379_CHERNOBYL. Stati Uniti, Regno Unito, 2019. Regia di Johan Renck
“Qual è il prezzo
delle bugie?” Con questo interrogativo si apre la serie Chernobyl della HBO (in Italia trasmessa
su Sky Atlantic). A chiederselo è Valerij Legasov (Jared Harris), uno che di
bugie ne ha dette e scritte di grosse. Bugie che hanno creato danni immani,
proprio come il disastro di Černobyl'. Ma questo avvenne prevalentemente prima
della storia raccontata nella miniserie; perché nella serie televisiva Chernobyl Valerij Legasov è l’uomo che dice
la verità. Certo, tutta tutta la dice solo alla fine; ma già alla prima
riunione a Mosca, presenti tutti i pezzi grossi da Gorbaciov (David Dencik) in
giù, è lui che si oppone a liquidare il problema
occorso alla centrale nucleare di Černobyl', come una cosa da niente. Mentre
nell’impianto il nocciolo scoperto rilasciava nell’aria pesantissime quantità
di radioattività, l’apparato dirigente dell’Unione Sovietica stava
colpevolmente sottovalutando la cosa. E di brutto. Ma, per fortuna, in quella
riunione fu invitato, in qualità di esperto in materia, Valerij Legasov. E’ lui
l’uomo che, metaforicamente, i morti, i malati, e i loro parenti, amici e
conoscenti devono ringraziare. E che dobbiamo ringraziare anche noi, noi che
quando la centrale in Ucraina esplose c’eravamo; lontani certo, ma nemmeno poi
così tanto. La nube radioattiva arrivò infatti in piena Europa, anche in
Italia. Ma devono ringraziarlo anche quelli che non c’erano, perché se il mondo
ogni tanto prova ad essere un posto meno orribile, lo deve a gente come
Legasov. Questo lo si capisce bene nell’ultimo, strepitoso, episodio, il
quinto, quello in cui gli autori, Craig Mazin e Johan Renck, tirano le fila del loro discorso e chiudono
col botto. La serie nel complesso è bellissima, un capolavoro: e il momento
culminante, l’episodio finale, è clamorosamente il passaggio migliore.
Non si
può forse dire che l’idea di un racconto filmato sul disastro di Černobyl' sia
geniale, ma soltanto perché si tratta di un evento di tale carica drammatica
che è quasi naturale pensare di metterlo sullo schermo; ma per averne uno
all’altezza son dovuti passare più di trent’anni. Piuttosto, il fatto di
ricavarci una miniserie, di cinque episodi di circa un’ora ciascuno, è una
scelta azzeccata e, al di là delle mode del momento, anche confacente al
risultato finale. Lo sviluppo dei fatti necessita infatti del giusto tempo per
avere una resa attendibile una volta partito il flusso di un racconto che
presenta una serie di svolte e risvolti sorprendenti. Anche perché il disastro
di Černobyl' fu un evento epocale, con ripercussioni anche per l’attuale nostra
società ma, soprattutto, perché il film va a sanare, per quanto possa essere
attendibile o per quanto non lo sia, il vuoto di quei già citati trenta
lunghissimi anni. Per molti spettatori è un evento storico; ma per quelle
generazioni che ancora vivono e che, in quei momenti, non ebbero nemmeno il
tempo di comprendere più che vagamente che diavolo stava (loro) succedendo, è
in fondo un atto dovuto. Volendo, anche una sorta di ricompensa morale per i
rischi corsi e subiti. Per questo sono da rispedire al mittente le proteste
russe per la pessima figura che viene riservata all’Unione Sovietica dagli
autori della serie: è un aspetto di cui avrebbero dovuto preoccuparsi in sede
di progettazione delle centrali nucleari o, quantomeno, a disastro appena
avvenuto, informando tempestivamente il mondo di quanto era successo. Ma
inutile disquisire di quello che, nella piena sostanza, non è mai avvenuto.
Si
è detto che gli autori della miniserie Chernobyl
sono il sorprendente Craig Mazin (all’attivo qualche sceneggiatura e un paio di
regie, ma niente di trascendentale) ideatore del progetto e sceneggiatore, e il
più collaudato Johan Renck (regista di videoclip e serie TV, tra cui Breacking Bad) dietro la macchina da
presa. Il primo episodio parte a cannone, è un horror traumatizzante, di
grandissimo impatto scenico e con una forza evocativa notevole. L’abilità degli
autori è di non calcare la mano con scene da blockbuster hollywoodiano, ma fare
leva, con immagini e suoni che possano ambientare il più realisticamente
possibile la storia, sulla piena consapevolezza dello spettatore che stia
assistendo a qualcosa di realmente accaduto. E che fa quindi davvero paura. Le
immagini del disastro sono comunque scioccanti, probabilmente grazie all’esperienza
con i video musicali di Renck, visto che si tratta di impressionare lo
spettatore con una serie di scene più che intavolare un racconto. La scelta di una messa in scena ipnotica, allucinata, ma costantemente segnata dall’astrazione è perfetta per raccontare questa vicenda: la macchina da presa si muove con circospezione, accompagnata da inquietanti rumori di matrice industriale, su immagini dai continui sfondi di natura astratta, siano essi palazzi, tessuti, pavimentazioni.
