376_CANNIBAL HOLOCAUST . Italia, 1980. Regia di Ruggero Deodato.
Non solo è complicato parlare di Cannibal Holocaust, ma è complicato già stabilire se sia il caso di
parlarne o meno; che poi è lo stesso dilemma per decidere se accettare di
vedere il film o lasciar perdere e chiudere così l’argomento. Quest’ultima
scelta è certamente da non escludere, specie se si è un po’ deboli di stomaco.
Ma non è certo il terrificante impatto che hanno le immagini del film di
Ruggero Deodato il nocciolo del problema, o almeno non solo. Sia chiaro, il
film esteticamente è traumatizzante a dir poco, e i primi scrupoli nascono dal
fatto che le atrocità commesse a danno degli animali veri, siano filmate con
una minuziosità che lascia sgomenti e siano del tutto gratuite. C’è un
aneddoto, avvenuto durante le riprese, che aiuta a rendere l’idea in tal senso:
c’è una scena in cui viene decapitata (realmente) una povera scimmietta. Sul
set erano presenti altre quattro scimmie per eventuali ulteriori ciak ma,
assistendo alla scena, morirono tutte di crepacuore. Tuttavia, ciò che disturba
è anche e soprattutto il tenore etico dell’opera nel suo insieme. Deodato disse che il suo era un film di
denuncia: il che è evidente e va riconosciuto che non si tratta di un’etichetta
posticcia appiccicata per avere la scusa di mostrare un po’ di scene
orripilanti. Spesso questa pratica si è vista, al cinema, ma è intuibile la
natura falsa di queste operazioni dal
fatto che, in genere, i passaggi che provano a giustificare le scene truculente
sono corpi un po’ estranei al resto dell’opera. In Cannibal Holocaust no, questo non accade; il film è armonicamente
concepito, nella sua struttura, a partire sin dal titolo, come una denuncia che
non offra alcun alibi. L’impressione è che, il regista e i suoi collaboratori,
avendone compreso la potenza visiva, volessero usare il cannibal-movie per scioccare gli spettatori con un film che fosse
estremo anche all’interno di un genere già estremo, mettendo la società
occidentale, in generale, e la stampa e l’informazione nello specifico, di
fronte alle proprie responsabilità. Il problema, se di problema si tratta, è
che Deodato, nell’enfasi trascinante della violenza, mostrata senza risparmio e
molto coinvolgente, si lascia prendere la mano, superando ogni limite
conosciuto. In genere il superamento dei limiti, nel cinema estremo, provoca un
effetto contrario: le scene di umorismo involontario di tanti horror maldestri
sono un esempio di questo meccanismo.
Ruggero Deodato è tutto tranne che un
regista maldestro: ha imparato il mestiere, e anche un certo amore per il
realismo, nientemeno che da Roberto Rossellini. Quando decide, spronato dalla
produzione, di spingere a tutto gas sul pedale dell’iperviolenza, non cade nel
ridicolo, ma parte direttamente per la tangente. Verrebbe da dire ‘completamente
fuori controllo’, ma invece il controllo, da parte di Deodato, sembra al
contrario totale: l’aspetto metalinguistico dell’opera, in sostanza in buona
parte nella finzione del film si assiste alla fittizia realizzazione di un
documentario, mostra in modo chiarissimo e senza alcun equivoco, il sadico
compiacimento dei quattro reporter nel girare scene truculente. Ma è uno
sguardo riflesso, proprio in qualità di opera metalinguistica, e quindi è
rivolto, al contempo, da Deodato anche a se stesso. Un indizio ulteriore e che non
lascia possibilità di dubbi in tal senso, è l’uso della musica. Sulle musiche
di Riz Ortolani per Cannibal Holocaust
bisognerebbe parlare a parte, perché sono davvero troppo belle per rischiare di
venire accantonate da chi decide, non del tutto in modo immotivato, di evitare
ogni contatto con un film tanto disturbante. Se già il film cannibalico La montagna del dio cannibale (1978, di
Sergio Martino) aveva un commento sonoro di tutto rispetto, con il suo
lungometraggio Deodato ribadisce l’intuizione di Martino e rilancia con una
colonna sonora altrettanto evocativa e utilizzata in modo superlativo. Il tema
principale è senza dubbio da annoverare tra i capolavori della musica, e non
solo in ambito cinematografico. Il punto è che, ancora una volta, la funzione
di un elemento particolare è esponenzialmente accresciuta all’interno del
contesto filmico: l’uso della colonna sonora in Cannibal Holocaust è infatti magistrale. Suadente all’inizio,
introduce nel film, con una grazia che lascia un po’ inquieto, il relativamente
ignaro spettatore. Possibile che Deodato, dopo averlo rinnegato in Ultimo mondo cannibale (1977), abbia
deciso di riprendere quell’aspetto un po’ da fotoromanzo esotico che
occhieggiava qua e là nel primo cannibal, Il
paese del sesso selvaggio (1972, di Umberto Lenzi)? Nient’affatto.
