1527_SENNA . Regno Unito, Stati Uniti, Francia 2017; Regia di Asif Kapadia.
Ci sono sportivi per i quali è difficile comprendere
cosa li renda, agli occhi di pubblico e addetti ai lavori, davvero unici e
speciali: tra i non tantissimi, giusto per fare qualche esempio, si possono
citare Diego Armando Maradona nel calcio, Roger Federer nel tennis, Valentino
Rossi nel motomondiale. E naturalmente, Ayrton Senna nella Formula 1,
personaggio a cui è dedicato il film documentario Senna di Asif Kapadia.
Già il fatto che un cineasta inglese di origine indiana si prenda la briga di
dedicare una sua opera ad un pilota brasiliano, la dice lunga
sull’internazionalità di Ayrton, che era beneamato ovunque per il globo. Certo,
in Brasile, e nel film la cosa è ribadita a più riprese, Senna era ben più che
una bandiera, e in questo senso l’aurea che l’accompagnava travalicava l’ambito
sportivo, tanto che si potrebbero scomodare anche altri paragoni, che possono
andare da Che Guevara a Elvis Presley. Del resto siamo di fronte ad un
personaggio che, più volte in carriera, dirà di essersi avvicinato a Dio. Il
che potrebbe forse aiutare a spiegare il motivo per cui Senna era amato da
tutti, non solo dagli appassionati di corse automobilistiche; e, a conferma di
ciò, nel suo paese egli raccolse un consenso che aveva caratteristiche
messianiche. La cosa è quantomeno curiosa perché quando Ayrton arriva in
Formula 1, Nelson Piquet, pilota anch’esso brasiliano, vince il suo secondo
titolo mondiale a cui ne succederà un terzo prima che Senna riesca nell’impresa.
Questo per dire che Ayrton non fu certo il primo a dare lustro al palmares
verdeoro nella massima categoria automobilistica: c’era stato in precedenza
Emerson Fittipaldi e, come detto, Piquet negli anni Ottanta era ancora in attività
ed era un’autentica leggenda automobilistica. Tuttavia il favore popolare che
aveva Nelson, vincente, simpatico, carismatico, era irrisorio se paragonato a
quello di Ayrton.
Il motivo per cui Ayrton piaceva, probabilmente, è il più ovvio: era il più forte. Le interviste ai brasiliani di ogni età, sesso o categoria, che, nel film di Kapadia, assicurano questo o quel motivo socialmente profondo per spiegare il fascino di Ayrton –facendo spesso, ad esempio, riferimento al riscatto che un pilota vincente offriva ad un popolo al tempo martoriato dalla povertà– sono piacevoli da ascoltare, ma assai poco convincenti. Come detto, anche Piquet, a quel riscatto avrebbe contribuito, ma Nelson, che pure era un pilota formidabile, non ha mai dato, in carriera, l’idea di una supremazia tanto netta sui rivali come invece fece Senna. E, di conseguenza, mai ebbe il suo seguito. Inoltre, Senna era amato in maniera cieca e quasi inspiegabile anche fuori dal Brasile, persino in Italia dove l’essere stato sempre avversario della Ferrari, non lo poneva certo in un’ottica favorevole, almeno in linea teorica. In una simile situazione, è quasi superfluo andare a controllare se il regista Asif Kapadia sia stato un fan di Ayrton; in ogni caso, il suo film ha i caratteri dell’agiografia, del resto per un personaggio come Senna è quasi inevitabile. Probabilmente, per scongiurare questa sensazione, viene dato molto spazio ad Alain Prost, l’acerrimo rivale che contese più di un titolo mondiale al brasiliano, con situazioni davvero sopra le righe che rimasero nella Storia della Formula 1. I campionati decisi all’ultima o penultima gara, con il pilota più avanti in classifica che scaraventava fuori il rivale per togliergli la possibilità di superarlo in classifica, sono pagine a loro modo epiche della fine degli anni 80, ma anche profondamente scorrette oltre che pericolosissime. È molto interessante, nel film, la figura di Jean-Marie Balestre, patron assoluto della Formula 1 dell’epoca, amico di Prost e accusato da Senna –e indirettamente anche da Kapadia che ne asseconda le istanze– di complotti per favorire in ogni modo il Professore, come era chiamato il pilota francese. In effetti, già a Montecarlo, nel 1984, Prost era stato per così dire «salvato» dai giudici di gara, che, appena al trentunesimo dei settantasette giri previsti, avevano interrotto la corsa. Il pilota francese, in quel momento leader sulla pista a bordo della formidabile McLaren TAG Porsche, aveva quindi ottenuto la vittoria, a discapito del giovanissimo Ayrton Senna che stava recuperando a tutta birra con una assai poco competitiva Toleman Hart.
