387_ARDENNE '44, UN INFERNO (Castle keep). Stati Uniti 1969. Regia di Sydney Pollack.
Prima dei titoli di testa, in Ardenne ’44, un inferno, ci sono alcuni fotogrammi, accostati senza
un’apparente logica, ma che poi acquisteranno un maggior senso una volta
compreso che alcuni di essi appartengono alla proseguo della pellicola.
Dapprima c’è un dipinto che raffigura un’antica scena di battaglia, proposto
con un montaggio frenetico in alternanza ad alcune immagini del film, che si
svolge nella Seconda Guerra Mondiale. Si tratta di scene di bombardamenti, di
grande impatto, esplosioni violente, accompagnate da un sonoro con una musica
degna di un film horror; del resto le immagini mostrate sono un vero incubo. Il
contrasto è quindi tra l’incubo della guerra moderna, la realistica violenza
estrema e distruttiva dei bombardamenti, e la rappresentazione simbolica e un
po’ astratta della guerra nell’arte, con il grottesco finale, un gargoyle, a chiudere la sequenza
introduttiva. Il regista Sidney Pollack aveva già, con Joe Bass, l’implacabile, provato a rinnovare un genere, in quel
caso il western, senza stravolgerlo completamente: il suo film aveva un tono
ironico e divertito non propriamente tipico dei classici, ma la pellicola, nel
suo insieme, si manteneva comunque nel solco della tradizione se paragonata ai
più estremi esempi di western
crepuscolari o, peggio (in senso
lato) degli spaghetti-western.
Un’operazione simile, Pollack prova ad imbastirla per il cinema bellico: il suo
è un film surreale, bizzarro, ironico quando non quasi comico, eppure mantiene,
per via di alcune caratteristiche, l’aurea di opera in qualche modo ancorata ad
una forma classica.
Sarà la presenza
di Burt Lancaster, nei panni del rocciosissimo maggiore Falconer, che funziona
alla stesso modo di quel Joe Bass del precedente film di Pollack: è un eroe
classico che si comporta ostinatamente come si comportano gli eroi classici. Il
regista gioca con la sua ottusità cavalleresca ma, di fatto, costruisce
comunque il suo film intorno al più classico degli eroi americani. Un altro topos dei film di guerra è la eterogenea
truppa, con i vari personaggi dalle personalità sempre piuttosto marcate: qui
c’è Peter Falck nei panni del sergente Rossi che si rimette a fare il fornaio
(la sua occupazione da civile) proprio nel mezzo della guerra; Al Freeman Jr. è
il soldato Benjamin, che vuole scrivere un libro, la cui funzione è anche di
voce narrante del film che, oltre a supportare lo sviluppo della trama,
rinfranca il collegamento tra arte e guerra; Patrick O’Neil è il capitano
Beckman, grande estimatore d’arte ed in apprensione per le opere e i capolavori
artistici del castello dove i soldati americani si attestano; Michael Conrad è
DeVaca, il classico sergente americano e così via per il resto della truppa. Il tema artistico, sottolineando
il valore dell’arte, si sovrappone a quello bellico, ma più che altro per
rendere ancora più devastante, da un punto di vista morale, il bombardamento
che va, nel finale del film, a distruggere il castello medioevale e tutti i
suoi tesori.
La distruzione di un simile patrimonio artistico è certamente
mostrata in chiara e evidente luce negativa, sia per il suo valore in sé, sia
per il simbolico significato dell’arte, che è l’essenza della vita, e quindi
distruggere l’arte significa distruggere la vita; e il senso della guerra è
sostanzialmente quello. Però, c’è un aspetto da approfondire: nel presentarci i
proprietari del castello, Pollack ci propone il conte di Maldorais (Jean-Pierre
Aumont) e la favolosa Therese, la contessa (una, a dir poco splendida, Astrid
Heeren). L’uomo è un raffinato aristocratico, impotente, che desidera avere un
erede; la giovanissima ragazza ne è la nipote e al contempo al moglie.
E il
conte accetta, magari non di buon grado, di vedere la contessa a letto col
maggiore Falconer pur di sperare che rimanga in cinta, in modo da vedere
sopravvivere la dinastia dei Maldorais. I custodi dell’arte, di quella alta, quella europea rappresentata dal
castello, quella legata alla Storia antica della nostra civiltà, nel film sono
dei degenerati, a cui serve l’innesto della brutale ma vitale linfa di quella
nuova società che arriva dal nuovo mondo. Il cui prodotto artistico, il libro
del soldato Benjamin, non è certo paragonabile ai tesori artistici del
castello, ma è più attinente all’attualità e, soprattutto, è in grado di sopravvivere
alla guerra.
E considerando che la guerra è come un cancro che si
sviluppa proprio in quell’Europa tesoro di grande arte e cultura, viene da
chiedersi se l’intervento americano, nel film rinforzato da quello del maggiore
Falconer nel letto della contessa, non sia da ritenere indispensabile, a fronte
di una società corrotta e decadente. A dir la verità, l’imperante vena surreale
che scorre lungo la pellicola disperde le eventuali tracce di questo tema in
una miriade di avvenimenti, almeno apparentemente, slegati tra loro, lasciando
una sensazione di spaesamento nello spettatore. Che forse era anche uno degli
stati d’animo che lasciava in eredità la violenza della guerra.
Sia come sia, il film è godibile sebbene la forte vena surreale spiazzi costantemente lo spettatore in modo forse eccessivo.
Poco male, chi non amasse le storie surreali potrà consolarsi con Astrid Hereen: lei è di una bellezza classica e moderna al tempo stesso; folgorante.
Astrid Hereen
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