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giovedì 31 ottobre 2024

PHOTOPHOBIA

1569_PHOTOPHOBIA. Ucraina, Slovacchia, Cechia, 2023; Regia di Ivan Ostrochovsky e Pavol Pekarcik

Il titolo del film di Ivan Ostrochovskye Pavol Pekarčík, Photobhobia –in italiano fotofobia– fa riferimento al disturbo dovuto al fastidio per la luce, la cui origine può essere dovuta a motivi diversi. Nel caso del film della coppia di registi slovacchi è legato alla vita reclusa e lontana dall’aria aperta a cui è costretta la popolazione ucraina –nello specifico della città di Kharkiv– per proteggersi dai bombardamenti russi scatenatesi dopo l’inizio dell’aggressione su vasta scala. Photobhobia è un ibrido tra un film e un documentario, e lo pseudo-racconto che sorregge l’opera si concentra sulla vita di un pugno di persone, tra le tante che si sono rifugiate nella metropolitana di quella che è la seconda città ucraina, e che lì sotto vivono 24 ore al giorno sette giorni su sette, ormai da due mesi. La confusione e lo stato di precarietà estremo regnano sovrani, considerato che nei tunnel della metro mancano gli elementi necessari alla vita: luce, aria, spazio, prima ancora di acqua e cibo. La messa in scena di Ostrochovsky e Pekarčík è soffocante, con lo schermo sempre e costantemente ricolmo di cose –persone, animali domestici, materassi, borse, scatoloni, qualunque oggetto è ficcato dentro l’inquadratura in ogni spazio disponibile– a sottolineare la situazione fortemente oppressiva. Manca il cibo, come detto, e l’acqua è razionata; ma a far più danni è la lontananza dall’aria aperta, dalla luce del sole: Niki (Nikita Tyshchenko), il ragazzino protagonista del film, comincia ad avvertire i primi sintoni che una vita costantemente al chiuso comporta. «Costantemente» nel puro senso del termine, perché la potenza di fuoco russa non concede deroghe: chi si azzarda ad uscire alla luce del sole, rischia grosso. “I bambini si ricorderanno tutto questo?” chiede, durante il film, la madre di Niki (Yana Yevdokymova) al marito: è questo, il quesito su cui si interrogano gli autori. Il punto di vista è, infatti, quello dei più piccoli: di Niki, ma anche di Anya (Anna Tyshchenko), la sua sorellina, o di Vika (Viktoriia Mats), l’amichetta del cuore. Un punto di vista che non ha mai un orizzonte, perché relegato dentro i vagoni di un treno o la galleria della metropolitana, e su questo aspetto insistono con perseveranza gli autori. Persino i ricordi, l’immaginazione dei ragazzini, non è in grado di andare oltre alla tragedia della guerra. Simbolicamente, ed efficacemente, questo è mostrato dall’utilizzo, da parte di Niki e Vika, di un vecchio visore portatile per diapositive che, magicamente, è in grado di riprodurre brandelli di vita all’aria aperta, come fossero filmati in Super 8. Ma i personaggi che vi si vedono sono sempre accompagnati da uno sfondo distrutto dai bombardamenti, a ricordare l’onnipresenza della guerra, anche nella fantasia dei ragazzini. Visivamente, la sensazione di chiuso, di costrizione, persiste anche in queste immagini, per altro surreali per via della colorazione fortemente artificiosa: le varie inquadrature sono circondate dai bordi delle diapositive a significare l’impossibilità di qualsiasi via di fuga, persino per l’immaginazione. È un film triste, pessimista, quindi, Photophobia? Certamente non è allegro, se pensiamo che le uniche persone che vediamo muoversi all’aria aperta sono gli uomini che trafficano con tubi di ferro vicino ai tombini, in una Karkhiv spettrale con le poche auto che sfrecciano veloci per il timore del bombardamento russo. È il breve ed enigmatico incipit, poi tutto il resto del film si svolge nel chiuso della metro e la luce del sole farà la sua comparsa, per un breve momento, unicamente nel finale, quando Niki e Vika giocano con le mani a fare le ombre cinesi sul muro. Vika, per la verità, con le sue buffe orecchie da coniglio suonanti, è stata, sin dal primo incontro, una nota –anche letteralmente– lieta, qualcosa in grado di sovvertire la negatività imperante nei tunnel della metropolitana. Due elementi, la musica e il sentimento, che il romanticismo coniugava alla perfezione e di cui si fa efficace portavoce il vecchio cowboy (Vitaly Pavlovitch), e che possono forse incarnare l’ultima speranza d’evasione. Non a caso, nel momento più trascinante del film, quando la colonna sonora si fa potente, i ragazzi corrono veloci per i corridoi della metro, deserti per l’occasione, che, in quel frangente, sembrano ambienti domestici e non claustrofobici. Merito della musica e, ça va sans dire, dell’amore, anche di quello tenero e acerbo di due ragazzini. E allora si può rispondere alla domanda della signora Yevdokymova, la madre di Niki: i bambini si ricorderanno di tutto questo, e, a quel punto, nei filmini dei loro ricordi ci sarà qualcosa che nessuna bomba potrà mai distruggere.









martedì 29 ottobre 2024

SONGS OF SLOW BURNING EARTH

1568_SONGS OF SLOW BURNING EARTH. Ucraina, Svezia, Danimarca, 2023; Regia di Olha Zhurba