Sotto il diluvio che inondava il principato quel pomeriggio, difatti, l’auto contava relativamente e Ayrton mise in luce tutto il suo talento. In quel 1984, nonostante il campionato fosse ancora all’inizio, si era già in parte intuito l’enorme potenziale della McLaren motorizzata Porsche e, nella lotta per il titolo, Prost conduceva la classifica iridata con sei punti di vantaggio sul compagno di squadra, Niki Lauda. A Montecarlo, con l’austriaco fuori gioco, Prost aveva la possibilità di incrementare il distacco; Senna, che era partito nelle retrovie ed era un esordiente, quando le condizioni della pista peggiorarono, divenne per il Professore una variabile fastidiosa. Alla maniera in cui guidava Ayrton, nonostante Monaco fosse un Gran Premio in cui era assai arduo superare gli avversari, il francese non sembrava avere chances di resistergli. La decisione della direzione della corsa, presa dall’ex pilota Jacky Ickx, fu salutata come salvifica, da Alain, mentre Ayrton si vedeva negata una possibile prima vittoria in F1 davvero insperata, considerato il mezzo che aveva a disposizione. Del resto il Principato di Monaco, seppur indipendente, si trova immerso in territorio francese e, considerata la crescente influenza di Balestre nella Formula 1, la cosa destò non pochi sospetti. In realtà, e a testimonianza di come le corse siano imponderabili anche a livello di campionato stagionale, la scelta di Ickx finì per danneggiare Prost, seppure sul momento sembrò semmai favorevole al francese, avendogli salvata la vittoria interrompendo la gara prima del prevedibile sorpasso di Senna. Perché, con soli trentun giri compiuti, la corsa finì per avere un punteggio ridotto e Prost incamerò quattro punti e mezzo, la metà dei nove previsti per il vincitore.
Purtroppo per lui, a fine campionato, Lauda vinse il titolo per mezzo punto di vantaggio; se Prost avesse finito la gara di Montecarlo, anche finendo secondo –superato come prevedibile da Senna– avrebbe preso i sei punti destinati alla piazza d’onore e vinto il mondiale a fine anno. Congetture, d’accordo, ma servono per comprendere come, volendo forzare le interpretazioni, si possono fare tantissime ipotesi, anche affascinanti o stimolanti, ma spesso la realtà potrebbe essere più semplice. Ad esempio, nel film, dopo aver dato il giusto spazio alla vittoria mancata da Senna a Montecarlo, si passa al periodo successivo, con il brasiliano al volante della Lotus, e si arriva presto al 1988. L’approdo di Ayrton in McLaren sarà caratterizzato dalla rivalità con Prost che ci mette davvero poco ad accendersi. Stranamente, il documentario di Kapadia tralascia quello che fu, almeno a detta di Prost, l’innesco di un’aperta ostilità senza riserve tra i due piloti McLaren, il Gran Premio di Portogallo di quella stagione. Niente di drammatico, sia chiaro, Senna aveva una prepotenza nella guida che Prost non ha mai avuto e forse, in quel caso, il brasiliano si spinse un po’ troppo oltre al consentito da quel codice cavalleresco che, del resto, in carriera mai si è curato di rispettare. Che la pellicola di Kapadia trascuri lo screzio dell’Estoril è anche comprensibile, ma solo se la si ritiene un’opera agiografica; diversamente gli andava dato il giusto risalto, essendo il primo vero battibecco di pista tra i due galletti alle dipendenze di Ron Dennis, al tempo, boss della McLaren. Per quella stagione il film Senna si limita a mostrare qualche intervista tra i due rivali e, per questioni di pista, punta più che altro dritto sull’appuntamento decisivo a Suzuka. Nel quale il brasiliano, dopo aver fatto spegnere l’auto al via, vanificando così la pole position, si era ben riscattato trionfando in gara e nel mondiale.