Tutto serve a dirci che si tratta di una storia dell’assurdo. Un cortocircuito
concettuale a cui la radioattività, dalla natura così ambigua, si presta come
perfetto elemento di sostegno. Il paradosso più clamoroso è che in un ambito in
cui si è arrivati a comprendere la natura delle cose nel più minimo dettaglio,
quello atomico, poi accada una cosa a cui nessuno sembra preparato. Si scoprirà
che non è proprio così, ma la cosa assume contorni ancora più assurdi, perché
significa che scienziati in grado di spaccare l’atomo avevano preso dei rischi
calcolandoli malamente; questo concetto rimane anche al netto delle pressioni
politiche che subirono. Forse anche loro, ma sarebbe difficile da credere, si
fecero ingannare dall’aspetto mansueto
della radioattività che, in caso di contaminazione non brutalmente eccessiva,
ti uccide si ma lentamente, in modo quasi discreto, magari con un comunissimo tumore. Ma le cose a Černobyl'
andarono assai diversamente, e le ustioni subite dai primi intervenuti sul
luogo del disastro, avranno conseguenze sui corpi di quei poveri disgraziati
che, rimanendo al testo filmico in questione, fanno impallidire qualunque
mostro del cinema dell’orrore.
Nel secondo episodio veniamo a conoscenza,
grazie all’intuizione dell’ingegnere nucleare Ulana Khomyuk (Emily Watson) che,
in seguito al disastro, se il nucleo sciolto avesse raggiunto alcune cisterne
della centrale ci sarebbe stato un autentico finimondo. Un esplosione con un
impatto tale da spazzare via la vita su Ucraina e Bielorussia, e comprometterla
su svariati altri paesi limitrofi. Il pericolo verrà (ovviamente) scampato, le
cisterne verranno svuotate per tempo, sacrificando, almeno a livello di
preventivo, la vita di tre uomini. In questa fase del racconto approfondiamo le
personalità dei due maggiori protagonisti del film: il citato Valerij Legasov,
un chimico che viene incaricato di trovare le soluzioni al disastro, e Boris
Shcherbina (Stellan Skarsgård), influente membro del consiglio e chiamato a
seguire da vicino da un punto di vista politico le vicende. Legasov in fondo è
l’asse portante del film: è con lui che la miniserie si apre, precisamente con
il suo suicidio, per procedere poi in un lunghissimo flashback sui tragici
avvenimenti. Il suicidio dimostra la crisi di coscienza dello scienziato, e
certifica nel contempo che una coscienza morale l’uomo ce l’avesse: come del
resto dimostra, a più riprese, nello scorrere degli avvenimenti fino al
riscatto finale.
Può sembrare una considerazione superflua ma, vedendo il
comportamento di tanti, troppi, soggetti coinvolti nella questione, non deve
passare l’idea che essere un uomo coscienzioso sia un fatto scontato. Tuttavia
su di lui pesa, e pesa come un macigno, la rivelazione che fosse a conoscenza
delle falle costruttive della centrale nucleare; questo è assai più grave di
alcune difficilissime scelte, come utilizzare bio-robot, ovvero uomini, (nello specifico i cosiddetti liquidatori), per fare sgomberare i
detriti altamente radioattivi dai tetti degli edifici ancora in piedi vicino al
cratere dell’esplosione. In uno scenario in cui nemmeno i veri robot (quelli
artificiali) erano in grado di lavorare, per la radioattività che distruggeva qualunque
circuito elettronico, per la rimozione dei detriti contaminati vennero così
incaricati 3828 soldati, con turni di 90 secondi.
Per queste come altre
decisioni simili, per altro solo suggerite da Legasov che non aveva potere
decisionale, vale la giustificazione che non c’erano alternative. Per la
realizzazione di una sere di centrali con evidenti limiti, il loro collaudo, la
loro messa in funzione pensando, ma
verrebbe da dire sperando, per il
meglio, non ci sono invece attenuanti. Se Legasov è sin dalla prima scena,
quella del suicidio, una sorta di architrave morale della storia, Shcherbina ha
il ruolo di riferimento politico anzi,
per la precisione politico sovietico:
un ruolo che prevede, e che in principio certamente ha, un concentrato di
cinismo, arroganza, spavalderia e opportunismo.