Della modestia dell’artista, legata alla relazione tra l’artista e l’arte, ne ha disquisito in modo esemplare già Thomas Mann nell’interessante opuscolo L’artista e la società [Thomas Mann, L’artista e la società, Associazione Italiana per la Libertà della Cultura, 1953]. Scrive, infatti, Mann: “Io vorrei vedere quell’artista che non conosce l’improvviso rossore di fronte all’opera d’arte che sta presso di lui e d’innanzi a lui: è un rossore che deriva dal fatto che ogni esercizio di arte comporta un nuovo e già di per sé artistico adattamento all’arte di ciò che personalmente e individualmente si possiede. Il singolo, anche dopo la riuscita e il riconoscimento delle sue realizzazioni, può domandarsi, paragonandole con le opere d’arte altrui: «com’è stato possibile il mio adattamento personale, anche per un istante solo, con tali cose?». «Com’è stato possibile?» Questa è la domanda che scaturisce dalla schietta modestia dell’artista”. [Thomas Mann, L’artista e la società, Associazione Italiana per la Libertà della Cultura, 1953, pagine 13 e 14]. Quella stessa “schietta modestia” si è manifestata nelle parole di Olha Zhurba, nuova stella del firmamento del cinema ucraino, intervenuta a Lugano, all’11° Film Festival Diritti Umani, a presenziare la proiezione del suo splendido Songs of slow burning Earth. L’entusiasmo non è di maniera, unicamente lo spettatore che ha la fortuna di assistere al documentario della Zhurba, non può che essere travolto dalla potenza artistica della cineasta ucraina, e, per assurdo, tornarsene a casa rinfrancato. Per assurdo perché Songs of slow burning Earth è un documentario durissimo e pesantissimo, dal punto di vista umano, perché mostra senza sconti la tragedia immane che sta accadendo in Ucraina, dopo quel maledetto 24 febbraio 2022. Olha, facendo scaturire –per usare le parole di Mann– la citata modestia d’artista, nel dibattito post proiezione, ci ha tenuto a precisare che la sua rappresentazione della situazione è limitata e non rende assolutamente l’atrocità della guerra. Da un punto di vista puramente descrittivo, la cosa è anche vera, molto probabilmente, perché la regista non indugia eccessivamente sui dettagli scabrosi o macabri. Testualmente la Zhurba ha dichiarato che la sua arte è debole, al cospetto della guerra, e non può riportarcene l’enorme gravità. Ma è un commento che non rende giustizia all’arte di Olha, perché il suo cinema è tutto fuorché debole; debole semmai sono la guerra, la violenza, la prevaricazione, che della forza hanno solo la parvenza materiale. Al contrario, Songs of slow burning Earth ha una potenza che lascia senza fiato, emoziona, commuove, sgomenta, sempre con grande forza d’urto. È un’opera universale, quella della regista ucraina e lo si capisce sin dal nome del film: c’è la capacità di architettare un titolo composto, con l’attenzione al sonoro –«songs», canzoni– e il riferimento al cinema –«burning slow», ovvero bruciare lentamente. Una definizione, nel caso specifico, valida anche da un punto di vista letterale ma, in ambito cinematografico, l’espressione «burning slow» è usata, sin dai tempi delle comiche di Stanlio e Ollio, per descrivere quelle situazioni che, pur sviluppandosi in modo apparentemente lento, avanzano inesorabilmente fino alla catastrofe. Se nei film di Laurel e Hardy e nelle commedie, questo stratagemma narrativo prevedeva una soluzione esplosiva ma umoristica, il timore è che, il film della Zhurba ci racconti di un’evoluzione drasticamente diversa. Ma naturalmente è nella realizzazione dell’opera vera e propria che si concretizza la bravura della regista: dalla superba capacità compositiva delle immagini degna di Anthony Mann [uno dei maestri del cinema hollywoodiano, famoso, tra le altre cose, per l’abilità nel gestire il formato panoramico CinemaScope, al tempo novità delle Settima Arte], al montaggio, spesso usato in modo spiazzante e contrapposto, ad un utilizzo della traccia audio davvero notevole o all’efficace simbolismo di alcuni passaggi. Come accennato, i fotogrammi del film della Zhurba non insistono sulle atrocità della guerra, ma l’autrice ha una capacità di costruzione dell’immagine tale da rendere le sue scene, per quanto rigorosamente documentaristiche, interpretabili come artificiose. Emblematica, di questa estrema abilità della regista, la domanda arrivata dalla platea dopo la citata proiezione a Lugano: uno spettatore chiedeva a Olha come fosse riuscita a ricostruire tutte quelle scene con tale realismo. La cineasta ucraina garantiva, a quel punto, dell’autenticità delle immagini, e, al di là dell’estrema bravura della Zhurba nel cogliere sempre le prospettive e i soggetti migliori, la cosa è evidente. Questa abilità consente alla regista un primo livello narrativo, già all’interno della stessa immagine; spesso la camera è ferma, molte altre volte si muove con un carrello lento, circospetto e descrittivo. Le immagini di Songs of slow burning Earth parlano da sole e, spessissimo, a farlo sono i primi e primissimi piani sui volti della gente ucraina, donne, uomini, bambini, che soffrono per la tragica situazione e che la camera di Olha riesce a raggiungere e a renderci vicinissimi. Il montaggio, spesso, mette in risalto questi elementi, accostando immagini completamente diverse, come le tante visioni bucoliche che si alternano alle devastazioni urbane create dai bombardamenti. In sala taglio, accanto a Olha, ha lavorato Michael Aaglund, per un risultato sopraffino anche sotto un aspetto, altre volte nel caso di documentari, assai meno determinante nel computo finale. Ma Songs of slow burning Earth è un documentario realizzato come fosse un film di finzione e, quest’impressione, è determinata anche dal magistrale uso del sonoro, degno di un horror da manuale. In moltissimi casi, non solo bellici ma anche di catastrofi di altra natura, ad impressionare maggiormente, gli sfortunati che abbiano avuto questo tipo di esperienza, è il rumore. In effetti, l’uomo occidentale, dai tempi dell’alfabetizzazione [iniziata con la stampa a caratteri mobili inventata da Johannes Gutenberg nel 1453] tra i suoi sensi, ha privilegiato in modo totalizzante la vista, che permette di acquisire informazioni mantenendo sempre un certo distacco da esse e dall’ambiente circostante. Al contrario, l’udito, è un senso che «ci tocca» nel nostro intimo, considerato che le onde sonore riescono ad arrivare fino al timpano, posto ad una certa profondità nell’orecchio. Questo è uno dei motivi che rende il suono un elemento tanto destabilizzante e, nel cinema e in particolare in quello dell’orrore, si può associare con grandissimo profitto con il «fuori campo». Un rumore fortissimo ci spaventa di per sé; un rumore di cui non riusciamo a percepire la fonte, ci inquieta ulteriormente. I carrelli laterali o le inquadrature fisse, a volte di una natura anche tranquilla, in Songs of slow burning Earth sono accompagnati spesso da suoni stranianti, disturbanti, per un effetto che instilla una sottile ma strisciante e corrosiva paura. Uno stile che ricorda, un po’ come tutto il film di Olha Zhurba, un altro capolavoro recente del cinema ucraino, This rain will never stop, di Alina Gorlova. [This rain will never stop, Alina Gorlova, 2020]. L’utilizzo del rumore fuoricampo come strumento di terrore è poi esemplificato nella scena con il bambino che si diverte con il fucile mitragliatore giocattolo. Il ragazzino, in una casa sperduta nella campagna ucraina, sta «sparando» a destra e a manca con la sua mitragliatrice fatta di scatole e tubi, quando si sente arrivare un suono devastante, il rumore di un caccia da guerra. Il piccolo d’un balzo scappa a cercare riparo, il rombo sovrasta la scena ma del jet nessuna traccia: il semplice rumore fuoricampo ha spaventato tanto noi che il ragazzino sullo schermo. Ma anche l’utilizzo della traccia audio è universale, e non si limita unicamente a questi aspetti d’impatto; ci sono le registrazioni dei colloqui telefonici, le chiamate al numero d’emergenza, soprattutto in apertura. Tra le ripetute segnalazioni dei primi improvvisi scoppi c’è l’esplicita domanda se si tratti di guerra e l’operatore risponde affermativamente, ma in modo un po’ vago, perché, in realtà, nessuno sapeva ancora cosa diamine stesse accadendo. In questo caso, cinematograficamente, la consapevolezza di quello che era in corso, l’invasione del 24 febbraio, rende ora quelle voci ancora più intimorite, spaventate, indifese. Si tratta di un adattamento al testo di un classico cliché del cinema thriller, la suspense: come insegnava Hitchcock, un evento che capita senza preavviso può spaventare fino ad un certo punto. A creare tensione è la consapevolezza, da parte degli spettatori, di quello che inevitabilmente succederà: in questo caso il pubblico sa perfettamente come i timori delle persone che dialogano piene di apprensione, abbiano completo fondamento, il che rende quelle voci ancora più angoscianti di quanto non siano. Il sonoro è poi parte integrante della sequenza madre di Songs of slow burning Earth, quella con il feretro del soldato morto al passaggio del quale tutti quanti si inginocchiano: una scena molto toccante che, al cinema, si era già vista in War note di Roman Lyubiy [War note, Roman Lyubiy, 2021]. In quest’occasione la costruzione della sequenza è molto più accurata, e questo può aiutare a capire la maniacale attenzione di Olha nel comporre il suo cinema. 

La regista si prende tutto il tempo necessario ad un momento tanto lirico: inizialmente abbiamo solo la visuale in soggettiva di un automezzo che avanza su una tortuosa strada. Il primo individuo che si incontra, si inginocchia, e lì per lì la cosa sembra un comportamento anomalo, poi la scena si ripete, fino ad arrivare ai tratti di strada lungo i quali sono assiepate decine di persone, tutte inginocchiate. A meno di non conoscere questo tipo di situazione, non si è ancora in grado di comprenderla a fondo: cosa o chi sta passando, per meritarsi tale tributo? Anche per questo motivo, la sequenza è molto lunga, scandita inesorabilmente dal lento movimento del tergicristallo, con le spazzole che fanno un fastidioso rumore faticando sul vetro appena umido. Una litania che aumenta la sensazione estenuante che la persistenza di questo viaggio produce nello spettatore, che, nel frattempo, è divenuto ormai conscio, qualunque sia la sua conoscenza della situazione, di quello a cui sta assistendo. E, proprio allora, con perfetto tempismo ritardato, incombe il taglio del montaggio che ci permette di vedere il camion con la bara avvolta nella bandiera ucraina: il cadavere di un soldato fa ritorno al paese natio e chiunque, al suo passaggio, gli tributa l’onore pienamente meritato. Questo momento non è il solo che mette in rilievo la preoccupazione –a quel che dato sapere unicamente ucraina, tra le forze in contrapposizione– per l’identificazione dei morti. Anzi, si può dire che proprio il contrario approccio alla questione sia uno degli elementi che permetta di decifrare meglio una guerra come quella russo-ucraina, dal punto di vista occidentale abbastanza incomprensibile. Gli ucraini, che leggono nell’aggressione russa non tanto un tentativo di vincerli, quanto quello di cancellarli dalla faccia della terra, hanno una lodevole e sacra ossessione per il riconoscimento dei cadaveri, e non solo quelli dei propri compatrioti. Di contro, i militari russi, non perdono l’occasione di eliminare fisicamente il nemico, anche quando questi è già morto. La cronaca ne ha portato diversi casi, sebbene resti sempre il problema dell’attendibilità delle notizie. Per restare in ambito cinematografico, il cinema ha insistito su questo aspetto della vicenda, ma si deve registrare come, almeno in base ai film presi in esame in questo studio –che ha cercato di essere il più completo possibile e tra cui, come si è visto, vi sono tutte le opere russe o filorusse circolanti o reperibili– sia un tema solamente ucraino o filo-ucraino. Se ne trovano, infatti, cenni in Atlantis [Atlantis, Valentyn Vasyanovych, 2019] e Reflection [Reflection, Valentyn Vasyanovych, 2021] di Valentyn Vasyanovych, in Frost [Frost, Šarūnas Bartas, 2017] di Šarūnas Bartas e in Nessun segno manifesto [No obvious signs, Alina Gorlova, 2018] di Alina Gorlova: abbastanza per credere che si tratti di un’attività bellica peculiare di questo conflitto e, nello specifico, dell’esercito invasore di questo conflitto. La cancellazione fisica del nemico fa decadere il rispetto per i morti che, almeno sulla carta, era uno degli ultimi baluardi di umanità che si poteva sperare di trovare in uno scenario di guerra. Certo, c’è sempre stata, citata anche in Songs of slow burning Heart, la barbara usanza di predisporre i cadaveri dei nemici come bombe-trappola, ma, a parziale –e assolutamente insufficiente– scusante, si poteva portare, in questo caso, l’utilizzo del nemico morto come arma utile alla propria causa bellica. Nell’invasione su larga scala, invece, la strategia russa sembra quella di cancellazione del nemico intesa come rimozione fisica, negazione retroattiva, qualcosa di malvagio ideologicamente e concretamente. 

