1538_CHIAMATA PER IL MORTO (The deadly affair). Regno Unito 1967; Regia di Sidney Lumet.
Chiamata per il morto è tratto da un libro di John Le Carré, ed esce sulla scia di La spia che venne dal freddo, che dello scrittore inglese è stata la prima trasposizione cinematografica. Alla regia è chiamato il validissimo Sidney Lumet, autore di maggior pedigree rispetto al quel Martin Ritt che aveva curato il citato precedente film tratto da Le Carré, e che pure aveva fatto un ottimo lavoro. La base fornita dai libri è infatti sicuramente ineccepibile come narrato, e ci mancherebbe: lo scrittore è un maestro della letteratura spionistica, in un versante realistico contrapposto a quello del più celebre agente segreto del mondo, ovvero lo sfavillante James Bond. La difficoltà maggiore, per questo tipo di operazioni, è che il soggetto è molto ingombrante, perché un libro può permettersi il tempo necessario ad ogni lettore, che può essere diverso per ognuno di loro. Il cinema no, ovviamente, ma deve uniformare il tutto ad un tempo di fruizione che, in rapporto alla letteratura, finisce molto spesso per essere troppo breve. Con le Carrè, almeno nel precedente film, il risultato è stato un po’ l’opposto, nel senso che il film è risultato, seppur molto bello, addirittura più lento e rarefatto del libro. In Chiamata per il morto i passaggi obbligati che il soggetto impone non sono pochi e, essendo una trama gialla, non possono essere tralasciati in sede di trasposizione perché l’intreccio verrebbe mutilato. Lumet gestisce questa situazione con mestiere, utilizza una regia piuttosto forte, con zoomate sui volti, con primi piani su espressione degli attori quasi da cinema espressionista, e poi inseguimenti, base musicale (che strizza l’occhio a qualche film di 007), insomma non si limita a riprendere in modo asettico le scene previste dalla sceneggiatura, ma le enfatizza a dovere nel renderle cinematografiche. Questo aspetto è rimarcato dalla scena del teatro, dove un attore si lamenta che senza effetti speciali (il fumo sotto un pentolone durante un rito di stregoneria) non si può recitare: un po’ come se il regista reclamasse la sua parte, ribadendo che la messa in scena cinematografica deve essere realistica ma coinvolgente e non una mera trasposizione del soggetto. Gli attori scelti sono funzionali a questa strategia: James Mason è assai credibile nel suo tormento interiore, mentre a Simone Signoret basta uno sguardo per trasmettere l’amarezza del tempo che passa, per lei più che per altri. Perfette, tanto l’ambiguo di Maximilian Schell che la simpatia di Harry Andrews nel ruolo del poliziotto in pensione. Quindi bene il soggetto, il regista, gli attori, l’ambientazione inglese: insomma, un signor film.
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