Ma è anch’esso un personaggio eccellente:
straordinario Stellan Skarsgård che riesce a far trasparire nel volto del suo
personaggio la trasformazione, da risoluto e sprezzante uomo di partito, ad
individuo che, vedendo il suo mondo crollargli addosso, riesce, pur nel totale
sconforto, a trovare comunque un’encomiabile forza d’animo con cui fronteggiare
la situazione. Cruciale, nel processo finale, il suo intervento
che impone al giudice e al tribunale, di lasciar continuare Legasov, anche
quando questi stava rivelando le falle nel progetto della centrale, da sempre
tenute nascoste.
La trama, oltre allo sviluppo principale, prevede l’intreccio di varie storie minori, con il vigile del fuoco Vasily Ignatenko (Adam Nagaitis) che interviene a spegnere l’incendio, finendo ustionato in modo letale dalla radioattività, o Pavel (Barry Keoghan) un giovane arruolato per abbattere gli animali domestici contaminati. Questi episodi secondari, in particolar modo le
scene come quella dove Pavel non se la sente di uccidere una cagna coi suoi
cuccioli, servono per dare l’idea dell’immensità di quanto si stava consumando
in parallelo, nella storia principale. Sono un termine di paragone: un uomo civile
ha problemi morali ad abbattere un animale; suoi simili hanno deliberatamente messo
in piedi una situazione che potrebbe sterminare la vita nel raggio di migliaia
di chilometri.
Intanto, dopo il pericolo dell’esplosione delle cisterne, scampato grazie all’intervento dei citati tre volontari, si scopre che il problema successivo è piazzare uno scambiatore di calore sotto il nocciolo nucleare fuso. Vengono incaricati i minatori che, per quanto folcloristici a
vedersi sullo schermo, si prodigano da eroi, senza alcuna garanzia, portando a
termine l’impresa e scongiurando il pericolo per quel che gli concerneva. Da
parte sua, pur tra mille difficoltà delle indagini, in particolar modo messe in
campo dal KGB che non ha assolutamente intenzione di far trapelare che ci siano
stati errori da parte sovietica, Ulana Khomyuk arriva al dunque: la centrale
era difettosa già nel progetto. La rivelazione non coglie però di sorpresa
Legasov, e questo è un duro colpo anche per lo spettatore, perché il chimico
sembrava (ed è) una delle persone migliori della faccenda. Siamo arrivati al
processo e vengono messi sotto accusa i vertici dell’impianto di Černobyl': Anatolij
Djatlov (Paul Ritter), assistente capo; Victor Bryukhanov (Con O’Neil),
direttore; Nikolai Fomin (Adrian Rawlins), capo ingegnere. A questo punto, nel
racconto filmico che tecnicamente è già un enorme flashback, c’è un ulteriore ritorno sui propri passi. Ma la cosa
non appesantisce per niente, anzi, è una scelta assai funzionale. Perché ora
abbiamo tanti elementi a disposizione: supposizioni, testimonianze, resoconti;
mancava ancora però chi ci guidasse nell’escalation degli avvenimenti.
I
momenti drammatici della notte tra il 25 e il 26 aprile vengono intercalati magistralmente
con la deposizione di Legasov, che spiega, passo passo, l’evolversi della
tragedia, sottolineando le colpe degli imputati. Tre soggetti certamente
colpevoli di comportamenti gravemente irresponsabili, e questo a dir poco; ma
non gli unici ad esserlo. In un dibattimento praticamente già scritto e che deve
sostanzialmente mettere a verbale le responsabilità dei tre imputati, ideali
capri espiatori per chiudere la faccenda alla meno peggio, Legasov prende tutti
in contropiede e decide di fare davvero chiarezza.
La sua spiegazione di ciò
che accadde a Černobyl' il 26 aprile 1986 è sorprendente per quanto è
comprensibile anche per un profano ma, ancora più sorprendente, è la scelta dello
scienziato di ammettere che c’erano difetti di progettazione nella centrale, e che
non erano stati divulgati nemmeno agli addetti ai lavori. Il disastro era si
colpa dell’incoscienza e dell’arrivismo dei responsabili della centrale
nucleare, che inanellarono una serie di imprudenze inammissibili ma, a loro
parziale, seppur minima, attenuante, va riconosciuto che avevano l’infondata
convinzione di poter disporre di una sorta di pulsante di emergenza, l’AZ5.