La risposta ucraina a questo tentativo è commovente e ben documentata dalla Zhurba nel suo film: gli ucraini fanno di tutto per restituire la dignità di un nome a chiunque sia caduto a difesa della Patria, e questo diametralmente opposto atteggiamento nei confronti di chi ha perso la vita, non permette alcuna equiparazione in onore ad una neutralità dello sguardo. E, ancora una volta, la macchina da presa di Olha è illuminante: la sua regia è tutto fuorché imparziale, neutra, al punto che, come detto, c’è chi ha pensato a scene ricostruite. Ma un documentario cinematografico ha il compito di documentare, è ovvio, ma, in quanto cinema e quindi arte, può assurgere a Verità, la Verità dell’arte. Che non si cura di presunte e fittizie parzialità o imparzialità: è semplicemente vera, autentica. E, stante questa critica situazione, la verità dell’arte –e del cinema nello specifico– è la nostra ultima speranza. E qui si chiude il discorso aperto in avvio, sulla modestia dell’artista, perché Olhia Zhurba, in quel di Lugano, oltre a dichiarare la debolezza della sua arte –appena smentita dal suo film, peraltro– si è detta anche senza speranza, almeno per sé stessa e la sua generazione. In effetti, verso la fine, Songs of slow burning Earth si concentra sul futuro, con i ragazzi ucraini di una scuola che cercano di immaginare come sarà la pace dopo la guerra e, in contrasto, le curiose immagini all’interno di un istituto scolastico russo nel quale si insegna a bambini e bambine a marciare e cantare manco fossimo in una caserma. Olhia ha dichiarato che si tratta, come le precedenti, di immagini genuine, anche queste ultime carpite sul suolo russo, sebbene la cosa fosse, evidentemente, proibita. Un passaggio che vuole essere inquietante, dal momento che il Cremlino, stando a quanto mostrato nelle scene, sta creando un popolo di guerrieri. Può essere vero, maestra Storia insegna che situazioni del genere si sono già verificate. L’unica arma a cui possiamo appellarci è la speranza che ciò non accada, diversamente sarà, in ogni caso, una catastrofe. E, da cittadino italiano ed europeo, di un Paese al momento in pace, questa speranza nel futuro la posso prendere proprio dal cinema di Olha Zhurba, una donna che proviene da paese che, al momento, non sembra che un cumulo di macerie; una donna che, comprensibilmente, si dice senza speranza. Come questo paradosso sia possibile lo ha spiegato Mann: la modestia dell’artista.  

domenica 27 ottobre 2024

THREE SHORTS ON THE UKRAINE WAR

1567_THREE SHORTS ON THE UKRAINE WAR. Ucraina, Polonia 2024; Regia di Autore Vari

Presentati organicamente al Samizdat Eastern European Film Festival, questi tre cortometraggi sono, come si comprende dal titolo della piccola antologia, inerenti alla guerra russo ucraina. Nel primo, che anche quello nettamente più corposo, abbiamo un perfetto esempio della collaborazione a più livelli che si è sviluppata tra Ucraina e Polonia anche in seguito all’escalation voluta da Putin il 24 febbraio 2022. La Polonia è stata, ed è, un approdo sicuro per migliaia di sfollati dall’Ucraina e, di questo sodalizio il cortometraggio Liosza di Milosz Sawicki, è un esempio cinematografico. Realizzato da troupe polacco e attori ucraini, il breve film ci riporta ai primi tempi dell’aggressione russa: Liosza (Oleksiy Morozov) e Dmytro (Artur Taran) sono due fratelli ucraini emigrati per lavoro in Polonia; la loro madre era rimasta Kharkiv e, con lo scoppio della guerra totale, si trova in grave pericolo. Ora non si tratta più di scherzare quando si è alzato troppo il gomito: bisogna decidere concretamente cosa fare. Dmytro, che si è fatto una ragazza, vuol spostarsi in Germania, per guadagnare qualcosa in più; Liosza vuole arruolarsi. Sul momento, la cosa non è presa troppo sul serio, ma poi Liosza sale davvero sul bus che lo riporta in Ucraina. Pur considerando le distanze, farà poca strada, non andando oltre al primo posto di blocco russo. Alla violenza della guerra, ai soprusi che produce ogni singolo secondo nella sua disumana attività, nessuno può pensare di presentarsi preparato. Nemmeno un emigrante ucraino abituato a sordidi dormitori e bettole di ultima categoria. La guerra è dipinta, è proprio il caso di dirlo, non tanto come disumana ma perfino come irreale, dal secondo cortometraggio dell’antologia, Comma. Breve ma inventivo filmato in animazione e stop-motion opera di Sonia Leliukh, Comma è un pastiche che combina disegni a matita, decoupage con ritagli di giornale. Surreale ed espressionista, il filmato ci trasporta in un ambiente onirico: la guerra, però, più che un sogno, è un incubo. Uzhorod: to the shelter! È, in un certo senso, il più interessante: la regista Oleksandra Horiienko ci mostra come due giovani, Anastasiia Voskanyan e Hryhoriy Naumov, approfittino degli allarmi per i bombardamenti per potersi stringere uno all’altra. Riuscire a scovare la possibilità romantiche anche sotto le bombe russe ci dice della forza dello spirito ucraino: il tono leggero della breve opera è delicato ma, al cospetto della gravità e della severità della guerra, ha un qualcosa di irriverente. Quasi che l’amore, anche quello un po’ futile tra due sbarbatelli, sia consapevole della propria potenza e voglia sottolineare la stupidità e la vacuità della guerra. 

venerdì 25 ottobre 2024

A PICTURE TO REMEMBER

1566_A PICTURE TO REMEMBER. Ucraina, Francia, Germania 2023; Regia di Olga Chernykh

Ogni film, ogni opera degna di interesse, lascia qualcosa di peculiare nello spettatore. Da un testo che ci racconta di una guerra, in genere, siamo abituati ad attenderci le più diverse reazioni, che naturalmente dipendono dalla sensibilità di ognuno. Se è possibile ipotizzare un tratto comune, tra queste risposte ad un evento traumatico come la guerra, si potrebbe pensare allo stupore, alla sorpresa. Soprattutto se ci si riferisce all’Europa, che, dopo la Seconda Guerra Mondiale, ha fatto di tutto, almeno a livello di intenzioni programmatiche dichiarate, per evitare nuovi sanguinosi conflitti sul proprio suolo. In fondo la Comunità Europea nasce da questi intendimenti, evitare una nuova guerra mondiale tra i paesi europei. E, da quel che si può intendere, anche Olga Chernykh non si aspettava l’escalation del 24 febbraio 2022, con l’aggressione russa e l’invasione su larga scala nella sua Ucraina. Eppure, la sensazione che emerge da A picture to remember, documentario con cui la Chernykh racconta, tra le altre cose, di questi tragici avvenimenti, non è quella che ci si aspetta a fronte di una sorpresa. Tutt’altro: quello che filtra dalle variegate immagini che compongono il film, è un misto di rassegnazione e consapevolezza, quasi di prevedibilità o conoscenza a priori di quello che sta accadendo. La regista è originaria di Donetsk e ci ricorda che il motto della regione, il Donbas, è “Nessuno ha mai messo in ginocchio il Donbas, e nessuno lo farà mai”. Esaltante, certo, come proclama, ma viene da chiedersi perché mai un territorio debba aver issato un simile vessillo a difesa della propria indipendenza, se non che la vita abbia insegnato ai cittadini di questo martoriato lembo di terra che la liberà sia, se non proprio una chimera, certamente una conquista da mantenere con i denti ad ogni svincolo della Storia. Ma quello di Olga Chernykh non è un documentario storico o bellico: è un ritratto famigliare, perché il Donbas, come tutti i territori e a maggior ragione quelli sofferti, non è tanto un’entità politica quanto l’umanità che lo abita o lo ha abitato. Non tutti sono rimasti, infatti: ad esempio Olga, insieme alla madre Alyona, se n’è andata a Kyiv, lasciando nonna Zorya a Donetsk. Alyona, un’anatomo patologa che lavora in un obitorio nella capitale, sempre super attiva e professionalmente indaffarata, può essere un buon esempio di donna ucraina: sgobba sodo ed è capace nel proprio lavoro. Come tutti gli abitanti del Donbas immigrati nell’ovest dell’Ucraina –ci fu un grande esodo dopo il 2014 legato ai primi scontri negli Oblast’ orientali– non era vista di buon occhio, dagli emancipati cittadini della capitale. Si son dovuti ricredere, a conti fatti. Ma, forse, è nonna Zorya ad incarnare meglio lo spirito del Donbas e, per estensione, dell’intera Ucraina. La simpatica vecchietta, che vediamo dialogare in videochiamate con figlia e nipote, è sempre pronta a stemperare la tragicità della situazione –“bombardano giorno e notte” è la sua descrizione dello stato delle cose a Donetsk– con una rassegnata ironia intrisa di fatalismo. Attraverso il racconto filmico di A picture to remember possiamo arrivare a comprendere l’origine di questa desolata accettazione delle avversità: Olga sfoglia l’album di famiglia e nei filmini amatoriali facciamo conoscenza anche con gli uomini della famiglia, il padre Oleg, dinamico ed elegante, e nonno Stasik, un marcantonio che amava gli affreschi di Giotto e ridere e scherzare. Piccole vicende che scorrono davanti alla Storia dell’Ucraina, il socialismo, l’industrializzazione di stato, illusioni che nel tempo si sono sgretolate. Mentre a Kyiv figlia e nipote malinconicamente festeggiano il fatto di essere vive nonostante i bombardamenti arrivati fino alla capitale, bevendo uno champagne tirato fuori da chissà dove, nonna Zorya, nella sua Donetsk, non molla. Ha cambiato i vetri alle finestre, il riscaldamento del suo appartamento non funziona ma il suo spirito non si è affatto piegato. Lo dice anche il motto del Donbas, no?       

