1529_RUSH . Stati Uniti 2013; Regia di Ron Howard.
In qualche spunto, Ron Howard è un regista di primissimo rango; nel
complesso, poi, sembra sempre mancargli quel pizzico per essere annoverato tra
i veri maestri di Hollywood. Chissà, forse in futuro la sua arte si farà
maggiormente strada, nell’analisi ai suoi film; per ora rimane un po’
imbrigliata nella sua diligente attenzione formale. Eppure, l’idea di dare concretezza
cinematografica alla rivalità tra Niki Lauda e James Hunt, piloti di Formula 1
degli anni Settanta, è, a dir poco, geniale. Forse, i problemi –se vogliamo
chiamare così i limiti che poi l’opera denota– nascono già dalla scelta di
prendere come base di partenza la sceneggiatura di Peter Morgan: lo script
dell’autore britannico si inserisce nella consuetudine dei suoi precedenti
lavori, enfatizzando i fatti storici e raccontando scontri tra personalità
opposte. A prima vista, uno stile come quello di Howard sembra particolarmente
congeniale a questo tipo di soggetti: Rush, risultato in questo caso di tale
connubio, è infatti un’ardente rilettura di alcuni eventi dell’età dell’oro
della Formula 1. Un film che si consuma rapidamente sullo schermo nonostante le
oltre due ore di durata, ma, di contro, lascia tutto sommato poco nello
spettatore. È un po’ il limite di Howard –e forse anche di Morgan– che fatica a
cogliere davvero nel segno, a lasciare una traccia indelebile, nonostante i
suoi film siano in genere formalmente ottimi. Come Rush, appunto.
Il cinema, dopo i suoi approcci negli anni Sessanta, aveva lasciato perdere il mondo delle corse automobilistiche, affrontato quindi molto raramente e con prospettive laterali, si veda Un attimo, una vita di Sidney Pollack [Bobby Deerfield, 1977] a titolo d’esempio. Il film di riferimento, per le gare in automobile, era ancora Grand Prix di John Frankeheimer, risalente al 1966; in seguito, solo Le 24 ore di Le Mans, [Le Mans, 1971] regia di Lee H. Katzin –che aveva diligentemente osservato le disposizioni di Steve McQueen– era riuscito ad avvicinarcisi. Il problema, già emerso con l’archetipo I diavoli del Grand Prix [The young racers, 1963] di Roger Corman, era la gestione del doppio binario narrativo: da una parte la componente agonistica che andava bilanciata da quella sentimentale dei personaggi.
Il cinema, dopo i suoi approcci negli anni Sessanta, aveva lasciato perdere il mondo delle corse automobilistiche, affrontato quindi molto raramente e con prospettive laterali, si veda Un attimo, una vita di Sidney Pollack [Bobby Deerfield, 1977] a titolo d’esempio. Il film di riferimento, per le gare in automobile, era ancora Grand Prix di John Frankeheimer, risalente al 1966; in seguito, solo Le 24 ore di Le Mans, [Le Mans, 1971] regia di Lee H. Katzin –che aveva diligentemente osservato le disposizioni di Steve McQueen– era riuscito ad avvicinarcisi. Il problema, già emerso con l’archetipo I diavoli del Grand Prix [The young racers, 1963] di Roger Corman, era la gestione del doppio binario narrativo: da una parte la componente agonistica che andava bilanciata da quella sentimentale dei personaggi.