Questa è l’occasione in cui Senna dichiarò esplicitamente di aver visto Dio, dopo il precedente accenno in seguito all’errore di Montecarlo, e, al di là delle questioni mistiche, fu una gara condotta magistralmente dal brasiliano, pasticcio alla partenza a parte. Successivamente Kapadia asseconda in tutto e per tutto le lamentele di Senna, che accusò pesantemente Balestre di favorire Prost: in Giappone, l’anno successivo, il brasiliano venne squalificato –e il mondiale andò a Prost– mentre nel 1990, sempre nella gara decisiva a Suzuka, Senna avrebbe voluto che fosse cambiato lo schema della griglia di partenza. Senna sollevò un problema comprensibile: curiosamente, nel Gran Premio giapponese, chi registrava il miglior tempo nelle prove si trovava a partire dal lato sporco della pista; il che non era propriamente un vantaggio, per via degli pneumatici che, per scattare prontamente, necessitavano della massima aderenza sull’asfalto. Se Ayrton aveva le sue ragioni, va detto che era consuetudine di Suzuka che la Pole Position avesse tale posto sulla griglia di partenza; una modifica all’ultimo dello schema delle vetture al via era una richiesta inconsueta e forse nemmeno prevista dal regolamento. Fatto sta che Senna si convinse che fosse l’ennesima manovra del «Sistema», capitanato da Balestre, per favorire Prost, e si sentì autorizzato ad agire di conseguenza, speronando Prost alla partenza e mettendosi in tasca il titolo mondiale. Secondo il documentario di Kapadia, Senna agì a malincuore, e questo sarebbe confermato dal «linguaggio del corpo» del pilota brasiliano e da altri dettagli. Più prosaicamente, l’impressione è che Senna non avesse alcuno scrupolo cavalleresco, a differenza di Prost –che forse aveva semplicemente maggiore prudenza– quanto alle influenze del «Sistema» è fuori di dubbio che vi fossero, ma che fossero tutte a vantaggio del suo rivale e contro di lui, che era il beniamino e il principale polo d’attrazione della Formula 1, è, se non difficile da credere, quantomeno curioso.
Ma non secondo Kapadia e i tanti fan di Senna. In ogni caso, l’episodio di Suzuka nel 1990 è un fatto che non ha eguali nella storia della Formula 1, e, dando credito alle convinzioni del complotto contro il brasiliano, il film Senna ne conferma l’assoluta gravità. Spesso i piloti di Formula 1, sotto pressioni psicologiche e fisiche, nella concitazione del momento, hanno compiuto sgarbi profondamente scorretti. Lo stesso Prost nella stagione 1989, sempre a Suzuka, oppure, in seguito, Michael Schumacher che, quando vide la male parata, non esitò a tamponare intenzionalmente il malcapitato di turno, Damon Hill o Jacques Villeneuve. Paiono, in ogni caso, gesti istintivi, dettati dalla situazione che si concretizza in quell’istante; una reazione violenta e inaccettabile, ad una svolta inattesa e contraria alle aspettative del pilota. Tutt’altra faccenda è quella di Ayrton a Suzuka 90, laddove la sua scorrettezza fu ampiamente premeditata, «giustificata» dai, veri o presunti, torti orchestrati dal Sistema a suo danno, confortata anche dai media non solo brasiliani. Purtroppo, non è una pagina edificante, a carico di Senna, ma non sorprende affatto che il film di Kapadia sorvoli opportunisticamente su questa riflessione.
Il documentario si chiude mestamente, con la terribile scena dell’incidente mortale di Ayrton nel maledetto Gran Premi di Imola del 1994. Impossibile non avere il magone quando assistiamo al lungo «camera car» che anticipa il momento fatale.
Oltretutto, quel week end imolese fu davvero funesto e il clima, in coda al documentario, si fa via via sempre più cupo. Nel racconto di Kapadia siamo giunti quindi a Imola, 1994, uno dei peggiori Grand Prix della Storia della Formula 1: già al venerdì Rubens Barrichello volò fuori pista a bordo della sua Jordan riportando gravi lesioni, tra cui la rottura di un braccio e del naso oltre ad una parziale amnesia. Il giorno successivo andò assai peggio a Roland Ratzenberger alla cui Simtek cedette l’alettone anteriore ad oltre 300 chilometri orari. Le conseguenze del tremendo impatto furono purtroppo fatali al pilota austriaco. Era dal 1986 che un conduttore di Formula 1 non moriva sulla pista, da quando Elio De Angelis aveva perso la vita durante alcuni test sull’autodromo del Paul Richard, in Francia. Nel documentario si fa cenno al fatto che, nel 1994, furono abolite tutte le sofisticazioni elettroniche che permettevano il controllo automatico delle vetture: l’ipotesi potrebbe essere che, in tali condizioni, le auto, meno stabili, mettessero più facilmente a nudo le debolezze costruttive. Sia come sia, il tragico week end del Gran Premio di Imola 1994 era tutt’altro che concluso. Alla partenza della corsa, la Benetton di J. J. Lehto rimase impiantata sulla griglia, scansata prontamente dalle vetture retrostanti. Pedro Lamy, partito in ventiduesima posizione, arrivò già ben lanciato alla posizione di Letho, ancora fermo in terza fila, non lo vide per tempo e lo tamponò violentemente. La sua Lotus, sfondato il retrotreno della Benetton, si fermò dopo un centinaio di metri, inondando la pista e gli spalti di detriti. I piloti se la cavarono con poche contusioni, uno spettatore finì in coma per qualche giorno e, in totale, nel pubblico, si contarono nove feriti.
Ma, come noto, il calvario imolese non era ancora finito.
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