378_CANNIBAL FEROX. Italia, 1981. Regia di Umberto Lenzi.
Se con Mangiati vivi!
Umberto Lenzi aveva provato a tenere in piedi il genere cannibal dopo il trambusto creato dal famigerato Cannibal Holocaust (di Ruggero Deodato,
1980), il regista toscano sembra, soltanto un anno dopo, avere una sorta di ‘crisi
di coscienza’. E quindi eccolo mettere la parola fine ad un genere, quello dei cannibal-movie,
che aveva incendiato gli anni settanta, assicurandosi una vera schiera di
appassionati ma anche un fronte decisamente ostile sul versante istituzionale e
del pubblico più tradizionale. Essendo un filmmaker,
la ‘fine’ del genere Lenzi la sancisce mediante quello che è il suo lavoro, ovvero
ci fa un film. Nello specifico quello che potremmo dire che sia, o almeno
programmaticamente sembra, l’ultimo cannibal
all’italiana: Cannibal Ferox. E,
tanto per non smentire la fama del genere,
il film si becca un Vietato ai minori di
14 anni in Italia, mentre all’estero viene proibito in oltre 30 paesi. Del
resto l’opera di Lenzi non smentisce, anzi spesso ribadisce in modo plateale,
le caratteristiche peculiari del genere,
le più note e anche quelle più critiche. Violenza ostentata con compiacimento e
crudeltà verso gli animali vivi sono, come è noto, i passaggi più dolenti dei cannibal-movie e non mancano in Cannibal Ferox che anzi, in qualche
passaggio, stabilisce dei veri e propri primati.
Ma inutile perderci nella descrizione di dettagli di dubbio gusto; se il genere
ha dei motivi di interesse, non sono certo questi, che possono semmai essere considerati
effetti collaterali che ne sviliscono
il valore (vero o presunto che sia).
Insomma, Lenzi continua il suo rapporto
metalinguistico con questo genere,
che aveva sostanzialmente lui stesso inaugurato con Il paese del sesso selvaggio (1972) e, dopo le traversie della più
controversa corrente del cinema
all’italiana, provato a tenere in vita con il citato Mangiati vivi! (1980). Ora, forse colto da un ripensamento, sembra
sancirne la fine con Cannibal Ferox.
L’impressione che l’autore voglia congedare il genere è forte: la storia raccontata riprende alcuni spunti dei
precedenti cannibal, ma il
trattamento è superficiale, abbozzato, tirato
via. Lenzi lascia subito intendere che qualcosa è cambiato: un segnale
scherzoso, in tal senso, potrebbe essere il whisky che i protagonisti bevono e
che non è il solito J&B.
Che storia è mai questa? Lo scotch nella storia non manca, anzi, ma è della marca sbagliata,
non è il blended con l’etichetta
gialla, quello classico del cinema all’italiana! A meno che forse, il concetto
sia che è Cannibal Ferox a non essere
un tipico esponente del cinema di genere
dello stivale. Dalla storia qualche
dubbio in tal merito può venire: troppo approssimativa, in effetti. Tre dei
protagonisti, Gloria (Lorraine De Selle), Pat (Zora Kerowa) e Rudy (Danilo
Mattei) organizzano una spedizione nella giungla amazzonica per svelare il
mistero dei cannibali. Gloria è una studiosa che sostiene che il cannibalismo
non sia mai esistito, e con questa missione intende dimostrarlo.
A precedere
questa spedizione, nella giungla troviamo già due poco di buono: Mike (John Morghen) e Joe (Walter Luchini); mentre alla
fine, sarà la volta di Myrna (Fiamma Maglione), mettersi alla ricerca dei
dispersi. Cannibal Ferox si presenta
quindi come una sorta di riassunto delle trame di alcuni precedenti cannibal-movie: ci sono quelli in
avanscoperta, la spedizione che ne ripercorre le tracce (anche se
involontariamente), e le successive ricerche ai dispersi. Anche la composizione
del cast ha il suo peso: sebbene siano quasi tutti attori già attivi nel nostrano
cinema di cassetta, potrebbe essere
non casuale che il più noto, Robert Kerman, protagonista sia di Cannibal Holocaust che Mangiati vivi!, rimanga fuori dal filone
principale della vicenda.
Tornando al canovaccio, come in tutti i racconti che hanno caratteristiche riassuntive, al film di Lenzi manca il tempo per approfondire meglio i risvolti della trama: i
tre giovani arrivano in Amazzonia, Pat si concede un’improbabile scappatella
con un imbolsito militare in cambio di una doccia, e poi via, nella giungla. Al
primo corso d’acqua un minimo insidioso, il fuoristrada si impantana e viene
lasciato sul percorso dai tre ragazzi con eccessiva nonchalance. Poi, dopo un
breve cammino, i nostri incontrano un indigeno che sta pranzando a base di
larve: a parte il particolare raccapricciante, l’idea è quella di una
scampagnata nel parco cittadino, più che nella foresta amazzonica.
Anche la
location non aiuta: è certamente realistica ma, la giungla, al cinema, già
anche prima dei cannibal-movie, è
sempre stata ripresa conferendogli una certa atmosfera, affascinante e
inquietante, quando non direttamente terrorizzante. In Cannibal Ferox no: ci sono grandi spazi aperti, anche perché si è
quasi sempre in prossimità di un fiume: il che è sicuramente uno scenario
plausibile in Amazzonia e forse anche più realistico di altri, ma l’idea che
comunica è di luogo privo di pericolo, di fascino, di intesse. La storia a
questo punto ha un’impennata drammatica, con l’incontro tra i tre giovani e i
due criminali, e il contemporaneo sopraggiungere dei cannibali. Di fatto la
trama non ha uno sviluppo: si apprende sostanzialmente quello che è successo in
precedenza, ovvero Mike e Joe hanno torturato e ucciso alcuni membri della
tribù di indios che, comprensibilmente, intendono vendicarsi. Qui il
riferimento è a Cannibal Holocaust,
anche se depotenziato dai rimandi ai media che era proprio del film di Ruggero
Deodato: i due criminali da strapazzo del film di Lenzi sono due balordi e non
stimati reporter, e la violenza è da loro sparsa, prevalentemente da Mike,
senza alcuna motivazione.
