377_MANGIATI VIVI! Italia, 1980. Regia di Umberto Lenzi.
Per
i cannibal-movie, il 1980 aveva segnato un passaggio epocale; era
chiaro a tutti che dopo Cannibal Holocaust di Ruggero Deodato,
confrontarsi con il genere sarebbe
stato arduo per chiunque. Il film di Deodato è un’opera di grandissimo
spessore, discutibile fin che si vuole, ma di struttura elaborata e ben
sviluppata, sul piano tecnico davvero ineccepibile. E l’aspetto etico, se
poteva benissimo essere contestato, oltretutto, almeno in apparenza, non
lasciava molto spazio a chi volesse cimentarsi ancora con un cannibal:
cosa si poteva mostrare, dopo le traumatizzanti immagini di Deodato, che
mettevano sotto accusa, direttamente o indirettamente fate voi, il cinema cannibal stesso?
Da un punto di vista visivo, già sarebbe stato difficile far di meglio (o
peggio, a seconda delle opinioni), ma si poteva anche solo provare ad essere
‘credibili’ dopo che Deodato aveva mostrato il suo tragico dietro le
quinte? Il cannibal nasceva come filone estremo in un genere, l’horror, già estremo; la
continua escalation di violenza, sangue, atrocità, era nel DNA di quel tipo di
pellicole. Ma Deodato sembrava essere davvero andato oltre ogni limite. Gli
enormi problemi con la censura stavano lì a dimostrarlo. Intendiamoci: qualche
guaio con la censura non solo era messo in preventivo dai produttori, ma era
probabilmente ricercato, voluto. Un film senza divieti non era certo appetibile
dai fruitori del genere cannibal: l’idea dei produttori era
arrivare alla discussione con gli organi di censura con un film dove fosse
possibile, con qualche taglio preventivato, ottenere un Vietato ai
minori di 14 anni.
Poi si poteva giocare sull’intuibilità delle atrocità
censurate, mantenendo comunque qualche scena forte sullo schermo tale da
garantirsi così una vasta platea (compresa quella dei dodici/tredicenni che
potevano cimentarsi con l’impresa di aggirare il divieto). Ma il punto era
che Cannibal Holocaust, potenzialmente un crack al botteghino
(secondo incasso di sempre a Tokyo, dietro al solo a E.T. di Steven
Spielberg), in Italia era franato miseramente dopo le beghe giudiziarie che lo
avevano coinvolto. Per una situazione tanto delicata, dal punto di vista
produttivo, occorreva un regista capace di gestire quello che poteva essere un
filone ancora buono, a meno che davvero non fosse stato del tutto bruciato dalle
conseguenze del film di Deodato.
Per sbrogliare questa matassa viene chiamato
Umberto Lenzi: regista di valore, grande esperienza in diversi generi del
cinema d’intrattenimento, ideatore, tra l’altro, dei cannibal-movie stessi
(Il paese del sesso selvaggio, 1972). E bisognoso, in quel frangente, di
lavorare. Tutte queste premesse sembrano non essere proprio attinenti a Mangiati
vivi!, che Lenzi andrà a girare e, in effetti, non si è ancora affrontato
ciò che è impresso sulla pellicola del film in questione. Ma, al netto della
curiosità intrinseca ai vari elementi citati, essi più che altro
costituiscono, molto probabilmente, il retroterra su cui poggia l’operazione
nel suo complesso: Mangiati vivi! è un buon cannibal,
ma si avverte una generale artificiosità, come se fosse un compito da dover
assolvere ma nel quale non c’è totale fiducia da parte dell’autore. Si disse
che Lenzi lavorò su commissione, ma il regista toscano doveva essere anche abituato,
tutto sommato, a simili dinamiche; eppure sembra svolgere il compitino e, se
c’è qualcosa di più interessante delle ripetizione dei cliché del genere unita
ad una non più che onesta verve della trama, è la indiretta e probabilmente
scherzosa polemica artistica con Deodato sugli stilemi narrativi dei cannibal.
In sede di analisi, va sempre data però la precedenza alla doverosa quanto
ripetitiva denuncia per la odiosa pratica di mostrare violenze gratuite sugli
animali veri tipica dei film sui cannibali dell’epoca: anche Mangiati
vivi! non fa purtroppo eccezione, e le scene condannabili in questo
senso si sprecano.
