un certo senso primitiva, (nel senso di assoluta e pura), a redimere la bestia, e non tanto l’intelligenza. E questo non per disprezzo nei confronti dell’intelletto umano, ma perché, almeno stando al film, questa altro non è che un ulteriore aspetto della forza. Non a caso è proprio l’intellettuale del gruppo (il regista) a vincere la bestia; ma lo fa con uno scopo utilitaristico, speculativo, di sfruttare cioè il mostro. Non può quindi essere questa la via dell’evoluzione, se si passa semplicemente da un criterio di forza bruta per sopraffare gli altri, ad uno che utilizza mezzi più sottili come l’intelligenza e l’astuzia per ottenere lo stesso scopo. La bellezza femminile di Ann lavora invece in modo diverso, instillando nella bestia la premura di non rovinarla: dopo gli inizi nell’isola, forse eccessivamente focosi, Kong, pur se in modo un po’ rozzo, cerca infatti di salvaguardare la salute ragazza e perde completamente le staffe quando vede la giovane essere cinta in vita da un uomo, temendo per la sua sorte. E’ questo, quindi, il ruolo della bella, smussare la bellicosità della bestia. Azzardando una citazione in modo forse un po’ irriverente, potremmo dire che la bellezza salverà il mondo, laddove la bellezza potrebbe essere intesa anche quella dello spettacolo cinematografico e non solo quella esibita dalla Wray.
Chissà, probabilmente, negli anni 30 del secolo scorso, poteva essere un discorso valido.
E’ possibile crederlo ancora oggi?






Fay Wray












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