mercoledì 23 ottobre 2024

JUDGMENT DEFERRED

1565_JUDGMENT DEFERRED. Regno Unito 1952; Regia di John Baxter

Per essere un piccolo B-movie girato in economia, Judgement Deferred di John Baxter si prende come riferimento nientemeno che M - Il mostro di Dusseldorf di Fritz Lang, da cui il tribunale dei senzatetto che si riunisce in una cripta è un evidente ma ingombrante debito. Peraltro, il film riprende molti elementi già visti in Doss House, film del 1933 dello stesso Baxter, a testimonianza dell’interesse del regista per queste tematiche e per le ambientazioni nei ceti sociali più disagiati dell’Inghilterra post bellica. Il lungometraggio può essere ascritto al «genere» crime, e si apre con l’ingiusta condanna a Bob Carter (Fred Griffiths) per traffico di droga. In realtà il colpevole è Coxon (Elwyn Brook Jones), un laido boss malavitoso, forse il miglior personaggio dell’intera storia. Nominalmente, il protagonista è il reporter David Kennedy (Hugh Sinclair), affiancato dalla bella e algida moglie Helen (Kay), ma si tratta, tutto sommato, di figure ordinarie. Più interessanti i personaggi che si riuniscono nella citata cripta, sorta di covo dei disagiati, tra cui si possono segnalare il Cancelliere (Abraham Sofaer), Dad (Bransby Williams) e Flowers (Leslie Dwyer). Ma Judgement deferred è ricordato, doverosamente, per il primo ruolo di rilievo di Joan Collins: nel film la giovanissima attrice inglese, non ancora ventenne, è Lil, figlia di Carter, l’uomo ingiustamente accusato all’inizio del racconto. Lil è una ragazza piuttosto intraprendente e non esista a chiedere aiuto ai senzatetto della cripta, debitori nei confronti di suo padre, se la giustizia ordinaria si rivela tanto ostile. Il racconto filmico fa quindi un balzo di un paio d’anni, nei quali Carter passa da recluso ingiustamente ad evaso, ma quello che stupisce è trovare Lil divenuta una ragazza di strada, capace anche di prendere a pistolettate il cattivo della storia per vendicarsi, dopo essersi addirittura arrampicata sul tetto di un edificio. Ci penseranno David ed Helen a salvarla dalla brutta strada prima nella scena finale che, come anticipato, riprenderà il processo a Peter Lorre in M – Il mostro di Dusseldorf. Lil è al banco dei testimoni dell’accusa, nell’improvvisato tribunale dei senzatetto allestito nella cripta, Coxon finalmente su quello degli imputati. Il finale, per altro, è particolarmente interessante: Coxon, già sfuggito dalla Giustizia ufficiale, sul più bello, si sottrae anche alla condanna dei disadattati, grazie al provvidenziale intervento dei suoi tirapiedi. I gangster hanno interrotto il processo a suon di colpi di pistola, e, lanciato una fune a Coxon, lo stanno issando per svignarsela, in barba a tutti quanti, quando la struttura cede e seppellisce tutti i cattivi della vicenda. L’inquadratura che chiude Judgement deferred è un carrello ascensionale sull’architettura gotica della chiesa sovrastante la cripta, e sembra indicare che l’unica giustizia davvero efficace sia quella divina. Come detto, Joan Collins era al suo primo ruolo di rilievo, benché non fosse certo la protagonista: tuttavia è evidente che la sua presenza scenica, nonostante l’aspetto non sia affatto sofisticato ma sia quello di una semplice ragazza del popolo, si mangi letteralmente il film. Oltre a ciò, Joan dimostra una sorprendente capacità di interpretare a dovere i differenti passaggi che il copione le sottopone. È credibile come figlia di un padre vittima di un’ingiustizia, come ragazza di strada e, nel confronto finale in tribunale, regge perfettamente la tensione della situazione: è nata una stella.





Joan Collins 

lunedì 21 ottobre 2024

APRITE: POLIZIA! LA TRAPPOLA

1564_APRITE: POLIZIA! LA TRAPPOLA. Italia 1973; Regia di D'Aniele D'Anza 

Prima del racconto vero e proprio, nell’ultimo episodio della serie Aprite: Polizia! il commissario Alzani approfitta del solito incipit, nel quale si rivolge direttamente agli spettatori, per congedarsi. Il pretesto narrativo è una promozione, tuttavia un po’ di malinconia viene lasciata intendere, soprattutto per merito del maresciallo Patanò. Per stemperare la commozione, Alzani gli ruba la battuta tormentone, “Se nasco un’altra volta, lo sai che cosa faccio?”, ma stavolta è il maresciallo ha non voler sapere la risposta. Quando le parole di commiato lasciano spazio all’azione, ci troviamo in un Luna Park dove il padrone del baraccone, Calabrese (Giuseppe Pertile), sta per ricevere la sgradita visita del «Rosso» (Aroldo Tieri). Il «Rosso» è un boss della malavita emigrato in America per sfuggire alla cattura, quando proprio Calabrese aveva «cantato» mettendolo nei guai: la sua vendetta è implacabile, nonostante la Polizia ne avesse previsto le mosse. Nella successiva fuga, il «Rosso» finisce asserragliato in un appartamento con un bambino, che minaccia di uccidere se la polizia interverrà. Quello dell’ostaggio indifeso in mano al criminale è un topoi del poliziesco e il regista D’Anza fa un ottimo lavoro, anche perché Aroldo Tieri è strepitoso a tratteggiare la disperazione che man mano assale il criminale. Sorprendentemente ottima anche la prova del giovanissimo Massimo Giuliani, nei panni di Danilo, il bambinetto preso in ostaggio dal «Rosso»: il racconto non sconfina mai nel sentimentalismo facile, anche perché Tieri è bravissimo a tenere questa deriva sotto apparente controllo. Apparente, perché in realtà, l’impressione è proprio che sia l’innocenza del piccolo Danilo a insinuare qualche dubbio, nella mente del criminale, come testimonia la sua tragica scelta di uscire di scena. Un altro finale notevole, perché il suicidio del «Rosso» costringe anche lo spettatore più severo ad ammettere che quando un individuo, sia esso anche un fuorilegge, decide di togliersi la vita, è tutta la società ad aver perso. 


sabato 19 ottobre 2024

APRITE: POLIZIA! UN GENTILUOMO NELL'IMBARAZZO

1563_APRITE: POLIZIA! UN GENTILUOMO NELL'IMBARAZZO. Italia 1973; Regia di D'Aniele D'Anza 