Corman aveva privilegiato la resa
scenica delle gare, lasciando le beghe umane in secondo piano; una scelta che
Frankenheimer aveva ulteriormente enfatizzato. Tutto sommato i risultati
avevano pagato, ma forse non come ci si aspettava. Per il citato film del 1971
ambientato a Le Mans, John Sturges, regista designato in origine, pensava di
mettere in risalto la storia romantica; McQueen era di avviso opposto e impose
la sua scelta. Risultato: Le 24 ore di Le Mans è un ottimo film, ma fu
un fiasco al botteghino e, in ogni caso, non solo non riuscì a far compiere
definitivamente il salto di qualità al genere sportivo di stampo motoristico,
ma perse terreno anche nei confronti del film di Frankenheimer. A quel punto,
l’impresa dovette sembrare proibitiva, e le corse automobilistiche rimasero un elemento
di contorno, quando furono chiamate in causa dal cinema, ma raramente al centro
della scena. Fino al 2013 quando Morgan e Howard approfittarono della
stimolante rivalità tra Hunt e Lauda per riportare la Formula 1 sul grande
schermo. Howard, che ha un ottimo fiuto per il casting, scelse gli interpreti
adeguati: Chris Hemsworth, tipico fusto hollywoodiano e al tempo in rampa di
lancio, è Hunt; Daniel Brühl, attore dal solido curriculum, è Lauda; Oliva Wilde è la bellezza
mozzafiato ideale tanto per dare corpo alla modella Suzi Miller, che a mettere
il giusto pepe rosa al film. Hunt e Lauda sono due piloti agli antipodi: il
primo è uno sciupafemmine dotato di talento geniale anche in pista; il secondo unisce
alle innate capacità tecniche, una volontà e un’abnegazione al lavoro da vero
stakanovista.
La rivalità comincia dalle formule minori e si amplifica quando i
due piloti arrivano, con modalità differenti, in Formula 1. Entrambi sono di rango
benestante, ma non hanno l’appoggio delle rispettive famiglie; Lauda, grazie ad
un prestito bancario, si paga un sedile nella scuderia britannica BRM per la
stagione 1973. Nel frattempo, l’istrionico titolare della scuderia di Hunt,
Lord Hesketh (Christian McKay), decide di regalare al suo pupillo la
possibilità di gareggiare nella massima formula. Il che sembra una sparata
tipica del personaggio, un uomo d’altri tempi che si diletta a fare
l’aristocratico, ma la Hesketh 731, derivata da una March, nelle mani di Hunt
comincia a raggranellare punti nel campionato mondiale. Assai più di quanti ne
faccia Lauda con la BRM che deve quindi assistere, impotente, il suo rivale
festeggiare addirittura sul podio, sfiorando la vittoria. Il colpo di scena che
ribalta la situazione è dovuto all’intercessione del compagno di scuderia di
Niki, Clay Regazzoni (Pierfrancesco Favino): nonostante l’austriaco non sia
certo un tipo amichevole, lo svizzero ne riconosce la grandissima capacità di
messa a punto della vettura, e convince la Ferrari, suo prossimo team, ad
ingaggiare anche Lauda. Per Hunt, che è rimasto alla Hesketh, scuderia di
secondo piano, assistere all’ascesa del rivale che, in un top-team come la
Ferrari, può cogliere le prime vittorie, è davvero frustrante. E se, l’anno
successivo, anche Hunt riesce a vincere il suo primo Gran Premio, Lauda si erge
a dominatore indiscusso del campionato, surclassando perfino Regazzoni che
l’aveva voluto al suo fianco nella scuderia di Maranello. La situazione per
l’inglese, già critica, peggiora, allorché lo svampito Lord Hesketh si rende
conto che l’avventura in Formula 1 gli ha praticamente prosciugato il pur
cospicuo conto corrente: è la bancarotta per il team e Hunt si ritrova a piedi.
James è disperato, quand’ecco che gli capita un colpo di fortuna: Emerson
Fittipaldi abbandona le corse, lasciando vacante il sedile sulla sua McLaren, una
scuderia di punta con la quale aveva vinto il titolo iridato nel 1974. Il 1976
si presenta come la stagione della sfida decisiva: ora tutte e due i piloti
hanno vetture competitive. Nonostante Hunt sia velocissimo, Lauda sembra
imbattibile e accumula punti di vantaggio. Fino a questo momento, tutto
sommato, le vicende raccontate hanno avuto una discreta attinenza storica; ora
che si entra nel vivo del racconto, il lavoro di Morgan in sede di
sceneggiatura si fa più rilevante.