Purtroppo, questo sistema di arresto aveva delle pecche che, in determinate
circostanze, potevano incidere in senso fatale. E questa, se per i tre imputati
è una pur minima scusante, è invece una condanna totale sul sistema sovietico e
su tutti coloro che, per proteggere i propri privilegi, tacquero su quell’argomento,
come su altri simili. Perché il disastro di Černobyl' divenne quindi l’evento
rivelatore che smascherava un intero mondo, quello sovietico, che si basava
sulla menzogna; non che nel sistema di libero mercato sia poi così differente,
ma in Unione Sovietica la presunta ragion
di stato era una forza capace di schiacciare qualsiasi velleità di verità
come raramente si è visto nella storia dell’umanità.
Il tema delle conseguenze
delle bugie, come visto, introduce la serie già nelle prime parole pronunciate
da Legasov all’inizio del primo episodio, e i riscontri di un mondo dove non
esiste mai la possibilità di scorgere la verità sono disseminati per tutto il
racconto filmico. Si tratta di una storia in cui tutti continuano a mentire,
per le più svariate ragioni: Legasov, al bar dell’hotel nei pressi della
centrale, interpellato da una coppia sulla possibilità che ci sia da preoccuparsi,
li tranquillizza pur sapendo dei rischi; Lyudmilla (Jessie Buckley) mente
all’infermiera quando nega di essere incinta, e poi mente al marito, allettato
in condizioni disperate, su quello che vede dalla finestra dell’ospedale; i
russi mentono sui reali valori di radioattività quando chiedono il Joker, il
mezzo radiocomandato ai tedeschi e Shcherbina fa una scena fasulla a Legasov
quando lo tratta male difendendo l’apparato di governo, perché teme la presenza
di cimici; come gli rivela solo più tardi,
in strada, mentre è sicuro di non essere ascoltato. Di contro, lo stesso
Shcherbina consiglia Legasov di non mentire ai minatori: essi lavorano e vedono
al buio, e possono intuire le menzogne. E’ un po’ come dire che l’attitudine di
andare in profondità dei minatori possa rompere quel cerchio di menzogne tese a
salvare l’apparenza.
Un cerchio di garanzia, incarnato secondo le stesse parole di Aleksandr Charkov (Alan Williams), vicepresidente del KGB, dallo stesso servizio segreto e che ha il compito di spiare e ascoltare tutto e tutti in ossequio al vecchio motto russo “fidati, ma verifica”. E proprio la mancanza di fiducia reciproca è
forse il primo gradino di una scala che in Unione Sovietica verrà salita fino a
livelli altrove mai raggiunti. E dalla mancanza di fiducia non poterono che
derivare menzogne, dalle quali ancora meno fiducia, in una spirale viziosa
simile ad una reazione a catena nucleare.
Djatlov lo dice apertamente alla Khomyuk “Non c’è nessuna verità. Chieda ai capi: avrà solo menzogne.” Ma, in seguito, la gravità di quello che avvenne fu chiara anche ai vertici: l’importanza del disastro alla centrale nucleare ucraina fu infatti ribadito dallo stesso Mikhail Gorbaciov, Segretario Generale del Partito Comunista Sovietico, se davvero ammise che fu addirittura una delle cause della fine dell’Unione Sovietica stessa. Era solo l’eco del conto delle bugie da pagare e
che era già stato saldato al prezzo più alto, vite umane e salute di moltissime
persone. E’ infatti questo il tema portante di Chernobyl, il rapporto con la verità;
perché, in fondo, nonostante la fedeltà della ricostruzione filmata, è
impossibile sapere perfettamente cosa accadde; la narrazione dei fatti nella
serie è esaltante, nella sua ferrea logica ma, va ricordato, che le autorità
fecero di tutto per insabbiare la cosa. L’ultimo episodio si chiude con una
domanda posta da Legasov, “Qual è il
prezzo delle bugie?”, la stessa con cui si era aperta la serie. Una
circolarità narrativa che ritroviamo anche nella sorte di Legasov, che si
suicida esattamente due anni dopo il disastro, lo stesso giorno, il 26 aprile e
alla stessa ora, come se volesse pagare simbolicamente per le sue colpe. E che
ci fa sorgere il dubbio che, nonostante le rassicurazioni di quegli scienziati
che operano nelle centrali atomiche sparse in tutto il pianeta, forse abbiamo
girato in tondo, ritrovandoci ancora a quel punto di partenza di una notte di
primavera mai tanto velenosa.
Fukushima è li a dimostrarlo.
Realtà vs finzione
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