Gli autori di Aprite: Polizia! continuano nella loro operazione di alleggerimento dei toni: dopo il morto che morto non era, e la storia di spionaggio bucolico –dove il cadavere era peraltro arrivato, seppur del tutto inaspettatamente– ne Un gentiluomo nell’imbarazzo la trama non ci riserva macabre sorprese. Il quinto episodio è una commedia sofisticata in chiave italiana, sorretta dalla performance divertita di Franco Volpi nei panni del conte Ludovico Ildebrando Maria eccetera eccetera, ben spalleggiato dalla grande Elisa Cegani nel ruolo di Dora. Il conte, in realtà, non è un nobile caduto in disgrazia economica ma un imbroglione di professione che circuisce povere donne alla ricerca del grande e romantico amore. L’inserimento, nella trama, della attempata diva del cinema Hilda Moser (Lia Angeleri), che inscena il furto di una collana –finta– per attirare un po’ l’attenzione su di sé, è solo uno stratagemma che serve a muovere la trama e a dare corpo all’episodio. Il punto cruciale è che, una volta smascherato l’imbroglione, la povera Dora, innamorata delle sue illusioni romantiche più che dell’elegante mariolo, non si dia comunque per vinta, accettando di aspettare che il «conte» sconti la sua pena per sposarlo. Ha ragione, il commissario Alzani: la colpa peggiore dell’imbroglione, non è il reato in sé ma l’approfittarsi dell’altrui ingenuità. Una colpa per la quale non esista galera che sia abbastanza. 


giovedì 17 ottobre 2024

APRITE: POLIZIA! UN PAESE CHE LEGGE

1562_APRITE: POLIZIA! UN PAESE CHE LEGGE. Italia 1973; Regia di D'Aniele D'Anza

Dopo le prime due puntate, in cui ci era scappato il morto, nella terza la vittima, alla fine dell’episodio, si era scoperto che l’aveva scampata. Chissà, forse era il modo per sdoganare altre forme di indagine otre a quelle che vertevano su un assassinio. Fatto sta che nel quarto episodio, Un paese che legge, siamo in pieno clima di spionaggio industriale, con i segreti di una ditta chimica del centro Italia che vengono trafugati all’estero. Già il fatto che ad indagare sia mandato un commissario della Squadra Mobile di Roma può sembrare inconsueto, ma poi la stranezza più grande è che la vicenda tutto sembra tranne che una storia di spie. Oltretutto, l’ambientazione agreste del paesino sperduto nelle Marche, sembra l’antitesi di una questione di formule rubate tra impianti e laboratori chimici. Il piano del commissario Alzani è poi, un’altra idea bizzarra: nessuno, nel paesino, si beve la storia che sia un pittore, e anche Patanò, come venditore ambulante, non convince assolutamente. Ma questo era appunto il piano di Alzani, forse per costringere gli avversari a fare la prima mossa. Le storie di spionaggio sono molto particolari e non si può dire che Un paese che legge ne interpreti a dovere gli stilemi; si può semmai annotare che nel titolo è nascosta già la chiave dell’enigma, ovvero il modo in cui le formule venivano trafugate. La talpa, il dipendente della ditta chimica che fa uscire le informazioni, è Luigi (Alberto Lupo), che sottolinea parole e cifre alla bisogna da alcuni libri, in modo da comporre le formule segrete. I volumi in questione vengono fatti circolare in tutto il paese grazie alla biblioteca, gestita dalla fidanzata di Luigi, Maria (Milly Vitale): in questo modo anche intuendo il sistema sarà arduo stabilire chi, tra i tanti che si passano di mano il libro, è il destinatario della soffiata. Lo sceneggiato non si può dire particolarmente avvincete, sebbene il finale concitato ribalti perfino le previsioni: dopo una impensabile scazzottata tra Alzani e Luigi, questi viene freddato prima che possa parlare. A sparare è quello che era sembrato più innocuo di tutti, Clorindo (Arturo Bragaglia), il vecchietto appassionato di pittura, che conosceva Giovanni Segantini e il Divisionismo. Amare l’Arte –come fa anche Alzani, peraltro– non è garanzia di rettitudine; e già anche solo questa sottolineatura, permette comunque di salvare una puntata magari non irresistibile.   


martedì 15 ottobre 2024

APRITE: POLIZIA! GIOCHI DI SOCIETA'

1561_APRITE: POLIZIA! GIOCHI DI SOCIETA'. Italia 1973; Regia di D'Aniele D'Anza

Lo spunto alla base di Giochi di società, terzo episodio della serie televisiva Aprite: Polizia! è assai intrigante: un gruppo di giovani decide di giocare all’Assassino, soltanto che il morto quasi ci scappa d’avvero. L’Assassino è un curioso gioco di società: si distribuiscono le carte, il Re di Picche è il poliziotto, e si deve assentare un attimo; nel frattempo, chi ha pescato il Fante di Fiori, può scegliere la vittima e portare a termine il suo compito, ovviamente in modo simulato. A questo punto il poliziotto ritorna sulla scena e interrogando i presenti deve scoprire chi è il colpevole; un po’ come in un vero processo, i testimoni sono costretti a dire la verità, mentre il killer ha facoltà di mentire. Questo aspetto, su come ci si pone di fronte ad un interrogatorio, è molto interessante, perché spesso non se ne tiene conto quando si guardano i processi in televisione o in altre circostanze simili: il Diritto concede, infatti, la possibilità a chi è colpevole di mentire, senza che questa eventuale falsa testimonianza risulti, di per sé, un’aggravante. Diversa è la situazione di chi è un semplice testimone e, non avendo nulla da perdere, la Legge in questo caso è lapidaria e lo costringe a parlare. Tra l’altro, sarà proprio grazie ad un escamotage nell’ambito dell’interrogatorio dei presenti che il commissario Alzani smaschererà il colpevole. Prima dell’intervento della Polizia, si fa però conoscenza tra i vari convenuti al festino, una manciata di rampolli della buona società che battibecca per sterili questioni sentimentali. Tra questi, da ricordare Stefano (Vanni Materassi), soprattutto perché il play boy che finirà steso sul pavimento, e le ben più accattivanti Adriana (Patrizia Della Rovere), una presenza scenica davvero mozzafiato, e Giovanna, interpretata da Vira Silenti, che sciorina, oltre alla riconosciuta bellezza, il carisma di attrice di rango. Dopo i due casi di omicidio nei primi episodi della serie, il finale della terza puntata alleggerisce un po’ i toni in tal senso, visto che Stefano l’ha scampata. Chissà, forse non si voleva esagerare con i morti ammazzati sullo schermo televisivo; e forse anche il pistolotto moraleggiante con cui il commissario Alzani ammorba più gli spettatori che i bellimbusti della festicciola, avrà presunte motivazioni educative. Per carità, i rampolli in questione, presi a simbolo per la nuova generazione come i gusti musicali lasciano perfettamente capire, sembrano svogliati bambocci ma Alzani con i suoi atteggiamenti paternalistici ci fa una figura persino peggiore. Molto meglio il povero Patanò, peraltro perennemente zittito dal superiore. 


domenica 13 ottobre 2024

APRITE: POLIZIA! JAZZ FREDDO

1560_APRITE: POLIZIA! JAZZ FREDDO. Italia 1973; Regia di D'Aniele D'Anza

Si è detto che a livello di tradizione, il «giallo» negli anni Cinquanta, in Italia, era ancora praticamente inesistente. Da un punto di vista letterario il riferimento principale erano i paesi anglosassoni mentre, per quel che riguarda il cinema, gli Stati Uniti –dove aveva appena finito di furoreggiare il «noir»– potevano servire da spunto per l’interpretazione televisiva operata da Danza ne Aprite: Polizia!. Il secondo episodio della serie, Jazz freddo, è uno riuscito tentativo di interpretare in chiave italiana una tipica storia noir, con tanto di gangster e dark lady. Non manca, ovviamente, nemmeno l’ignaro protagonista, in questo caso il giovane rampollo di buona famiglia Giacomo (Matteo Spinola), adescato dalla femme fatale Mignon (Lia Zoppelli), che lo circuisce per conto del suo boss, Vandini (Carlo D’Angelo). Il commissario Alzani e il fido maresciallo Patanò stanno però tenendo d’occhio da tempo i loschi traffici che accadono al Gran Canaria, il night club con bisca clandestina annessa, proprietà di Vandini. L’idea dei malfattori è abbindolare Giacomo approfittando del fatto che è innamorato perso di Mignon; Danza, conosce bene i meccanismi del cinema noir americano e, sebbene il racconto abbia qualche difficoltà iniziale a carburare, quando si arriva al dunque i conti tornano alla perfezione. Come tutte le dark lady che si rispettino, Mignon ha il cuore tenero e non ha affatto un’indole malvagia, sono state semmai le delusioni della vita a renderla così cinica. L’amore folle e appassionato di Giacomo risveglia la sua vera natura –anche le rosee prospettive di una vita agiata e più che benestante insieme al figlio di papà aiutano, questo va riconosciuto– e, al momento cruciale, la donna sottrae Giacomo all’inganno, scacciandolo. Qui il regista milanese si trova di fronte ad un bel problema: secondo le regole del «noir» la sorte di Mignon è segnata, ma sul Programma Nazionale –l’odierna Rai 1– alla fine degli anni Cinquanta, chiudere il film con la protagonista femminile che veniva premiata con la morte per la sua redenzione, era un tantino azzardato. Va sottolineato che il genere «noir» era visivamente stilizzato in modo deciso, uno stratagemma che permetteva agli autori di far passare scene e situazioni non del tutto abituali negli anni Quaranta. D’Anza trova quindi la soluzione in modo coerente, all’interno del genere che era servito da spunto per Jazz freddo: la scena finale, il confronto fatale tra Mignon e Vandini si vede attraverso una vetrata, come se i personaggi fossero semplici ombre. Alzani, volendo, arriva anche per tempo, ma anche lui, sebbene sia al di qua della vetrata, sembra unicamente una siluette, nel controluce che si crea: e, proprio come una figura bidimensionale, è impotente di fronte al Destino che si deve compiere per redimere completamente Mignon, vera protagonista del film. Stilisticamente un finale notevole per un racconto filmico non del tutto irresistibile, per la verità; e nel quale, la Polizia, col suo attendismo, non ci fa una gran figura.    


