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lunedì 14 ottobre 2019

JOKER

425_JOKER ; Stati Uniti, 2019Regia di Todd Phillips.

Ad un certo punto, il protagonista del film Joker di Todd Phillips tira fuori una sorta di biglietto da visita: quasi fosse una presentazione del personaggio, una scena simbolica che ci aiuta a comprendere la natura del soggetto al centro della scena. In realtà, più che un biglietto da visita, il cartoncino che il Joker porta con sé spiega all’eventuale interlocutore il disturbo di cui soffre tale Arthur Fleck, che altri non è che il nemico per eccellenza di Batman all’anagrafe. Dal citato bigliettino apprendiamo che il disturbo di cui soffre l’uomo è qualcosa di simile al riso spastico, nel caso del Joker un’incapacità di controllare gli scoppi di risa che lo assalgono, per assurdo, nei momenti altamente drammatici. E’ come se l’umore e la manifestazione dello stesso, nel personaggio meravigliosamente interpretato da Joaquin Phoenix, fossero fuori sincronia. E questo che dice, in sostanza, il biglietto da visita che il Joker presenta alla signora sulla metropolitana o ai tre balordi benvestiti: e questo è esattamente il tema del film, che giustamente è ancorato alla personalità del personaggio su cui è incentrata l’opera. Il Joker appare anche fisicamente fuori sincronia, magro e scheletrico ma anche muscoloso, con pose che mettono in dubbio la capacità cognitiva dello spettatore in materia di anatomia. Eppure, poi Arthur si gira, si mostra meglio, e non ha niente di sbagliato, fisicamente è tutto al suo posto, anche se per un’inquadratura c’era sembrato il contrario. 

E, a ben vedere, anche il lavoro che fa Arthur, 'far ridere', si basa proprio su quello, sulla capacità di cogliere un particolare, una scena, leggermente fuori sincronia dalla banale routine; e che quindi ci fa ridere. E come nelle comiche di Charlie Chaplin dove lo vediamo camminare lungo la strada, poi inciampa, e noi ridiamo. Forse per autoironia, perché sappiamo che è capitato anche a noi, o forse perché, con una sorta di inconscia attitudine statistica, speriamo che essendo capitato ad un altro per stavolta l’abbiamo scampata. Charlie Chaplin, per la verità, in Joker compare per davvero e lo fa in un’altro passaggio simbolicamente chiave per decifrare il senso del film: è sullo schermo di un cinema, un rimando metalinguistico e quindi piuttosto esplicito di quello a cui aspira il film di Phillips. Charlot nel film non cammina e inciampa, pattina: e l’ilarità che produce è legata non a qualche sua goffaggine ma al suo pattinare in modo elegante e bendato sfiorando ripetutamente di volare di sotto. Non è un comportamento sbagliato, errato, maldestro, quindi, a far ridere, ma la situazione: Charlot pattina bene, considerando che è pure bendato. Ma è assai incauto e inopportuno, pattinare senza poter vedere che c’è il pericolo di cadere al piano di sotto. Inopportuno


Eccolo, che torna, il tema del film: non qualcosa di sbagliato, ma qualcosa che non è nel posto dove dovrebbe essere. Come Charlot che pattina incauto o Arthur che ride sguaiatamente mentre i tre yuppie stanno molestando una povera ragazza sulla metropolitana oppure quando porta un revolver in un ospedale per bambini. E l’intuizione del regista Todd Phillps, è centrata: la risata, il simbolo del Joker, il personaggio dei fumetti DC e dei cinemovie Warner, si fonda proprio su una discrepanza tra quello che dovrebbe essere e quello che è nella circostanza che risulta quindi comica. E’ il fuori sincronismo della scena che ci fa ridere; persino l’umorismo surreale e quasi astratto di Groucho Marx ha le stesse premesse, visto che ci rivela cortocircuiti dialettici che avevamo sottocchio ma di cui non ci eravamo accorti, essendo anche solo un pelo fuori posto. La cosa estranea, completamente inaspettata e non prevedibile, diversa, non fa ridere; al più ci lascia indifferenti. Non è quindi un diverso, il Joker; è solo inopportuno. La traccia sociologica è infatti demolita dal film: dall’assistente sociale che non ascolta Arthur o con cui è inutile parlare, per utilizzare lo stesso termine che usa il Joker nel finale, ai due benpensanti illustri che provano a spiegare la follia dell’assassino truccato da clown con i soliti refrain psicoanalitici o legati al contesto sociale. Ma è proprio nelle parole di uno di questi citati benpensanti, ovvero Thomas Wayne (Brett Cullen), che troviamo conferma del significato del film: i tre eleganti balordi uccisi a revolverate dal Joker sono bravi ragazzi, gente a posto, giovani che avevano una carriera professionale davanti ben avviata. Si sa che nel sistema economico occidentale la qualità migliore è cogliere al volo le opportunità della vita, e in questo loro erano maestri: si può anche molestare una ragazza, in treno, da sola, se non c’è nessuno che può vederti. 

