1525_GRAND PRIX . Stati Uniti 1966; Regia di John Frankenheimer.
Tre anni dopo I diavoli del Grand Prix, film di Roger Corman, Hollywood decise di puntare forte sulla stessa idea del mago di quelle produzioni economiche che, in un modo o nell’altro, riuscivano sempre a finire in attivo. Le gare automobilistiche erano terreno tutto sommato inesplorato, dal cinema, ma se Corman era riuscito a cavarsela, coi pochi mezzi a disposizione, era il caso di fare un tentativo in pompa magna. In quello specifico caso, per la verità, il lavoro di Corman non era stato così riuscito, tuttavia era evidente che l’intuizione di sfruttare il fascino del mondo della Formula 1 era ottima, non solo buona. Con un budget molto superiore, un regista giovane ma già quotato, un cast con attori affermati e una generale maggiore attenzione formale, Grand Prix si presentava come il film che doveva completare l’opera del precedente tentativo di Corman. Cosa che, almeno in parte, avvenne: Grand Prix di John Frankenheimer è un ottimo film, bello, teso, con immagini stupende. Si potrebbe anche azzardare a dire sia un capolavoro: ma solo dal punto di vista delle scene di corsa, considerato che il film migliora ulteriormente l’eccellente lavoro che caratterizzava I diavoli del Grand Prix. E, proprio come il film di Corman, l’impressione complessiva dell’opera di Frankenheimer non è del tutto equilibrata. La componente narrativa, anche qui ci sono alcuni intrecci sentimentali, non regge affatto lo spettacolo delle gare automobilistiche, nonostante i nomi coinvolti siano di primo livello. Considerato che il risultato è, seppure migliore, simile nella sua composizione al precedente, viene da pensare, a questo punto, che il fascino delle corse finisca per «distrarre» il regista che, per dare spazio alle imprese delle auto sulla pista, vada a limitare quello necessario ad un degno sviluppo narrativo delle tracce sentimentali. In effetti Frankenheimer cerca forse di porre rimedio a questa situazione e si prende il suo tempo per raccontare le vicende umane che fanno da corollario alle questioni agonistiche, arrivando ad una lunghezza complessiva dell’opera di quasi tre ore che, per la verità, risulta eccessiva, considerato il tipo di storia. Insomma, seppure sulla carta gli ingredienti sembrino di prim’ordine, poi la ricetta fatica anche stavolta e Grand Prix, pur essendo un film notevole, non raccoglie quanto ipotizzato.
Come nel caso precedente, le fantastiche vetture da corsa fanno in pieno la loro parte, grazie alle attenzioni cinematografiche messe in campo da Frankenheimer e dai suoi collaboratori. E non solo: tra i team che si misero a disposizione per le riprese spiccano Ferrari e BRM, ma anche la neonata McLaren diede un interessante contributo. La Ferrari raffigurata nel film è la 312 mentre la BRM è il modello P261; la McLaren M2B, con livrea bianco-verde «interpreta» la Yamura, una vettura fittizia ideata per l’occasione. Questi, almeno, erano i riferimenti reali, ma va detto che, in molte riprese, si utilizzarono auto di Formula 3 camuffate come Formula 1 dell’epoca, pilotate, tra gli altri, da gente del calibro di Phil Hill, Graham Hill, Jack Brabham, Juan Manuel Fangio, Nino Farina mentre il due volte campione del mondo Jim Clark interpretò sé stesso. Per i camera-car venne utilizzata una Ford GT40, una vettura della categoria Sportprototipi, che montava a bordo una cinepresa in grado di fornire immagini con la definizione della pellicola da 70 mm nel formato Cinerama, con un risultato stupefacente soprattutto se paragonato alle abituali riprese televisive dell’epoca. Il regista americano era ben consapevole dell’importanza in tal senso del suo film, al punto che rifiutò di riprendere le auto che girassero a velocità più contenuta, e quindi più sicura e controllabile, e, eventualmente, accelerare artificialmente la velocità di scorrimento della pellicola. Sapeva, Frankenheimer, che lo spettatore se ne sarebbe accordo; inoltre, l’aumento forzato della velocità aveva, sin dai tempi delle comiche del cinema muto, un effetto ridicolo che, in una corsa automobilistica, è l’ultima sensazione da ricercare.