venerdì 11 ottobre 2024

APRITE: POLIZIA! RAGAZZE IN VETRINA

1559_APRITE: POLIZIA! RAGAZZE IN VETRINA. Italia 1973; Regia di D'Aniele D'Anza

Considerata in genere la prima serie televisiva gialla italiana, Aprite: Polizia! non gode di un particolare prestigio, anzi. Si tratta di un tentativo, da parte della TV di stato italiano, di approcciare al poliziesco e, per farlo, si scelse di una realizzazione completamente italiana: non solo regista e interpreti, il che era, al tempo, quasi ovvio, ma anche gli autori del soggetto, i personaggi e l’ambientazione sono tutti rigorosamente del Belpaese. Ed è proprio questa soluzione totalmente autarchica che viene individuata come origine del modesto risultato e della scelta operata in Rai, da lì in poi e per un lungo periodo di tempo, di introdurre sempre qualche elemento d’importazione. Già il successivo tenente Sheridan, che apparirà sui teleschermi l’anno successivo, pur se interamente italiano come prodotto, aveva un’ambientazione americana; in seguito si prenderanno sempre più spesso soggetti stranieri e angloamericani in particolare, considerati superiori per tradizione e qualità nel campo specifico della detective-story. Ma erano davvero così modesti i film televisivi per la serie Aprite: Polizia!?

Il primo episodio è ambientato in un negozio di moda e, se vogliamo essere fiscali e prendere il titolo alla lettera, in vetrina più che le commesse o le modelle della boutique, ci finisce il proprietario. Il signor Balman viene infatti trovato morto avvelenato nella vetrina del suo negozio, inizialmente scambiato per una sorta di trovata pubblicitaria delle prime due passanti che vedono l’uomo sdraiato tra i capi in esposizione, e lo scambiano per un ubriaco che faccia da bizzarro testimonial. D’Anza, in regia, mette subito una nota umoristica, successivamente delegata al maresciallo Patanò (Enzo Turco), il sottoufficiale che accompagna il protagonista della serie, il commissario Alzani (Renato De Carmine), come prevedibile più serio e risoluto. Ma eccoci al giallo: a compiere l’omicidio può essere stato solo il personale del negozio, dal momento che l’esercizio non era ancora aperto al pubblico. Il giovane Ernesto (Rodolfo Cappellini), sorta di fac-totum, non viene mai preso in considerazione come possibile indiziato e rimangono quindi unicamente le donne della storia. L’altezzosa Mirella (Luisa Rivelli) e la grintosa Adriana (Grazia Maria Spina), due indossatrici della boutique, avevano un potenziale movente: la prima aveva una relazione con il signor Balman, che cominciava a divenire opprimente e geloso della molto più giovane ragazza; la seconda era stata da poco “scaricata” dal principale, proprio quando questi si era “messo” con Mirella. In realtà, l’unica che sembra aver avuto la possibilità concreta di avvelenare il signor Balman era Elena (Leonora Ruffo), che, peraltro, oltre a non aver un motivo valido per uccidere il datore di lavoro è anche priva del nerbo necessario a compiere un simile gesto. In realtà, in questo primissimo episodio della primissima serie gialla prodotta e realizzata in Italia con personaggi italiani, ci sono due curiose eccezioni. Una è l’identità della vittima, indicata genericamente come signor Balman con la conseguente impressione che il personaggio non sia italiano ma anglofono. La seconda, ovviamente, il colpevole, o meglio, la colpevole, ovvero madame Germaine (Evi Maltagliati) che, dalla lettera di licenziamento, scopriamo chiamarsi Fisher, ovvero un altro nome straniero. In ogni caso, se il commissario Alzani può, in questa prima apparizione, destare qualche perplessità nel modo brusco in cui tratta gli indagati, la vicenda gialla imbastita da D’Anza e Giuseppe Mangione è ben costruita e, soprattutto, presenta personaggi credibili. In particolar modo la figura di madame Germaine sorprende perché, pur essendo un’assassina, dimostra una certa umanità, quando prende le difese di Elena che, messa pesantemente sotto accusa da Alzani, arriva addirittura a confessare il delitto pur essendo innocente. Ma, l’accorata difesa di Madame Germaine, oltre che un gesto compassionevole, ricorda qualcosa del classico demone della perversità di cui raccontava Poe: l’eccesso di sicurezza aveva portato la donna a prendere le difese della sua sottoposta; la stessa sicurezza che l’avrebbe poi indotta a rompere “incidentalmente” il bicchiere usato per avvelenare il titolare del negozio, celato fino a quel momento sotto un vaso di fiori. Insomma, come prima colpevole, in questa serie, c’è una donna, non più giovanissima ma pur sempre affascinante come Evi Maltagliati, che alterna slanci di umanità a passaggi degni di Edgar Allan Poe. Tutt’altro che modesto, come inizio.  

mercoledì 9 ottobre 2024

QUI SQUADRA MOBILE - SENZA DIFESA

1558_QUI SQUADRA MOBILE - SENZA DIFESA . Italia 1973; Regia di Anton Giulio Majano

L’incipit dell’ultimo episodio della prima stagione di Qui Squadra Mobile, comincia in modo traumatico: il cane Brick, a spasso per il parco con il proprio padrone, trova casualmente un cadavere di una povera ragazza. Majano non vuole però sconfessare i suoi propositi, e calma subito la tensione narrativa con una gag che coinvolge Carmelo (Giacomo Furia), l’agente che si preoccupa di portare il caffè ai commissari, e i due protagonisti principali, il capo della Mobile Carraro e quello della Omicidi Solmi. L’occasione è quella di rammentare ai telespettatori che, nonostante le condizioni di lavoro tra omicidi e assassini, e il carattere brusco, l’uomo al comando della Squadra Mobile è un appassionato d’arte – nello specifico colleziona copie dei quadri che tappezzano il suo ufficio. Una caratteristica che lo accomuna a molti altri esponenti delle forze dell’ordine del piccolo schermo, dal commissario Alzani (Renato De Carmine) di Aprite: Polizia!, al suo successore nella seconda stagione di Qui Squadra Mobile, il commissario Guido Salemi (Luigi Vannucchi) per citare un paio. Quella della passione per l’arte è un altro ingrediente che gli autori Rai sono evidentemente sempre attenti ad aggiungere, nella caratterizzazione dei poliziotti protagonisti di queste serie, per alimentarne il carisma umano, che rimane uno degli obiettivi primari di questi sceneggiati. Tornando alla trama gialla, quella trovata morta è solo una povera ragazza di campagna appena giunta a Roma dalla Sardegna, sfortuna vuole che si imbatta nelle persone sbagliate, senza avere alcuna colpa. Queste persone altro non sono che Tonino Corrias (Soko), un capellone tossico suo paesano, e Romeo Rovigati (Gianni Musy), losco gestore di un’agenzia di collocamento fittizia che serve da copertura per il traffico di stupefacenti. L’episodio si segnala anche per la manovra «insubordinata» del commissario Solmi che abbandona il gioco di squadra, che puntava ad arrivare all’assassino mediante un procedimento collettivo, affidandosi al suo istinto. L’intuizione del capo della Omicidi è giusta, tuttavia l’operazione in solitaria lo espone a rischi che, concertando l’azione con i colleghi, si potevano evitare. Insomma, alla fine perfino un tipo burbero come Carraro è costretto a fare i complimenti al suo collaboratore, che, da parte sua, promette di fare tesoro della lezione e farsi in futuro più prudente. Ma, per quel 1973, la Squadra Mobile protagonista della serie Rai, aveva finito il suo mandato. Con onore, questo è sicuro.  