Finanche
ci sia una scena, quella del bagno nel fiume del professor Harold Monroe (Robert
Kerman) con le indigene, in cui l’effetto è riproposto in quei termini, nel
resto della pellicola la musica di Ortolani è usata con ben altro spessore.
Sottolinea, con suoni inquietanti i momenti di crudeltà gratuita, sia quella
reale a danno degli animali che quella nella finzione a danno degli umani. Ma è
nel contrasto della melodia dolce e infinitamente triste che accompagna le
scene più tragiche e che funge da unica condanna morale a quello che si vede
sullo schermo, che quella sonora diventa la colonna portante del film. E’ la
musica, a salvare, di fatto Cannibal
Holocaust: in fondo, le immagini sono le stesse che vengono realizzate dai
quattro sciagurati e criminali reporter, a cui vengono così accomunanti Deodato
e la sua troupe, un’associazione messa pericolosamente ma consapevolmente in
piedi dallo stesso regista nato a Potenza. Ma l’aggiunta della musica, da un
lato enfatizza per contrasto la drammaticità delle immagini, dall’altro,
condensando in modo sublime nelle sue note la commozione e lo sgomento dello
spettatore, muove una drastica condanna morale, che riscatta (o prova a farlo)
l’opera. Un uso dell’accompagnamento musicale d’alta scuola; come tecnicamente
è Cannibal Holocaust nel suo insieme.
Già il titolo, si diceva, è emblematico: c’è un accostamento tra due concetti
tragici, il cannibalismo e l’olocausto, abitualmente veicolanti concetti
aberranti l’idea comune di umanità. Ma qui sono messi in contrasto: non giusto vs sbagliato ma sbagliato vs sbagliato. Una questione
sin da subito su cui è difficile prendere posizione. L’incipit, dopo che la
melodia di Ortolani ci ha accompagnati in volo sopra la giungla, ci fa
ritrovare a sorpresa a New York, la giungla
d’asfalto per eccellenza.
E il parallelo è rimarcato ironicamente dal
commento introduttivo, che racconta di come la barbarie sia ancora diffusa nel
mondo, mentre le immagini mostrano il caos cittadino della Grande Mela. Deodato non sceglie New York a caso, così come non a
caso chiude il suo film con una panoramica sulle Torri Gemelle del Word Trade
Center: il denaro è il motore della nostra civiltà e, per sottolineare il
nostro grado di barbarie, il regista sceglie proprio i luoghi che sono il cuore
pulsante del sistema capitalista. Sotto accusa è quindi il denaro; quello
stesso denaro, è ormai impossibile non continuare i paralleli comparativi, che
viene offerto a Deodato dai produttori tedeschi purché realizzi un cannibal-movie che vada oltre i limiti
dei precedenti. Come si vede, l’opera presenta continuamente situazioni
controverse che, oggettivamente, non fanno che confermare l’opinione di chi
liquidò la pellicola come mero pretesto di fare soldi con spudorato sensazionalismo.
Ma se questo è innegabile, che dire allora, per fare un esempio, nel coevo Apocalypse Now, capolavoro riconosciuto
di Francis Ford Coppola, della scena dell’uccisione del bufalo, che risulta
essere vera? Bastano le giustificazioni che il bue avrebbe fatto comunque
quella fine? Perché sono le stesse che additarono Deodato e i suoi, che pare si
cibassero davvero degli animali dopo averli uccisi sul set. Chiunque abbia però
visto la scena della tartaruga decapitata e sgusciata mentre si muove ancora,
passaggio tra i più noti (e censurati) di Cannibal
Holocaust, avrà facilmente (e comprensibilmente) ragione di obiettare
comunque. C’è un limite a tutto, si usa dire, ma non per Deodato e per il suo Cannibal Holocaust.
