375_LA MONTAGNA DEL DIO CANNIBALE . Italia, 1978. Regia di Sergio Martino.
Sulla scia del nuovo genere
consacrato da Ultimo mondo cannibale
di Ruggero Deodato ma, almeno stando alle parole dello stesso regista,
ispirandosi prevalentemente a Le nevi del
Chilimangiaro (film del 1952 di Henry King), Sergio Martino fa il suo
esordio nei cannibal-movie con La montagna del dio cannibale. Deodato, aveva
già provato a perfezionare la nostrana corrente cinematografica dedicata ai
cannibali intervenendo sulle coordinate dettate da un altro dei maestri del
cinema d’intrattenimento del belpaese,
quell’Umberto Lenzi che, con Il paese del
sesso selvaggio, aveva dato il via al tutto. Il valente Martino offre il
suo importante contributo: innanzitutto perché dal punto di vista del ritmo La montagna del dio cannibale, al netto
delle abituali criticità del genere, è un buon film, avvincente ed
appassionante. I punti dolenti, che sono i soliti dei cannibal-movie degli anni settanta, sono arcinoti: crudeltà gratuita
a danno di animali veri e combattimenti tra gli stessi animali provocati
appositamente per avere qualche minuto di violenza naturale da inserire a scopo
fintamente documentaristico. Le scene efferate che riguardano gli umani sono
invece (e meno male) pura finzione e, quindi, possono essere giudicate anche di
cattivo gusto, ma appartengono comunque ad un altro piano del discorso: in
qualità di rappresentazione artificiosa della realtà sono a tutti gli effetti
cinema d’evasione. Va detto che Martino affronta in modo curioso queste
peculiarità del genere: per un’ora gira un film di pura avventura, con qualche
eccesso ma niente di trascendentale. Poi, nel finale, che tra l’altro
narrativamente è ben costruito e si attende con impazienza, oltre a risolvere
la trama scatena anche la violenza più sfrenata, sparge un po’ di crudeltà
efferata e si lascia andare anche a scene di sesso che, francamente, lasciano
in qualche caso un po’ perplessi (in particolar modo quella tra l’uomo e il
suino).
E’ evidente la volontà del regista di lasciare un’impronta originale:
se nel finale Martino ci prova con questi tocchi
non proprio d’alta scuola, più interessante il lavoro che il regista nato a
Roma fornisce nella corposa prima parte del lungometraggio. In primo luogo va
detto che il tenore della pellicola è prevalentemente avventuroso, la matrice horror dei cannibal è in pratica legata solo alle scene coi cannibali, mentre
il rapporto con la giungla prevede sì degli spaventi, come le scene del ragno o
del serpente, ma latita un po’ l’atmosfera terrorizzante e opprimente della
foresta. La giungla presenta difficoltà, (il sentiero impervio, le cascate del
fiume, le pareti di roccia da scalare) nasconde pericoli (gli animali, gli
indigeni), ma non fa eccessivamente paura in sé stessa, almeno non come in
altri film del genere.
Forse, proprio per evidenziare la natura avventurosa del
suo lavoro, Martino chiama una Bond-girl
come Ursula Andress: una scelta che marchia a fuoco il lungometraggio, visto la
presenza scenica dell’attrice elvetica. La cosa merita una nota perché la presenza
femminile di grande fascino non è affatto un elemento scontato nel cinema di genere italiano: ad esempio, nei thriller all’italiana è costante e
sempre di alto livello, nei poliziotteschi
è invece quasi del tutto assente.
Per i cannibal-movie
la questione non è ancora così chiara: sia Lenzi che Deodato, optando per una
scelta esotica, fino ad allora si erano appoggiati
alle delicate grazie di Me Me Lay, attrice birmana, brava oltre che bella, ma la Andress è ovviamente di
un’altra caratura a livello cinematografico. L’aspetto completamente
innovativo, all’interno della specifica corrente, di La montagna del dio cannibale è legato all’uso della colonna
sonora: forse in ossequio ai grandi classici dell’avventura di Hollywood, che
hanno in genere un tema musicale importante, per il suo film Martino si rivolge
ai fratelli De Angelis. Il passaggio musicale principale di La montagna del dio cannibale è
eccellente, anche se viene utilizzato in verità con eccessiva parsimonia.
Lo si
sente a corredo dei momenti evocativi del viaggio, per sottolinearne quella
che, in un certo senso, può essere intesa come l’epicità dei cannibal-movie: il viaggio di ritorno
dell’uomo moderno alle proprie origini. E in La montagna del dio cannibale c’è una sorta di cortocircuito
temporale, con la barbarie dell’uomo civilizzato che viene a contatto con
quella delle popolazioni primitive, per scoprirsi poi non così differente.
E va
detto che non si tratta di un etichetta di comodo appiccicata in qualche modo
per poter giustificare le efferatezze mostrate: quello ecologico è un cardine
importante della trama, la presenza dell’uranio porta in dote la questione
nucleare e comunque viene esplicitamente fatto notare che uno sfruttamento del
giacimento significherebbe la fine delle tribù indigene dell’isola. Oltre
all’accusa formulata da padre Moises (Franco Fantasia) all’indirizzo degli
esploratori occidentali di aver portato il peccato (l’adulterio, la bramosia)
nella piccola comunità indigena. Ma questa consapevolezza da parte degli autori
dei cannibal-movie, è anche un’arma a
doppio taglio: come si concilia, questa visione ecologica e rispettosa delle
culture primitive e della natura, con la preparazione della scena della
scimmietta che viene messa vicino ad un pitone e che finisce filmata mentre viene mangiata
viva da quest’ultimo? Non è una domanda retorica, ma quella che possiamo
leggere nello sguardo disperato del povero primate.
Ursula Andress
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