425_JOKER ; Stati Uniti, 2019. Regia di Todd Phillips.
Ad un certo punto, il protagonista del film Joker di Todd Phillips tira fuori una
sorta di biglietto da visita: quasi fosse una presentazione del personaggio,
una scena simbolica che ci aiuta a comprendere la natura del soggetto
al centro della scena. In realtà, più che un biglietto da visita, il cartoncino
che il Joker porta con sé spiega all’eventuale interlocutore il disturbo di cui
soffre tale Arthur Fleck, che altri non è che il nemico per eccellenza di
Batman all’anagrafe. Dal citato bigliettino apprendiamo che il disturbo di cui
soffre l’uomo è qualcosa di simile al riso
spastico, nel caso del Joker un’incapacità di controllare gli scoppi di
risa che lo assalgono, per assurdo, nei momenti altamente drammatici. E’ come
se l’umore e la manifestazione dello stesso, nel personaggio meravigliosamente
interpretato da Joaquin Phoenix, fossero fuori sincronia. E questo che dice, in
sostanza, il biglietto da visita che il Joker presenta alla signora sulla
metropolitana o ai tre balordi benvestiti: e questo è esattamente il tema del
film, che giustamente è ancorato alla personalità del personaggio su cui è
incentrata l’opera. Il Joker appare anche fisicamente fuori sincronia, magro e scheletrico ma anche muscoloso, con pose
che mettono in dubbio la capacità cognitiva dello spettatore in materia di
anatomia. Eppure, poi Arthur si gira, si mostra meglio, e non ha niente di
sbagliato, fisicamente è tutto al suo posto, anche se per un’inquadratura c’era
sembrato il contrario.
E, a ben vedere, anche il lavoro che fa Arthur, 'far
ridere', si basa proprio su quello, sulla capacità di cogliere un particolare,
una scena, leggermente fuori sincronia dalla banale routine; e che quindi ci fa
ridere. E come nelle comiche di Charlie Chaplin dove lo vediamo camminare lungo
la strada, poi inciampa, e noi ridiamo. Forse per autoironia, perché sappiamo
che è capitato anche a noi, o forse perché, con una sorta di inconscia
attitudine statistica, speriamo che essendo capitato ad un altro per stavolta l’abbiamo
scampata. Charlie Chaplin, per la verità, in Joker compare per davvero e lo fa in un’altro passaggio simbolicamente
chiave per decifrare il senso del film: è sullo schermo di un cinema, un
rimando metalinguistico e quindi piuttosto esplicito di quello a cui aspira il
film di Phillips. Charlot nel film non cammina e inciampa, pattina: e l’ilarità
che produce è legata non a qualche sua goffaggine ma al suo pattinare in modo
elegante e bendato sfiorando ripetutamente di volare di sotto. Non è un
comportamento sbagliato, errato, maldestro, quindi, a far ridere, ma la
situazione: Charlot pattina bene, considerando che è pure bendato. Ma è assai
incauto e inopportuno, pattinare
senza poter vedere che c’è il pericolo di cadere al piano di sotto. Inopportuno.
Eccolo, che torna, il tema del film: non qualcosa
di sbagliato, ma qualcosa che non è nel posto dove dovrebbe essere. Come
Charlot che pattina incauto o Arthur che ride sguaiatamente mentre i tre yuppie
stanno molestando una povera ragazza sulla metropolitana oppure quando porta un
revolver in un ospedale per bambini. E l’intuizione del regista Todd Phillps, è centrata: la risata,
il simbolo del Joker, il personaggio dei fumetti DC e dei cinemovie Warner, si fonda proprio su una discrepanza tra quello che dovrebbe essere e quello che è
nella circostanza che risulta quindi comica. E’ il fuori sincronismo della
scena che ci fa ridere; persino l’umorismo surreale e quasi astratto di Groucho
Marx ha le stesse premesse, visto che ci rivela cortocircuiti dialettici che
avevamo sottocchio ma di cui non ci eravamo accorti, essendo anche solo un pelo
fuori posto. La cosa estranea, completamente inaspettata e non prevedibile, diversa, non fa ridere; al più ci lascia
indifferenti. Non è quindi un diverso,
il Joker; è solo inopportuno. La traccia sociologica è infatti demolita dal
film: dall’assistente sociale che non ascolta Arthur o con cui è inutile parlare, per utilizzare lo
stesso termine che usa il Joker nel finale, ai due benpensanti illustri che
provano a spiegare la follia dell’assassino truccato da clown con i soliti
refrain psicoanalitici o legati al contesto sociale. Ma è proprio nelle parole
di uno di questi citati benpensanti, ovvero Thomas Wayne (Brett Cullen), che
troviamo conferma del significato del film: i tre eleganti balordi uccisi a
revolverate dal Joker sono bravi ragazzi, gente a posto, giovani che avevano
una carriera professionale davanti ben avviata. Si sa che nel sistema economico
occidentale la qualità migliore è cogliere al volo le opportunità della vita, e
in questo loro erano maestri: si può anche molestare una ragazza, in treno, da
sola, se non c’è nessuno che può vederti.