Il fascino di questo tipo di gare è strettamente legato, inutile nasconderlo, ai rischi corsi dai piloti, tanto che esiste, ed è innegabile, una morbosa attenzione in questo senso del pubblico che è sempre pronto a scattare nel momento in cui vede le vetture schiantarsi o finire fuori pista. Anche questo aspetto fu ricercato con attenzione da Frankenheimer: si dice che egli fosse deluso dal comportamento delle comparse, che interpretavano gli spettatori e che, a suo dire, erano interessati unicamente alla pausa dove bevevano il tè. C’era da girare una scena nella quale un’auto si incendiava nei box e, per ottenere il clamore necessario del pubblico, il regista diede l’ordine di far saltare in aria proprio il furgone del tè, ottenendo, dalle comparse, a quel punto, la reazione voluta. La Formula 1 era già, in quegli anni Sessanta, sinonimo di tecnologia spinta all’estremo e il cineasta americano, per incarnare al meglio questo elemento, utilizzò innovative tecniche di ripresa: spettacolari quelle aeree, più ricercate le sovraimpressioni o gli split-screen multipli, per un risultato che immerge completamente lo spettatore nel caratteristico e variegato mondo delle corse. Allo stesso modo in cui si può godere della bellezza frutto dell’aereodinamica e della cura al dettaglio di un’auto lanciata in corsa, si può provare la paura e la fatica di guidare uno di quegli splendidi ma spesso mortali bolidi. In questo senso, la ripresa della Curva Parabolica del circuito di Monza rappresenta la massima espressione di quanto fosse pericolosa la Formula 1 dell’epoca. Il circuito di Monza, al tempo, era il vero tempio della velocità, non aveva le attuali chicanes che servono a far rallentare le auto e si arrivava nei veloci curvoni a pieno gas, con una sensazione vertiginosa apprezzabile anche dalla ripresa video. Ma questo è niente rispetto all’Anello ad alta velocità con le curve paraboliche che venivano percorse ad andature folli: una vera sfida alla morte ad ogni giro. In ogni caso, superbe anche le immagini riferite agli altri circuiti, a partire da quello di Montecarlo, dove la vicenda prende il via e che ha il suo apice in uno spettacolare incidente nel quale la BRM di Pete Aron (James Gardner) finisce la sua corsa nel Mar Mediterraneo. Molto suggestive anche le sequenze del Gran Premio di Francia a Clermont-Ferrant, d’Olanda a Zandvoort, di Gran Bretagna a Brands Hatch, degli Stati Unti a Watkins Glen, mentre al solito incantevoli i bucolici scenari dell’autodromo belga di Spa-Francorchamps, una delle piste più belle della storia dell’automobilismo. Si è citato il precedente film di Corman I diavoli del Grand Prix per la capacità di cogliere in pieno lo spirito delle corse automobilistiche con immagini mozzafiato: Frankenheimer rilanciò ulteriormente con un risultato davvero sbalorditivo, sotto questo profilo, aiutato, oltretutto, dalla puntuale e efficace musica di Maurice Jarre. E, volendo insistere nel confronto –come sempre un po’ antipatico da farsi, è vero, ma in questo caso utile perché conferma un’analogia di fondo tra i due film– anche la componente di pura finzione rappresenta un deciso passo in avanti nel film di Frankenheimer rispetto a quello di Corman. A partire già dagli interpreti: il citato Gardner non è Steve McQueen, che rifiutò il ruolo, ma è un attore solido e carismatico; Eve Marie Saint (è Louise) aveva l’algida bellezza per lasciar carburare lentamente la sua storia d’amore con Ives Montand (è il campionissimo, già due volte iridato, Jean Pierre Sarti) e, tra gli altri interpreti, meritano menzione Jessica Walter (è Pat Stoddart), Adolfo Celi (è Agostini Manetta), Antonio Sabàto (è Nino Berlini), Toshiro Mifune (è Izo Yamura), Françoise Hardy (è Lisa) e Geneviève Paige (è Madame Sarti).
Un cast così strutturato consente un rapido ma significativo omaggio ad almeno un paio di personaggi illustri del mondo dei motori: Agostini Manetta è un evidente riferimento a Enzo Ferrari, con Adolfo Celi che ha indubbiamente la stoffa per interpretare una figura ingombrante come quella del Drake; si può invece cogliere nell’indomito spirito imprenditoriale di Yamura un rimando a Soichiro Honda, il fondatore nipponico della famosa industria motoristica.