Comunque ora è il turno degli indios: Gloria, che nei
suoi studi aveva maturato la convinzione che il cannibalismo non fosse mai
esistito, deve convincersi del contrario. Prova però a darsi una spiegazione
sulla ferocia degli indios: la loro è una reazione al brutale impatto con i
colonizzatori, gente violenta come Mike che semina crudeltà e terrore presso i
nativi senza curarsi delle conseguenze. Sembra, in effetti, un punto di vista
grosso modo condivisibile e condiviso anche dal regista che, per altro, si
premura di sottolineare quanto una certa brutalità sia comunque presente nella
cultura primitiva degli indios come un fatto naturale. Ma si tratta di
argomentazioni appena accennate, essendo Cannibal
Ferox un testo che, se offre qualche spunto di approfondimento, lo fa solo
sul versante metalinguistico. In effetti Lenzi rispolvera la prospettiva in
parte illuminista che aveva vagamente
pervaso il capostipite del genere, il suo Il
paese del sesso selvaggio: ma è una falsa pista, non sarà, infatti, il buon selvaggio a salvare Gloria, almeno
non del tutto. E’ certamente l’animo buono e generoso di uno degli indios che,
prima di morire, permette alla giovane di intraprendere la sua fuga ma la
sponda decisiva alla ragazza viene offerta da alcuni bracconieri in caccia di
animali selvatici. Il che è un tocco di cinismo tipico di Lenzi e che,
nell’ambito dei cannibal-movie,
acquista ancora più forza.
La salvezza della protagonista è dovuta quindi alla
sensibilità di questi cacciatori di frodo che, pur deportando fauna selvatica
per mero interesse, quando sentono le grida della donna accostano
l’imbarcazione mettendo a rischio la loro stessa vita. Per altro Lenzi non
evita certo di affrontare il problema
della violenza a danno degli animali così comune nei cannibal-movie, anzi. Le crudeltà ci sono e c’è almeno una scena
emblematica in questo senso: quella del coati, il procionide che una indigena
dona a Gloria a mo' di talismano per preservale la vita. Il piccolo animaletto svolge appieno la funzione
narrativa conferitagli da Lenzi, visto che Gloria sarà l’unica a salvarsi, ma
il regista opta per una scelta piuttosto discutibile nei suoi riguardi.
Il
poverino è tenuto legato, mentre i tre protagonisti dormono nella giungla:
arriva un anaconda che si trova giusto il pasto servito di tutto punto. E’
evidente l’intenzione di Lenzi di riprendere un tipico atto violento di madre natura, un classico dei cannibal-movie, ma l’idea di tenere
legato il coati è drammaticamente devastante. Da un lato, enfatizza la
tragicità della situazione, perché mette il debole in condizione di ulteriore
debolezza al cospetto del forte, con la piena consapevolezza di non avere
alcuno scampo già al momento dell’arrivo del serpente.
Le grida disperate del
piccolo animale sono forse l’apice eticamente negativo dei cannibal-movie, uno dei poco illustri primati di cui si accennava.
Pur giustificandolo a livello narrativo, l’animale è legato dai giovani per non
farlo scappare, con questa traumatizzante scena Lenzi confeziona un paragone che
mette spalle al muro la società occidentale, di cui il cinema è uno degli
aspetti collettivi più importanti. Assistiamo infatti ad una sorta di rito
sacrificale messo in piedi per garantirsi il consenso dei fan dei cannibal, neanche troppo diverso da
quello dei popoli primitivi. E’ una prospettiva difficile da accettare, la
critica ad un sistema facendo uso degli stessi metodi che si criticano nel
sistema stesso, ma Lenzi, rispetto a Deodato, che di questa pratica con Cannibal Holocaust ci aveva fatto un
manifesto, si spoglia di ogni ipocrisia. Il coati è legato e messo dalla troupe
alla mercé dell’anaconda. Non valgono, quindi, in nessun modo, nemmeno le
parole di Sergio Martino, che raccontava di come la scimmietta fosse stata
mangiata viva (e opportunamente ripresa dalla mdp) dal pitone ‘per errore’
, per eccesso di foga del predatore, (La
montagna del dio cannibale, 1977).
No, Lenzi lega il coati e aspetta
l’anaconda e così ci mostra esattamente cosa accade in un cannibal-movie: gli animali sono sacrificati al dio del cinema cannibale. Senza alcuno
scrupolo morale (o almeno senza che questi scrupoli, se mai ci fossero, abbiano
avuto un riscontro reale). Metacinema, anche più di Cannibal Holocaust. Nel finale, Gloria, presenta il suo studio, che
significativamente si intitola Cannibalismo,
fine di un mito: non rivelerà, infatti, alla comunità scientifica che in
Amazzonia ha trovato i cannibali. Preferisce tacere questo aspetto, anche
perché le cose peggiori a cui ha assistito le hanno commesse i bianchi. Scelta
condivisibile, ma in realtà più che questo passaggio, c’è un'altra cosa che
salta subito all’occhio. Il suo testo ha un titolo che si presta benissimo ad
essere esteso, per assonanza e per destino, al genere in questione: Cannibal-movie, fine di un mito.
Zora Kerowa
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