373_IL PAESE DEL SESSO SELVAGGIO . Italia, 1972. Regia di Umberto Lenzi.
Col suo cinema, Umberti Lenzi aveva già frequentato
l’estremo oriente, nelle sue trasposizioni salgariane, ma l’approccio non era stato
niente di particolarmente originale e forse, negli anni settanta, dovette
sembragli poco adeguato per essere riproposto. Il cinema di genere italiano aveva subito in quegli anni una robusta
sterzata, in sostanza dagli spaghetti
western di Sergio Leone in poi, che si era poi diffusa anche nelle correnti
d’ambientazione più contemporanea, come i gialli
e i polizieschi. Questi due generi
sfruttarono infatti in modo egregio la violenza stilizzata introdotta dagli spaghetti-western, portando il thriller all’italiana e il poliziottesco a diventare fenomeni
riconosciuti a livello mondiale. Contemporaneamente a questa evoluzione del
cinema d’intrattenimento, nel belpaese
gli anni sessanta videro l’imprevedibile successo dei mondo-movie che da Mondo cane
(1962, di Jacopetti, Cravara e Prosperi) giocarono a carte scoperte sull’idea
di sfruttare il compiacimento da parte degli spettatori di fronte alla
violenza. Lenzi, sempre alla ricerca dell’idea giusta, mette insieme un po’ di
questi elementi e ci ricava Il paese del
sesso selvaggio, film in cui, va subito specificato, di sesso selvaggio se ne vedrà poco, ma che
verrà in seguito riconosciuto come l’apripista del famigerato genere cannibal. Questa deriva antropofaga nel
lungometraggio di Lenzi non è neanche centrale, per la verità; il cannibalismo
riguarda sostanzialmente una scena soltanto, dove alcuni indigeni asiatici
stanno mangiando una ragazza di una tribù rivale, dopo averne approfittato
sessualmente. La scena dura qualche minuto su un totale di un’ora e mezzo, ma
tanto bastò ad erigere Il paese del sesso
selvaggio a capostipite del genere cannibal.
Si tratta però di una nomina ottenuta in seguito, quando il genere venne in parte rivalutato, se non
dal punto di vista strettamente cinematografico, perlomeno come fenomeno
sociale o di costume. Perché quello di Lenzi non ebbe praticamente seguito in
termini di emulazione, sebbene l’intenzione ci fosse; non furono però trovati
gli accordi necessari. In ogni caso, il clamore sui film sull’antropofagia
esploderà ben cinque anni dopo, con Ruggero Deodato e il suo Ultimo mondo cannibale a cui si
successero molti altri titoli, questa volta a stretto giro temporale. E,
sebbene il padre del cinema cannibalico sia spesso considerato appunto Deodato,
la sua parte di paternità, Lenzi se la merita legittimamente.
Perché, in
effetti, in Il paese del sesso selvaggio ci
sono tutti i cliché che diverranno propri del genere: della scena antropofaga
si è detto, c’è lo stupro (come presunta usanza tribale, ai danni di una vedova
del villaggio), ci sono le scene di violenza truculenta (lingue mozzate, torture
varie, tutto opera degli effetti speciali), e, ahimè, c’è anche il tasto
dolentissimo di tutti quanti i cannibal
movie, ovvero la violenza gratuita, efferata e soprattutto reale, a danno
degli animali.
E’ difficile trovare una giustificazione per un simile fenomeno,
che per altro contraddistinguerà a fuoco il genere quasi fosse un titolo di
vanto da parte degli autori. Se la condanna non può essere che netta e limpida,
si può provare a fare alcune considerazioni, doverosamente a margine dell’assoluta stigmatizzazione della becera pratica.
C’era, al tempo, negli anni settanta, ancora diffusissima l’abitudine tra i
ragazzini di torturare per divertimento gli
animali: uccisioni di insetti, lucertole martoriate, addirittura gatti randagi
o semplicemente malcapitati, a cui veniva mozzata la coda. Erano pratiche a cui
le bande di giovani e giovanissimi spesso si concedevano senza provare alcun
tipo di rimorso: questo humus umano,
a cui forse la rivoluzione sessantottina e la successiva controrivoluzione
reazionaria, avevano tolto un po’ il morso
(parlare di briglia sarebbe troppo gentile), oltretutto immersi nella dilagante
violenza sociale distribuita a tutti livelli, costituì il terreno fertile per
la diffusione dei cannibal movie. E i
motivi che rendevano questi film appetibili
agli occhi di questi novelli barbari erano appunto le violenze, e il fatto che
fossero ostentatamente realistiche, era davvero un valore aggiunto.