E un uomo truccato da pagliaccio è un perfetto esempio di nessuno, persona insignificante, e quindi ignorabile (oppure presa a pugni e calci nel caso provi a mettersi in mezzo). Non c’è alcun riferimento morale: nel film questo aspetto è completamente ignorato. La violenza di cui sono vittime i tre giovani è la stessa che esercitano loro ma che, per una volta, gli si ritorce contro. Non che sia giusta la legge del taglione, ma andrebbe almeno detto che questi bravi ragazzi le rogne se le siano cercate, in fondo. Invece, tre yuppie vengono uccisi, e scoppia un caso sulla stampa; glissando sul fatto che ciò gli è accaduto mentre molestavano e pestavano, non mentre viaggiavano pacifici e tranquilli. 

Non è una questione narrativa: la stampa ignora il retroscena, d’accordo, ma lo spettatore del film di Phillips no. Il quale sconfessa anche un’interpretazione economico sociale: quello che fanno i tre baldi giovanotti è in fondo la stessa cosa, massacrare gratuitamente di botte il povero Arthur, di quanto fanno quattro ragazzini di un quartiere popolare all’inizio del film. Anche loro, resi scaltri dalla vita di una Gotham che sembra uscire dai film newyorkesi di Martin Scorsese, stanno ben attenti a non farsi beccare da nessuno nella loro bravata, che potrebbe anche costare la vita all’uomo (e che comunque perde il suo lavoro anche a causa di quella), e riescono a rimanere impuniti. Gente opportunista. 

Tipo l’altro personaggio illustre di Gotham City, precedentemente citato, un altro perfetto esempio di individuo che consce i tempi per dire e non dire, fare e non fare: si tratta di Murray Franklin (uno strepitoso Robert De Niro). Comico affermato e conduttore televisivo di Talk Show, sull’arte di calibrare al millimetro le sue mosse ha fondato il successo professionale. La stessa frase detta in un certo momento è funzionale, alle risate del pubblico o dell’applauso in platea, in un altro no e lui conosce perfettamente il meccanismo. E’ l’esatto opposto di Arthur. Ma solo per la capacità di scegliere i tempi giusti; ha ragione il Joker, quando gli rinfaccia, nel fantastico finale, di essere un violento. E’ violenta la televisione, e l’idea di spettacolo in genere, ma non nelle scene di ammazzamenti, quelle possono essere contestualizzate, ma nell’uso strumentale delle notizie, dei fatti, delle vite delle persone, delle personalità dei malcapitati che finiscono presi di mira da questi individui che conoscono 'come si sta al mondo'. Perché è un discorso generale, non solo legato ai media di comunicazione: l’unico che il Joker salva, dei vecchi compagni di lavoro, è il nano, perché non lo ha mai preso in giro. 

Dove prendere in giro non è tanto inteso nell’innocente scherzo tra colleghi ma nel regalargli una pistola e poi opportunisticamente negare di averlo fatto. Perché è evidente che la violenza che il Joker spande per il film è eccessiva, del resto lui è un tipo fuori controllo, già dal suo ridere in modo irrefrenabile o nell’assumere pose che negano le leggi dell’anatomia, ma questo riguarda il suo essere folle. E il Joker pazzo lo è per davvero, si vedano le ripetute allucinazioni nel quale veniamo coinvolti, come ad esempio con Sophie (Zazie Beetz), la giovane madre di colore che abita al suo stesso piano. Ma, a livello morale, da un punto di vista etico, non c’è sostanziale differenza tra Arthur, Murray, i giovani di quartiere, gli yuppies, e forse anche il padre di Batman non è poi così diverso. Ad onor del vero sembra che Phillips abbia un po’ di timore reverenziale, visto che Wayne è il genitore dell’eroe della saga principale (di cui Joker è comunque una sorta di spin-off), e gli risparmia un giudizio feroce. Ma egli incarna il mito del sogno americano, l’uomo ricco e generoso che si preoccupa dei suoi dipendenti (i tre yuppie), a cui chiedere aiuto (le lettere della madre di Arthur), e che per completare l’opera ha quindi intenzione di mettersi in politica. 


Scelta sbagliata, almeno secondo il Joker, che nega un coinvolgimento della politica in tutto ciò; non c’è nessuna politica, ma quale populismo (evocato da alcuni in riferimento al movimento dei clown), questa è semplicemente l’America. E la faccia truccata del Joker, con i colori della Stars and Stripes, la bandiera a stelle e strisce, lo indicano chiaramente: lui incarna perfettamente il sogno americano. Ma i sogni dovrebbero rimanere nascosti in un cassetto e tirati fuori solo al momento buono. Ma è proprio qui che sbaglia Arthur, nei tempi e nei modi e nel suo errore, nel suo essere inopportuno, mette alla berlina un modo di fare che è comune a tutti. Il Joker non è il diverso, ma non sono più  nemmeno i tempi de “il diverso siamo noi”, dei film horror degli anni 80. Il Joker non è un diverso; il Joker siamo noi quando veniamo colti in fragrante, quando la telecamera ci inquadra mentre rubiamo al supermercato, quando si scopre che abbiamo truccato i conti, quando passiamo col rosso pensando che nessuno ci veda. 
Il Joker è ognuno di noi, e nemmeno nel lato peggiore.   





Zazie Beetz



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