Nel citato incidente di Montecarlo, con la sua condotta di gara Pete Aron danneggia pesantemente il compagno di squadra Scott Stoddard (Brian Bedford), arrivando a fargli perdere la gara e mandandolo all’ospedale ferito in modo grave. La scorrettezza di Aron è unanimemente condannata tanto che il patron del suo team, la BRM, lo lascia a piedi; il pilota si arrangia come può, rimanendo nell’ambiente, finché trova impiego nell’emergente squadra giapponese, la Yamura. Mentre Scott è ricoverato, sua moglie Pat non sembra preoccuparsene troppo e, dopo qualche iniziale scaramuccia, incomincia a flirtare proprio con Aron. Intanto, senza i piloti titolari BRM, nei Gran Premi il francese Sarti e l’italiano Berlini, con le loro Ferrari, la fanno da padroni, e se la cavano bene anche fuori dalla pista. Sarti trova un’intesa con la giornalista americana Luoise, mentre l’esuberante Berlini sembra quasi mettere la testa a posto, frequentando Lisa. Le cose sembrano mettersi per il meglio, per i nostri piloti, ma è solo l’apparenza. Berlini è, quando non guida, inaffidabile, e con Lisa finisce presto; dal canto suo, Stoddard, oltre a cercare di riprendersi per tornare in pista, non vuole mollare la moglie Pat, che ama profondamente. La ragazza, lo ha abbandonato per evitare di soffrire a fianco di un uomo che vive nel ricordo del fratello, Roger Stoddard, campione del mondo 1958 e morto successivamente. Tuttavia, il sentimento che l’ex elegante modella nutre ora per Aron è solo un modo per colmare il vuoto nella sua sfera sentimentale. Così, Stoddard, che nella vita come in pista è un osso duro, riuscirà, almeno in ambito romantico, a spuntarla e riprendersi la bella Pat.
Da parte sua Aron è un personaggio ambiguo, forse anche per le caratteristiche di James Gardner come interprete: non poteva essere una figura secondaria, per via della presenza scenica, ma mancava della verve necessaria ad un vero leader. Anche la storia tra Jean Pierre e Louise, che sembra quella meglio imbastita, ha la sua amara sorpresa: il campione francese, in effetti, era già sposato ma con la moglie divideva unicamente gli affari economici e Madame Sarti non assisteva mai alle sue corse. Quando la bella Monique si palesa alla vigilia di Monza, non è certamente il migliore portafortuna, anche in virtù della presenza, accanto a Jean Pierre, di Louise. La componente tragica delle gare si era già manifestata, come detto sin dall’apertura con l’incidente tra Aron e Stoddard con questi che era finito all’ospedale. Ma la fine della stagione agonistica, che scorre in contemporanea al film, sarà anche peggio: sotto la pioggia, durante il Gran Premio del Belgio, Sarti perde una ruota e finisce con la sua Ferrari fuori pista, investendo due giovani spettatori lasciandoli sul terreno. La sicurezza delle macchine e dei circuiti era ben poca cosa, se paragonata a quella di oggi, per quanto anche ora lo sport motoristico sia comunque pericoloso; ai tempi, tuttavia, le gare erano una vera roulette russa. Monza, con la sua pista ultraveloce e il citato Anello ad alta velocità, era l’apice del rischio: non a caso, è proprio sulla curva parabolica che succede l’irrimediabile. La Ferrari raccoglie un detrito di una vettura che la precedeva e parte per la tangente, volando letteralmente fuori dalla pista incendiandosi spaventosamente appena ripiombata al suolo. Sarti, per lo meno, evita di finire arrosto, essendo sbalzato fuori dall’abitacolo, ma il suo destino è ormai segnato. Del resto si erano avuti alcuni inequivocabili indizi narrativi in tal senso: l’inusuale presenza della moglie alla corsa, il suo innamoramento con Louise che lo rendeva vulnerabile, oltre al turbamento che gli aveva lasciato la morte dei due spettatori in Belgio. Anche nell’incidente viene rispettata la credibilità delle gare: il rischio di finire bruciati vivi era infatti il più temuto e i piloti non utilizzavano le cinture di sicurezza per velocizzare i tempi nell’abbandonare la vettura in condizioni critiche.
La tragedia sul circuito di Monza infiamma il finale del film, la pur glaciale Eve Marie Saint dà sfoggio di un passaggio intenso e drammatico eppure, proprio sul piano del pieno coinvolgimento emotivo, Grand Prix non riesce a chiudere degnamente il cerchio. Se Corman, infatti, era un regista che badava al sodo, Frankenheimer aveva uno stile tecnicamente impeccabile, ma era carente come il collega in materia di pathos sincero. Il film vinse tre premi Oscar, non a caso di natura prettamente tecnica –montaggio, sonoro, e montaggio sonoro– per un risultato di cui il regista era particolarmente soddisfatto. Ciò che inorgogliva principalmente Frankenheimer era che fosse tutto terribilmente reale: la fotografia di Lionel Lindol documentava vere auto in corsa e non modellini o ricostruzioni in qualche modo posticce; per gli incidenti, il tecnico degli effetti speciali Milton Rice si era poi inventato uno speciale «cannone all’idrogeno» che «sparava» le vetture a 200 km orari, con risultati stupefacenti. Una confezione talmente realistica da sembrare quasi un documentario sulla Formula 1. In cui, la parte romanzata, che costituisce comunque una fetta piuttosto ingombrante, finisce per esserne, a quel punto, d’impiccio più che un valore aggiunto.
Eve Marie Saint
Jessica Walter
François Hardy
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