Questo
discorso non vuole in nessun modo alleviare le responsabilità di quegli autori,
semmai serve per inquadrarle al meglio: Lenzi, Deodato e company in sostanza alimentarono la barbarie diffusa per un
proprio mero tornaconto in termini di consensi al botteghino. In Il paese del sesso selvaggio Lenzi
queste cose forse poteva solo immaginarle, essendo in sostanza il capostipite
del genere, sebbene avesse ben presente gli esempi dei mondo-movie che sfruttavano proprio l’effetto verità (accertata o
solo presunta) delle scene più violente. Anche se come trama ricorda Un uomo chiamato cavallo (di Elliot
Silverstein, 1970), il film si inserisce tutto sommato in modo lineare nella
tipica produzione italiana del cinema di
cassetta: le scene che vedono il protagonista, Bradley (Ivan Rassimov)
aggirarsi per Bangkok, in Thailandia, fotografando a destra e a manca, sono
girate con sicuro mestiere da Lenzi. La capitale thailandese è diversa da
quelle europee tipiche del nostro cinema, per riprendere un concetto espresso
proprio da Bradley nel film, ed effettivamente offre scenari forse più
pittoreschi o esotici, ma neanche troppo differenti come location
cinematografiche. Semmai gli scorci panoramici porgono al regista toscano
l’opportunità per distrarre lo spettatore, potendo così organizzare al meglio
il fatto cruciale che modifica la storia del nostro protagonista.
Bradley è
accompagnato da una ragazza occidentale, bionda, che viene notata da un ceffo
poco raccomandabile della fauna
locale; questa questione sentimentale è però trascurata da Lenzi tanto che la
giovane sparisce presto dalla scena. In compenso, poco dopo quello stesso uomo
ritorna minaccioso brandendo un coltello all’indirizzo di Bradley; dalla
colluttazione il thailandese finisce infilzato nella sua stessa lama, mentre il
nostro protagonista ne esce col rischio di essere accusato di omicidio. L’escursione
per alcune fotografie subacquee lungo il fiume è una buona scusa per levarsi di
torno dalla metropoli asiatica. A questo punto il nostro verrà catturato da una
tribù di indigeni, prima schiavizzato e poi via via sempre più inserito come
membro a tutti gli effetti, anche grazie al rapporto che si istaura con Maraya
(Me Me Lay).
Come si vede niente di straordinario a livello di intreccio narrativo,
ma comunque un canovaccio
sufficientemente in grado di reggere il film. Bene, o comunque nella norma, la
fase introduttiva, come si è detto; il corpo del lungometraggio è invece un po’
troppo discontinuo. Passaggi efferati, crudeltà gratuite, momenti da
fotoromanzo rosa (tra Bradley e Maraya) si alternano ma la storia non è che
abbia questo gran ritmo o che appassioni più di tanto, nonostante il commovente
finale triste. La malattia e la morte di Maraya lasciano infatti Bradley con
l’eredità di un figlio e la volontà di non ritornare alla civiltà. Visto la
matrice sotto sotto positiva di questa chiusura, possiamo forse interpretarla
come una soluzione per il dilagante re-imbarbarimento dell’uomo moderno,
esemplificato nel film dall’atteggiamento genericamente tenuto dal protagonista
in principio. Incurante della sorte della compagna di viaggio, alcolizzato,
amante della violenza gratuita (la sua eccitazione all’incontro di muay thai, la boxe thailandese): alla
fine ritrova una nuova ragion d’essere ed un futuro (il bimbo) tornando alla
natura più selvaggia, nonostante questa
sia dominata da regole brutali. Di mestiere
ma certamente positiva la colonna sonora opera di Daniele Patucchi: forse
finanche eccessiva nel ripetere il tema portante, ma perlomeno svolge la
funzione di collante musicale per
armonizzare un po’ il tutto.
A titolo di curiosità, sono interessanti da
cogliere i rimandi al cinema di genere
nostrano: il protagonista è un fotografo, e veicola l’idea di attendibilità, con
un meccanismo narrativo simile ai mondo-movie; la presenza di Rassimov
richiama, in qualità di esponente, il thriller
all’italiana, oltre ad interpretare lui stesso un personaggio tipico di
quei film, immancabile bottiglia di J&B Scotch Whisky al seguito per questa
esotica trasferta.
Insomma, per questo Il
paese del sesso selvaggio, in onestà il bilancio generale risulta un poco deficitario. E poi, l’idealizzazione eccessivamente ingenua della vita selvaggia dove
Bradley sceglie di continuare a vivere, sembra un po’ cercare di rimediare al
cinismo con cui si sfrutta il voyeurismo dello spettatore per le ostentate
crudeltà, frutto della finzione o realistiche che siano. Ma non è con un lieto
fine dal sapore posticcio che si può cancellare la realissima violenza gratuita
a danno degli animali.
Me Me Lay
Nessun commento:
Posta un commento