lunedì 7 ottobre 2024

QUI SQUADRA MOBILE - UN'INDAGINE ALLA ROVESCIA

1557_QUI SQUADRA MOBILE - UN'INDAGINE ALLA ROVESCIA . Italia 1973; Regia di Anton Giulio Majano

“Roma è un’immensa fabbrica di disadattati” così, laconicamente, commenta la situazione il Capo della Mobile, commissario Carraro, discutendo con il procuratore Lancia, in apertura del quinto episodio. L’occasione è il ritrovamento di due cadaveri nel Tevere, di cui non si sa niente: se non si riuscirà a scoprire l’identità delle vittime, sarà impossibile risalire al colpevole. Secondo Carraro, e qui prende la motivazione la sua affermazione, si tratta di un delitto occasionale e non legato alla malavita. Come già visto in precedenza, in particolare nella seconda puntata, nella capitale il crimine non si era ancora organizzato ma questo rendeva le cose, sotto un certo aspetto, anche più difficili per le forze dell’ordine. Il che è, certamente, una provocazione, in ogni caso le indagini, in questo specifico caso, fanno subito un deciso passo in avanti grazie al puntuale lavoro della scientifica guidata da De Maria. L’identikit delle due vittime, nonostante fossero in acqua da più di quaranta giorni, è somigliante al punto che, tra le tante telefonate di mitomani, c’è quella di Agata Mainardi (Isabella Riva), un’anziana signora che imbastisce una prima gag umoristica coi due centralinisti della sala operativa del 113 (Silvio Anselmo e Mario Righetti) e poi con il commissario Argento e il maresciallo Attardi. La signora, infatti, che ha riconosciuto le due persone ritrovate nel Tevere, chiede e ottiene da Argento che questi, con la scusa dell’interrogatorio, le porti a domicilio del “polmone per i suoi gatti”. La donna, per altro –dopo essere stata cruciale per l’indagine rivelando l’esistenza della piccola Gabriella (Emanuela Rossi), ragazzina con un lieve ritardo, figlia della coppia trovata morta – cercherà di pagare l’alimento per i suoi micetti al commissario, rivelando la sua indole onesta a tutto tondo. Si tratta di un passaggio certamente secondario, sebbene riveli il dettaglio cruciale, ma la simpatica cura con cui viene gestito denota lo spirito alla base di Qui Squadra Mobile, un lavoro nel quale si cerca, oltre ad intrattenere il pubblico, di dare fiducia nelle istituzioni e, più in genere, nella società. Questo senza edulcorare il contesto: infatti l’asilo lager gestito da un guardiano (Aleardo Ward) e una direttrice (Lia Curci) a dir poco squallidi, sembra, in effetti, perfino esagerato nel senso opposto, considerato il target dello sceneggiato. Ma questo è niente: la scena in cui piccola Gabriella racconta come quello che credeva un amico di famiglia, Michelangelo (Daniele Tedeschi) –un contrabbandiere omicida, sedicente mago, nonché vero «cattivo» della puntata– si preparasse ad ucciderla, fa gelare il sangue nelle vene. L’uomo temeva che la ragazzina potesse aver visto qualcosa a proposito della brutta fine dei genitori, eliminati dal contrabbandiere, e, mentre cercava di accertarsi di questo fatto, aveva portato Gabriella nel bosco e si era già messo preventivamente a scavare. Un passaggio di forte emozione utilizzato, narrativamente, dagli autori, per riavvicinare il commissario Argento e l’investigatrice Nunziante, che avevano il compito di interrogare la piccola. Quel giorno, nel bosco, la povera giovane aveva davvero creduto all’uomo, che le diceva di scavare una trappola per conigli? Michelangelo aveva stranamente insistito, per sapere da Gabriella se aveva guardato nella serratura, quella sera in cui i suoi genitori, prima di partire, avevano urlato tanto. Naturalmente la ragazzina certe cose non le faceva ma il contrabbandiere aveva bisogno di essere sicuro. Ma, forse, aveva finito per insistere troppo, forte del fatto che Gabriella non fosse troppo sveglia? Ma la ragazzina aveva davvero questi problemi o era soltanto capitata in una famiglia non esattamente ideale per crescere? E se avesse compreso a cosa serviva la buca e non si fosse bevuta del tutto la storia della trappola per conigli? Dubbi che rimangono aleggianti sulla storia e, pur essendo atroci, sono forse la cosa migliore di questa prima stagione di Qui Squadra Mobile


sabato 5 ottobre 2024

QUI SQUADRA MOBILE - IL SALTAFOSSI

1556_QUI SQUADRA MOBILE - IL SALAFOSSI . Italia 1973; Regia di Anton Giulio Majano

Per i primi tre episodi, gli autori, preoccupati di convincere lo spettatore-cittadino della bontà complessiva dell’apparato delle forze dell’ordine, avevano dipinto uno scenario all’interno della Polizia praticamente idilliaco. I commissari, gli ispettori e gli agenti protagonisti di Qui Squadra Mobile andavano d’accordo, cooperavano con ottima sinergia e perfino il magistrato Lancia si era dimostrato una persona disponibile e collaborativa. Un quadro, come accennato, ben poco realistico e che cozzava con la pretesa di verosimiglianza della serie televisiva. L’arrivo sulla scena del Procuratore Giustolisi (Aldo Massasso) evidenzia invece le divergenze ideologiche tra la Magistratura, di matrice politica, e la Squadra Mobile, di natura più operativa. I contrasti non sono solo dialettici ma ben più profondi, in particolare tra Giustolisi e il capo della Mobile Carraro e, forse ancor più, con il sanguigno capo della Omicidi Solmi. La trama di quest’episodio si basa su un omicidio di un ricettatore, risolto grazie al solito colpo di fortuna, uno dei cliché della serie, che si concretizza in un bambino in grado di riconoscere a menadito qualunque automobile, compresa la Toyota Celica di uno dei due assassini, oltre all’utilizzo del «saltafosso» che dà il titolo alla puntata. Il saltafosso è uno stratagemma utilizzato durante gli interrogatori, in buona sostanza un bluff, con cui Solmi e i suoi colleghi riescono ad incastrare i colpevoli. Anche quest’episodio si contraddistingue per la manovra collettiva della Squadra Mobile, con i vari personaggi ormai ben definiti nelle rispettive personalità a cui basta poco per dare comunque un contributo significativo. Tra i passaggi da segnalare si può citare il clima migliorato in casa Carraro, con la figlia Laura più serena nei confronti del padre, e, di segno opposto, la crisi sentimentale tra Argento e l’ispettrice Nunziante. Una puntata tutto sommato in cui migliora la scorrevolezza della narrazione seppure l’intreccio investigativo, di per sé stesso, non scaldi eccessivamente. Comunque pienamente sufficiente.    


venerdì 4 ottobre 2024

MONDO MOVIE - AUTOPSIA DI UN GENERE, AUTOPSIA DI UN PAESE

MONDO MOVIE - AUTOPSIA DI UN GENERE, AUTOPSIA DI UN PAESE




Mondo movie, autopsia di un genere, autopsia di un paese è uno studio sugli pseudo documentari italiani nati nella scia di Mondo cane [1962, di Gualtiero Jacopetti, Paolo Cavara e Franco Prosperi]. L’utilizzo di termini presi dalla medicina è unicamente un modo per evidenziare come si intenda trattare il «genere» cinematografico in questione alla stregua di un organismo vivente; soprattutto perché la sua parabola esistenziale può sinistramente essere paragonata a quella dell’Italia. Se è possibile stabilire in modo evidente la «morte» di un tipo di film, dal semplice fatto che non ne vengano più prodotti, più difficile è verificare cosa e come può capitare qualcosa di analogo ad una nazione. Naturalmente il destino di un popolo non è oggetto di un semplice studio come questo –in pratica l’analisi di un «genere» cinematografico nemmeno tra i più stimati, per usare un eufemismo– tuttavia già evidenziare alcune analogie può essere un risultato soddisfacente (e preoccupante).     