Come al solito siamo di fronte ad un dilemma: è opportuno
guardare e prendere in considerazione questi film, che si macchiarono di
un’abitudine tanto becera? La scelta di ignorarli è forse sempre da tenere in
considerazione ma, va riconosciuto che, oltre a connotarsi di questi elementi
negativi, il genere portò a galla alcune tendenze che normalmente rimanevano
sommerse, magari facendo pericolosamente capolino di quando in quando. E quindi
potrebbe anche essere salutare affrontare la questione.
Insomma, forse può valere la pena cercare di comprendere un po’ il fenomeno nel
suo complesso: ad esempio, quali erano le ragioni dell’enorme successo, come si
svilupparono i meccanismi narrativi in un filone completamente nuovo, o come
l’industria cinematografica gestì una situazione remunerativa ma certamente
spinosa. E poi, onestamente, crudeltà ed efferatezze gratuite a parte, il tema
antropofago è affascinante proprio per la sua natura estremamente inquietante e
arcaica. Si è detto, in Mangiati vivi! non mancano i passaggi
obbligati del genere: violenza realistica sugli animali, combattimenti tra gli
stessi con scene tipiche da documentario, sequenze di stupri e di cannibalismo
in abbondanza. La storia è imbastita con mestiere da Lenzi ma, come già
accennato, se non proprio fiacca, certamente non è troppo trainante. Sotto
questo aspetto Lenzi introduce nel genere
una novità: Mangiati vivi! è il primo cannibal che si ispira
liberamente ad un fatto storico: il suicidio di massa nella Guyana dei seguaci
di Jim Jones, a cui è ispirata la figura di Melvyn Jonas (Ivan Rassimov), uno
dei personaggi del film.
La presenza dell’attore di origine serba ci introduce
a quella sorta di ipotetica polemica dialettale tra Lenzi e Deodato a proposito
del cast: Rassimov, attore di punta dei cannibal,
è richiamato in un ruolo importane e significativo (è appunto il
sacerdote di una inquietante setta pseudo-ecologista) dopo che Deodato non
l’aveva scritturato per Cannibal Holocaust, il cannibal-movie per
eccellenza (non solo come risultato sullo schermo ma anche già concettualmente).
Sempre in merito di attori, Lenzi riconosce, in un certo senso, l’importanza
del discusso film del collega: protagonista maschile di Mangiati vivi! è
proprio quel Robert Kerman che, nel ruolo del professor Monroe, era stato sia
il personaggio principale in Cannibal Holocaust, nonché il
portavoce sullo schermo dell’accusa al sistema mossa da Deodato
con la sua messa in scena. Non manca però, il sagace regista toscano, di
metterci una piccola punta di veleno: se nel film di Deodato, Kerman
interpretava il ruolo del professore che si batteva per veder cestinati i
filmati osceni realizzati da quattro reporter senza scrupoli, nel film di Lenzi
l’attore americano interpreta Mark, un avventuriero che passa tutto quanto il
lungometraggio a ripetere che lui è mosso unicamente da motivazioni economiche.
Il che non è del tutto vero, è evidente che il cinismo di Mark sia un po’ di
facciata, e inoltre, la compagna di avventura Sheila costituisce una
distrazione dall’aspetto remunerativo difficilmente trascurabile. Nel film, la
giovane e facoltosa americana è interpretata da Janet Agren, che sfodera una
presenza scenica, anche per le frequenti scene di nudo, davvero memorabile. Ma
tutto il comparto femminile del cast è un altro fronte sul quale Lenzi si
contrappone al modello proposto da Deodato: se questi aveva
snobbato questo aspetto, Lenzi rincara la dose in modo sostanziale.
Al centro
della scena un’attrice di grandissimo fascino, che riporta alla mente i fasti
delle protagoniste dei thriller all’italiana dei primi anni
settanta; genere da cui, proprio Lenzi, in un certo senso, a
suo tempo era partito per tracciare le coordinate del capostipite dei cannibal-movie.
Accanto alla Agren, figura di spicco in senso assoluto in Mangiati vivi!, addirittura altre due attrici di rango: Paola
Senatore (è Diana, sorella di Sheila) che se la cava egregiamente, e Me Me Lay
(nei panni, si fa per dire, di Mownara). Quest’ultima era stata la protagonista
degli esordi cannibalici sia di Lenzi che di Deodato, sebbene poi quest’ultimo,
con Cannibal Holocaust, come detto, aveva
limitato la presenza femminile.