In occasione del quarto appuntamento, in
Spagna, Hunt vince ma viene squalificato, stando a Rush, per un reclamo
pretestuoso da parte della Ferrari; in seguito, a ribadire le ragioni del team
inglese, la squalifica verrà revocata. Difficile, in ogni caso, stabilire chi
avesse ragione, perché nel mondo delle corse, spesso, il potere politico pesa
più delle attinenze meramente tecniche. Quel che è certo è che, in questo
passaggio si può cogliere la volontà, da parte degli autori, di riservare alla
Ferrari il ruolo di «cattiva»,
come da tradizione, almeno per quel che concerne la narrazione sul grande
schermo. Del resto, seppure il film verta sulla rivalità tra i due piloti, se
c’è una prospettiva privilegiata, nel racconto di Morgan e Howard, è quella di
Hunt; per averne conferma, basta guardare i manifesti. James è il bello e
dannato; Niki il primo della classe antipatico e spocchioso. E non solo: quando
Hunt non vince, la colpa è della Hesketh poco competitiva, della crisi con la
moglie Suzi, che se la intende con Richard Burton o delle modifiche che la
McLaren è stata costretta a fare a causa dei cavillosi reclami della Ferrari.
Una serie di problemi assai concreti che rendono umano il campione inglese. Lauda,
al contrario, è il perfetto villain: quando può, vince, al punto da sembrare imbattibile
ed imperturbabile. Ad esempio, la sua storia d’amore con Marlene (Alexandra
Maria Lara), a differenza del rapporto tra James e Suzi, non intralcia la sua
inarrestabile avanzata. Eppure sarà proprio Lauda a compiere l’evoluzione più
significativa, sul letto d’ospedale. Ma andiamo con ordine: siamo al Gran
Premio di Germania, al famigerato e pericolosissimo Nürburgring e Lauda ha
un’infinità di punti di vantaggio in classifica. Ha piovuto, in Germania, ma forse
la pista si sta asciugando e il circuito, già insidioso anche per via della
lunghezza di oltre 20 km che rende difficoltosi gli eventuali soccorsi, in
queste condizioni è una vera trappola. In prima fila Lauda e Hunt, marcandosi
vicenda, optano per le gomme da bagnato; Mass, compagno di Hunt alla McLaren, è
tra i pochi ad osare le slick, i pneumatici da asciutto, una scelta che si rivela
subito vincente.
Nella bagarre che segue al primo giro, con i box intasati dal
traffico per un inusuale cambio gomme immediato, Lauda rimane attardato e
riparte come una furia. Nel briefing prima della gara, aveva chiesto
l’annullamento della corsa, per via delle condizioni meteo. Qualcuno, nella
sala gremita di piloti, aveva ironizzato sul fatto che avesse paura; nonostante
il vantaggio in classifica, perdere malamente avrebbe dato credito a quelle
voci. Al Bergwerk, il punto più lontano dai box, e quindi dai soccorsi, la sua Ferrari
312 T2 tocca il cordolo, sbanda paurosamente, si schianta contro il guardrail e
ripiomba in pista in fiamme. Sopraggiungono altre vetture che, non riuscendo ad
evitarla, la colpiscono violentemente; Lauda è nell’abitacolo e sta bruciando
vivo, nonostante la tuta ignifuga. Viene comunque tratto in salvo, rimanendo
ustionato pesantemente in volto, per tutta la vita. Mentre è all’ospedale, in
condizioni disperate, grazie al supporto della moglie Marlene, comincia
lentamente a rimettersi ma la sua ripresa subisce una brusca accelerata quando
vede Hunt vincere i Gran Premi restanti nella stagione, insediando il suo
primato in classifica. Non è, però, questa l’evoluzione di Lauda di cui si
accennava: questo semmai è l’apice del suo agonismo, del suo esasperato
desiderio di competizione che da sempre lo caratterizzava. Dopo soli 42 giorni