Comunque, della
natura provocatoria e oltre il limite del film si è già detto, anche se rimane
uno scoglio morale di difficile gestione per lo spettatore. Ma, per onestà nei
confronti dell’autore, va detto che il giudizio è stimolato intrinsecamente dal
film: l’idea stessa di come è concepito Cannibal
Holocaust sprona lo spettatore a fare un paragone, a confrontare, a farsi
un’idea. In effetti il lungometraggio è costituito da due film diversi,
addirittura differenti per tipo di pellicola impiegata e con due sottotitoli: The last road to hell, girato in 35 mm racconta della
spedizione del citato professor Monroe, e The
Green Inferno, in formato 16
mm , con la pellicola graffiata come fosse rovinata,
vuole essere il reale reportage dei quattro inviati scomparsi. Già l’idea in sé
è geniale, è innegabile. La prima metà del film, The last road to hell, è sostanzialmente un cannibal-movie come i precedenti: c’è la scena antropofaga, c’è lo
stupro, ci sono le scene degli animali che lottano e, per non guastare, anche
un po’ di reale violenza gratuita a loro danno. A parte questo, il tutto girato
con maestria da Deodato, che ne approfitta per chiarire alcuni stilemi del
genere: nessuna classica scena da film dell’orrore, si punta forte sul
raccapriccio per ciò che è mostrato sullo schermo, mentre per la tensione è la
giungla, i suoi rumori ripetuti e ossessivi, l’incombenza della vegetazione, ad
inquietare. Il regista sembra snobbare poi l’idea, perseguita da Joe D’Amato e
Sergio Martino nelle loro incursioni nel genere,
di inserire una presenza femminile di grande fascino e carisma: in Cannibal Holocaust c’è Francesca Ciardi
(interpreta Shanda, uno dei quattro reporter), che non può certo essere
paragonata a Laura Gemser e men che meno a Ursula Andress. Ma pare che ci sia
un ulteriore motivo anche alla base della scelta di un cast composto, e non
solo per la sparuto comparto femminile, di volti poco noti.
Un motivo che
indica, da parte di Deodato, l’uso strumentale del suo film, che conferma sia
la matrice metalinguistica dell’opera, ma anche la consapevolezza della gravità di quanto stesse facendo. Sembra
che l’utilizzo di attori poco conosciuti sia anche legato all’effetto della
didascalia enigmatica che chiude il film. A questi attori, in sede di
contratto, venne chiesto di sparire dalla circolazione per un certo periodo,
dalla realizzazione del film fin oltre alla sua uscita nelle sale. Nel finale
di Cannibal Holocaust uno dei
produttori della rete televisiva BDC invita l’operatore a gettare al macero il
reportage filmato dei quattro reporter, per via della indecenze mostrate.
Stando alla didascalia citata, l’operatore in questione non gettò affatto il
filmato ma se lo vendette, ricavandoci 250.000 dollari. E, quel filmato, è
appunto la base sostanziale di The Green
Inferno, lasciando intendere, in questo modo, la veridicità di quanto
mostrato nella seconda metà di Cannibal
Holocaust. Gli attori dovevano restare in disparte per confermare l’ipotesi
che fossero davvero morti nella giungla, e quindi che quanto mostrato sullo schermo
fosse reale. Impressione che già Deodato aveva veicolato con una serie di
stratagemmi, come il cambio di pellicola, la pellicola stessa rovinata
dall’essere stata a lungo in un ambiente non idoneo, l’uso delle riprese a spalla, i frequenti presunti fuori onda. Insomma, The Green Inferno si presenta come un
vero e credibile reportage dalla giungla; ma vergine, non montato, ossia
non ancora tagliato e preparato ad hoc
per il grande pubblico. Una versione integrale,
in cui Deodato racconta i terribili dietro le quinte a cui, francamente, nei
termini mostrati dal film, è difficile credere. Ha ragione, molto
probabilmente, chi sostiene che il regista si sia lasciato prendere la mano dal
sensazionalismo: ma ciò non toglie che, a livello di intuizione, sia un vera e
propria genialata.
Indiscutibilmente The Green Inferno è un vero trauma
visivo. Ma è anche il lato oscuro del
cinema cannibal: nella prima metà di Cannibal Holocaust assistiamo ad un cannibal, nella seconda ad un ipotetico making of di questo tipo di film.
Deodato ha grosso modo sempre sostenuto che Cannibal
Holocaust sia un film di denuncia del sistema capitalistico; il che è vero,
ma solo in modo indiretto. Il sistema capitalistico, come del resto mostrato
proprio nel film in questione, è quel sistema che preveda di produrre qualsiasi
cosa purché faccia soldi. Compresi i film scabrosi: i produttori della BDC
decidono di gettare il reportage, è vero, ma solo quando vedono l’enormità
delle oscenità commesse dai quattro inviati. E’ il livello raggiunto, il limite
superato, che li fa desistere dal produrre il film, e non tanto un concetto
etico e morale in sé e per sé. Il che suona anche come un indizio, buttato là con
furbizia da Deodato, che alimenta il fascino del proibito del suo film: ‘con
Cannibal Holocaust vi mostriamo
quello che altri non hanno il coraggio di mostrare’. Perché quei produttori della
BDC, esponenti tipici del capitalismo, non sono altro che individui come i
produttori e gli autori di Cannibal
Holocaust. L’unico che si oppone a tutto questo per una scelta motivata e
sentita è il professor Monroe, uno studioso, un esponente del mondo della
cultura intesa in senso scientifico. Il mondo del cinema, dello spettacolo,
dell’informazione, ha invece un ruolo che si fatica a distinguere da quello
politico economico che Deodato pretende di criticare con il suo film. Perché Cannibal Holocaust è sì un atto di
denuncia: ma dal cinema cannibal, o
forse dal cinema in generale, indirizzato alla propria anima oscura.
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