Lenzi, al contrario, su questo aspetto arriva
ad abbondare, sia per la presenza di tre importanti personaggi appartenenti all’altra metà del cielo, sia per le scene di sesso o anche solo di nudo.
Memorabile quella della Agren con il corpo colorato d’oro, un passaggio che,
ovviamente, richiama (almeno) il film Agente 007 – Missione Goldfinger (Di
Guy Hamilton, 1964), dove una delle Bond-girl
veniva appunto coperta interamente di vernice color oro. Il regista toscano
sembra quindi cercare di indirizzare il genere cannibal sui binari dell’avventura di puro intrattenimento, un po’
come avviene per i film di James Bond, alleggerendo i toni che Deodato aveva
differentemente incupito.
In un certo senso si può anche leggere l’intenzione
di Lenzi di riallacciarsi a La montagna
del dio cannibale di Sergio Martino, film precedente a Cannibal Holocaust, quasi a riprendere il discorso scantonando
l’ultimo problematico capitolo del genere cannibalico. I film di Lenzi e di
Martino hanno una trama avventurosa molto simile, (una donna alla ricerca di un
parente nella giungla), sono interpretati da attrici di primissimo piano (Janet
Agren e Ursula Andress), e hanno espliciti rimandi a James Bond (di Mangiati vivi! si è detto, mentre la Andress è stata
addirittura una Bond-girl) per
svincolarsi un po’ dalla deriva impegnata.
La folta presenza femminile nel film
di Lenzi è quindi forse un ulteriore elemento in tal senso, visto che nei film
dell’agente segreto più famoso al mondo, presi in quest’ottica come
riferimento, sono uno degli elementi ricorrenti. Questa presunta (e tutta da
dimostrare, ovviamente) polemica sui cliché del genere cinematografico, non è però del tutto campata in aria: i topoi narrativi, nel cinema di genere, e in particolar modo in
quello italiano, sono essenziali, fondamentali. La serializzazione di queste
produzioni, che avevano nel ritorno economico un obiettivo ancor più
imprescindibile del consueto standard, lasciava poche variabili a disposizione
degli autori.
I quali, per poter almeno esprimere in qualche modo la propria
cifra autoriale, potevano quindi giocare nell’uso dei cliché, mettendo in campo
variazioni o combinazioni di essi che risultassero un minimo originali. In
quest’ottica è quasi eccessivo il modo in cui Lenzi ripropone il whisky J&B
in Mangiati vivi!: lo scotch dall’etichetta
gialla è forse il simbolo per antonomasia dei gialli, i thriller
all’italiana dei primi anni settanta. Il regista toscano lo aveva messo ben in
evidenza nel capostipite dei cannibal-movie, Il paese del sesso
selvaggio, in modo da ascrivere subito il genere cannibalico come
discendente del thriller del belpaese.
Deodato, dal canto suo, lo aveva
dapprima sminuito nel suo esordio Ultimo mondo cannibale, per poi
eliminarlo quasi del tutto nel film di riferimento del filone, Cannibal
Holocaust (se ne intravvede unicamente un camion con la pubblicità). Era
anche un modo per chiarire che il linguaggio di quest’ultimo suo discusso film,
fosse di un’altra caratura e andasse interpretato in modo più profondo rispetto
agli abituali prodotti del cinema italiano di puro intrattenimento. Lenzi,
chiamato a mettere una pezza allo sconquasso provocato dal film di Deodato,
cerca subito di riportare il genere alle abituali coordinate del cinema di cassetta: quindi non solo il J&B
ritorna al centro della scena, ma lo fa in pompa magna, con Robert Kerman
(proprio lui, lo stesso protagonista di Cannibal Holocaust) che qui,
da mezzo ubriacone qual è, se lo porta sempre con sé nella classica bottiglia
che conosciamo bene. Insomma, Lenzi ci prova e, con la qualifica di apripista
originale dei cannibal, attraverso il
mestiere cerca di rilanciare il
genere. E in fondo se la cava: siamo quasi ai titoli di coda, ma il macabro
banchetto non è ancora alla frutta.
Paola Senatore
Me Me Lay
Janet Agren
Nessun commento:
Posta un commento