E un uomo truccato da pagliaccio è un
perfetto esempio di nessuno, persona insignificante, e quindi ignorabile (oppure
presa a pugni e calci nel caso provi a mettersi in mezzo). Non c’è alcun
riferimento morale: nel film questo aspetto è completamente ignorato. La
violenza di cui sono vittime i tre giovani è la stessa che esercitano loro ma
che, per una volta, gli si ritorce contro. Non che sia giusta la legge del
taglione, ma andrebbe almeno detto che questi bravi ragazzi le rogne se le
siano cercate, in fondo. Invece, tre yuppie vengono uccisi, e scoppia un caso
sulla stampa; glissando sul fatto che ciò gli è accaduto mentre molestavano e
pestavano, non mentre viaggiavano pacifici e tranquilli.
Non è una questione
narrativa: la stampa ignora il retroscena, d’accordo, ma lo spettatore del film
di Phillips no. Il quale sconfessa anche un’interpretazione economico sociale:
quello che fanno i tre baldi giovanotti è in fondo la stessa cosa, massacrare
gratuitamente di botte il povero Arthur, di quanto fanno quattro ragazzini
di un quartiere popolare all’inizio del film. Anche loro, resi scaltri dalla vita di una Gotham
che sembra uscire dai film newyorkesi di Martin Scorsese, stanno ben
attenti a non farsi beccare da nessuno nella loro bravata, che potrebbe anche costare la vita all’uomo (e che
comunque perde il suo lavoro anche a causa di quella), e riescono a rimanere
impuniti. Gente opportunista.
Tipo l’altro personaggio illustre di Gotham City,
precedentemente citato, un altro perfetto esempio di individuo che consce i
tempi per dire e non dire, fare e non fare: si tratta di Murray Franklin (uno
strepitoso Robert De Niro). Comico affermato e conduttore televisivo di Talk Show, sull’arte di calibrare al
millimetro le sue mosse ha fondato il successo professionale. La stessa frase
detta in un certo momento è funzionale, alle risate del pubblico o
dell’applauso in platea, in un altro no e lui conosce perfettamente il
meccanismo. E’ l’esatto opposto di Arthur. Ma solo per la capacità di scegliere
i tempi giusti; ha ragione il Joker,
quando gli rinfaccia, nel fantastico finale, di essere un violento. E’ violenta
la televisione, e l’idea di spettacolo in genere, ma non nelle scene di
ammazzamenti, quelle possono essere contestualizzate, ma nell’uso strumentale
delle notizie, dei fatti, delle vite delle persone, delle personalità dei
malcapitati che finiscono presi di mira da questi individui che conoscono 'come
si sta al mondo'. Perché è un discorso generale, non solo legato ai media di
comunicazione: l’unico che il Joker salva,
dei vecchi compagni di lavoro, è il nano, perché non lo ha mai preso in giro.
Dove
prendere in giro non è tanto inteso
nell’innocente scherzo tra colleghi ma nel regalargli una pistola e poi
opportunisticamente negare di averlo fatto. Perché è evidente che la violenza
che il Joker spande per il film è eccessiva, del resto lui è un tipo fuori
controllo, già dal suo ridere in modo irrefrenabile o nell’assumere pose che
negano le leggi dell’anatomia, ma questo riguarda il suo essere folle. E il
Joker pazzo lo è per davvero, si vedano le ripetute allucinazioni nel quale
veniamo coinvolti, come ad esempio con Sophie (Zazie Beetz), la giovane madre
di colore che abita al suo stesso piano. Ma, a livello morale, da un punto di
vista etico, non c’è sostanziale differenza tra Arthur, Murray, i giovani di
quartiere, gli yuppies, e forse anche il padre di Batman non è poi così
diverso. Ad onor del vero sembra che Phillips abbia un po’ di timore reverenziale,
visto che Wayne è il genitore dell’eroe della saga principale (di cui Joker è comunque una sorta di spin-off), e gli risparmia un giudizio
feroce. Ma egli incarna il mito del sogno
americano, l’uomo ricco e generoso che si preoccupa dei suoi dipendenti (i
tre yuppie), a cui chiedere aiuto (le lettere della madre di Arthur), e che per
completare l’opera ha quindi intenzione di mettersi in politica.
Scelta
sbagliata, almeno secondo il Joker, che nega un coinvolgimento della politica
in tutto ciò; non c’è nessuna politica, ma quale populismo (evocato da alcuni
in riferimento al movimento dei clown),
questa è semplicemente l’America. E la faccia truccata del Joker, con i colori
della Stars and Stripes, la bandiera
a stelle e strisce, lo indicano chiaramente: lui incarna perfettamente il sogno americano. Ma i sogni dovrebbero
rimanere nascosti in un cassetto e tirati fuori solo al momento buono. Ma è
proprio qui che sbaglia Arthur, nei tempi e nei modi e nel suo errore, nel suo
essere inopportuno, mette alla berlina un modo di fare che è comune a tutti. Il
Joker non è il diverso, ma non sono
più nemmeno i tempi de “il diverso siamo noi”, dei film horror
degli anni 80. Il Joker non è un diverso;
il Joker siamo noi quando veniamo colti in fragrante, quando la telecamera ci
inquadra mentre rubiamo al supermercato, quando si scopre che abbiamo truccato
i conti, quando passiamo col rosso pensando che nessuno ci veda.
Il Joker è
ognuno di noi, e nemmeno nel lato peggiore.
Zazie Beetz
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