Nel trattamento sono presi in esame oltre 140 film ascrivibili, in un modo o nell’altro, al fenomeno dei Mondo movie italiani. Per una cinquantina di essi, i più significativi, uno studio approfondito consente di tracciare un quadro generale attendibile che consenta di cogliere le analogie tra i Mondo movie e la società italiana degli ultimi cinquant’anni. 



giovedì 3 ottobre 2024

QUI SQUADRA MOBILE - UN CASO ANCORA APERTO

1555_QUI SQUADRA MOBILE - UN CASO ANCORA APERTO . Italia 1973; Regia di Anton Giulio Majano

Nel terzo appuntamento gli autori di Qui Squadra Mobile si prendono un rischio mica da ridere: al centro della scena è infatti il piccolo Paolo (Fabrizio Mazzotta), un bimbo di una decina d’anni abbandonato a sé stesso. Il pericolo, soprattutto per una serie poliziesca, è che la commozione derivante da vicende che vedano coinvolti innocenti bambini finiscano per ammosciare la tensione narrativa, finendo per svilire un racconto che fa dell’azione il suo punto di forza. Ma lo si è detto: uno degli obiettivi di Qui Squadra Mobile è mostrare il lato umano della Polizia e quindi la scelta degli autori è di un rischio calcolato. Superato in modo indenne, per altro, soprattutto grazie alla simpatica verve di Mazzotta –che, in seguito, diverrà esperto doppiatore– che, nonostante la giovanissima età, si disimpegna con sorprendente nonchalance. La presenza di un ragazzino con cui avere a che fare è il pretesto narrativo che consente alla coppia Alberto Argento –capo della Sezione Rapine– e Giovanna Nunziante –ispettrice della Polizia Femminile– di prendere il centro della scena. L’attenzione che lo sceneggiato riserva alle «donne-poliziotto», definizione che oggi farebbe inorridire gli amanti del politicamente corretto ma che al tempo si usava abitualmente, vuole probabilmente essere, negli intenti degli autori, un riconoscimento a tutte quelle agenti che cercavano di sovvertire anche un certo scetticismo nei loro confronti. In Italia, la professione di agente di polizia era aperta agli individui di sesso femminile dal 1961 e non aveva ancora una tradizione particolarmente consolidata. Con una certa dose di onesta ingenuità, Majano e i suoi collaboratori riservano alla Nunziante i compiti dove possa far valere la propria sensibilità, caratteristica che, almeno nell’immaginario comune, vede le donne essere particolarmente dotate. E anche questo, volendo vedere, rientra a pieno titolo nel tentativo di riqualificazione della reputazione della Polizia agli occhi dell’opinione pubblica che è un po’ la cifra stilistica complessiva di Qui Squadra Mobile. Tra le operazioni di cui si incarica la Squadra Mobile, per risolvere il caso al centro di questo episodio, c’è quella di rintracciare il padre di Paolo, il bambino trovato a vivere di espedienti in avvio di puntata. Un lavoro collettivo che coinvolge anche Leonello Astolfi (Gino Lavagetto), capo della Sezione Furti, e Ugo Moraldi (Giulio Platone), capo della Buoncostume. Senza dimenticare il sottoufficiale della Squadra, il maresciallo Enrico Attardi (Francesco di Federico), un personaggio un po’ macchiettistico ma che, con la sua spiccata umanità, scala posizioni su posizioni nel gradimento con l’andar degli episodi. In uno sceneggiato particolarmente avaro dal punto di vista del glamour femminile, anche comprensibilmente, considerato l’ambientazione, salta subito all’occhio la fugace presenza di un’attrice del calibro di Vira Silenti. L’elegante Vira, nei panni di «una crocierista», ci mostra amabilmente come bere tequila con sale e limone. Nel 1973, sul Programma Nazionale, l’odierna Rai Uno, in prima serata: noblesse oblige.  

martedì 1 ottobre 2024

QUI SQUADRA MOBILE - RAPINA A MANO ARMATA

1554_QUI SQUADRA MOBILE - RAPINA A MANO ARMATA . Italia 1973; Regia di Anton Giulio Majano

Il secondo episodio di Qui Squadra Mobile sembra rispondere all’esigenza di aumentare il grado di intensità del racconto come si può già intuire dal titolo, Rapina a mano armata. La puntata comincia subito con il pedale dell’acceleratore premuto, con la scena della rapina in cui gli spietati criminali non esitano a freddare uno degli impiegati. Alcuni passaggi, come le telecamere di sorveglianza dell’istituto di credito in grado di rilevare la targa dell’auto dei banditi in fuga – operazione tecnicamente all’epoca quasi impossibile – lasciano intravvedere eccessivamente uno degli scopi alla base della serie, ovvero infondere fiducia e sicurezza nelle forze dell’ordine. Non si fatica a credere che, come riportano le cronache, a collaborare ai soggetti come consulente tecnico fosse l’ex capo della Squadra Mobile di Roma Salvatore Palmieri. [Qui Squadra Mobile, secondo episodio: Rapina a mano armata, Radiocorriere TV, n. 20, 13 maggio 1973, pagina 57, Edizioni ERI, Torino]. In effetti l’enfasi con cui si sottolinea l’efficienza della Polizia, in questo episodio ma in generale nella serie, è perfino eccessiva, al punto da correre il rischio di far passare come una sorta di spot promozionale l’intera produzione. In ogni caso, la storia procede più speditamente, avendo alle spalle già la puntata precedente e, di conseguenza, i personaggi sono già stati adeguatamente introdotti. Oltre a Carraro, che tira la fila delle indagini, tra i tanti membri della squadra comincia a farsi sempre più strada l’esuberante umanità di Solmi. Anche del capo della Sezione Omicidi, interpretato da Orazio Orlando, veniamo a conoscenza della vita privata, nel suo caso incentrata quasi unicamente sul figlioletto Matteo (Francesco Baldi); Solmi è infatti rimasto vedovo e anche per lui, come per Carraro, non è semplice conciliare la vita famigliare con le esigenze professionali. Tuttavia l’attore napoletano, assecondato dal regista, ebbe carta bianca riuscendo a tratteggiare un personaggio credibile: “Non volevo ripetere i canoni”, dichiarò ad una intervista, “non volevo rifare Maigret; ho tentato di uscire fuori da certi modelli sfruttando le mie corde. Il regista Majano m’ha accordato fiducia ed il mio temperamento ha fatto il resto. Costruire un personaggio è un’impresa ardua ma eccitante; darne una connotazione attraverso i gesti, con l’intonazione della voce, penetrare i blocchi di realtà con tutte le sue parvenze, questo è quello che bisogna tentare”. [Intervista a Orazio Orlando, da Salvatore Bianco, Un napoletano che beve tè, Radiocorriere TV, n. 23, 3 giugno 1973, pagina 92, Edizioni ERI, Torino]. Il risultato è molto buono: Orlando sfrutta in modo misurato ma convincente la propria natura napoletana, intercalando l’eloquio del commissario Solmi con qualche espressione tipicamente partenopea che contribuisce nell’opera di caratterizzazione del personaggio, senza sconfinare mai nella caricatura. Curioso che anche l’attore si riferisca a Maigret come modello da evitare quando, nella serie, per ricondurlo al lavoro di equipe, Carraro più volte lo redarguisca con un perentorio “Smetti di fare il Maigret!”. In un episodio che quindi registra un passo in avanti dal punto di vista qualitativo rispetto al già positivo esordio, si possono segnalare altri due membri del variegato gruppo di protagonisti: il Procuratore Lancia (interpretato dal bravo Carlo Alighiero) è un magistrato con cui Carraro riesce ad avere una discreta sintonia. Quella delle difficoltà d’intenti tra poliziotti e magistrati sarà un tema che emergerà più avanti, nella serie e, per il momento, Lancia lascia quasi sorpresi per quanto sia accomodante nei confronti della Squadra Mobile. Una figura che non ha poi molto spazio, ma è trattato con deferenza sia dai personaggi del racconto che dal racconto stesso, è Angelo De Maria (Gianfranco Mauri), dirigente della Polizia Scientifica. La fiducia nella scienza è, in effetti, un altro compito che si era posta da sempre la Rai e che si prefiggeva anche Qui Squadra Mobile: dall’onnipresente Sala Operativa, con tanto di Cervello Elettronico interrogato con puntualità, e particolarmente attivo in questa puntata, alle analisi biologiche o balistiche dell’unità guidata da De Maria. Si è detto della consulenza tecnica alla serie di Palmieri, ex capo della Mobile di Roma, e il suo operato è perfettamente leggibile nello schema che sorregge il canovaccio dell’episodio. Nel film, viene praticamente escluso sin da subito che una rapina di tale ferocia, con un impiegato ucciso per pura crudeltà, sia opera della malavita romana, al tempo scarsamente organizzata. In effetti, l’utilizzo dei sistemi scientifici, aiuta a capire velocemente che uno dei rapinatori sia un «marsigliese» proveniente dal nord Italia. Questo passaggio narrativo fa riferimento ad un momento storico: come detto Roma, fino all’alba degli anni Settanta, era un terreno ancora relativamente vergine per la malavita organizzata. Alcuni evasi, ricercati e pregiudicati appartenenti al Milieu Marsigliese, uno dei cartelli criminali francesi, erano entrati in Italia cercando nuovi territori e, dopo aver bazzicato un po’ nel nord del Paese, erano infine approdati a Roma. Si trattava del celebre Clan dei Marsigliesi, in buona sostanza la prima organizzazione criminale attiva nella capitale italiana. Un passaggio epocale nella vita sociale italiana e averlo colto con tale puntualità e precisione è un altro segno del valore degli autori di Qui Squadra Mobile.