dall’incidente, per difendere il suo primo posto nella graduatoria mondiale,
contro ogni aspettativa, logica e buon senso, Niki Lauda si presenta al via del
Gran Premio di Monza: dopo le iniziali difficoltà, riesce a piazzarsi quarto
mentre Hunt è costretto al ritiro. Le cose sembrano rimettersi al meglio per
l’austriaco della Ferrari. In Rush, dopo questa svolta positiva per
Lauda si passa subito all’ultima gara, in Giappone; nella realtà, prima
dell’appuntamento al circuito del Monte Fuji, c’erano state due corse, dove
Hunt aveva fatto bottino pieno e Lauda faticato. In ogni caso, tanto negli
almanacchi che nel film di Howard al via del Gran Premio del Giappone l’inglese
è a soli tre punti dal primo posto dell’austriaco. Piove, sul circuito del
Monte Fuji, e, da perfetto eroe hollywoodiano, Hunt, vorrebbe lasciar perdere
corsa e campionato. Nel briefing al Nürburgring era stato proprio lui a
condizionare gli altri piloti, e ad indurli a votare per correre, contro il
parere di Lauda. Naturalmente, la gara si disputerà, e la colpa, in questo
caso, è del Sistema: nello specifico del fatto che l’evento è stato venduto a
troppe televisioni sparse in tutto il mondo; impensabile rimborsarle tutte. Al
via, Hunt balza al comando, tallonato da Lauda, immerso nella scia d’acqua
dell’inglese; alla fine del primo giro, l’austriaco si ritira, ritenendo le
condizioni della pista eccessivamente rischiose. Stando alle storiche
dichiarazioni, e alle cronache, ci furono molti fattori, da tenere in
considerazione; di tutto quanto ciò, Howard e Morgan tengono in sostanza
solamente l’onestà di Lauda che rifiuta l’offerta del responsabile tecnico
della Ferrari, Mauro Forghieri (Vincent Riotta) di attribuire ad un guasto
elettrico il motivo del ritiro.
L’immagine di Marianne, che si palesa davanti
al casco di Lauda, sommerso dalla pioggia durante l’unico giro disputato
dall’austriaco, è, naturalmente, farina del sacco degli autori, e serve a
giustificare narrativamente la coraggiosa scelta del pilota Ferrari, sebbene
non sia necessariamente del tutto campata in aria. Hunt, dopo qualche
incertezza sull’ordine d’arrivo, fatto curiosamente storico, si ritrova terzo,
risultato che gli permette di vincere il titolo. L’italiana Ferrari è
sconfitta, si veda anche il sorpasso decisivo di Hunt a Regazzoni, compagno di
squadra di Lauda, nel finale; gli inglesi, pilota e vettura, hanno vinto, e,
per un film americano, missione è quindi compiuta. Il pistolotto finale, non è
che la conferma di questa impostazione: Hunt è il cavaliere, che sfida la morte
e la irride, solo per battere il rivale. Lauda, l’austriaco –comunque l’area è
germanica– è il freddo professionista che calcola le percentuali di rischio e si
rode nell’invidia guardando l’avversario vincere.
Pur essendoci moltissimi rimandi alla realtà, Rush è penalizzato da quest’uso smodato dei luoghi comuni angloamericani, si veda la stereotipata descrizione dell’Italia, che è lo specchietto tornasole della caratura artistica degli autori. La vicenda umana è forte, perché gli eventi reali lo erano, ma è trattata in modo superficiale e solo la stilizzazione visiva dell’opera attenua il fastidio derivante. Proprio la scelta formale, nella messa in scena delle corse, è l’aspetto più convincente del film: le scene non ricercano il realismo alla Grand Prix, piuttosto oscillano tra l’iperrealismo e una rappresentazione fortemente stilizzata della realtà. L’insistenza sui dettagli, le vibrazioni, il rumore, e soprattutto, le gare decisive sotto l’acqua, al Nürburgring o al Monte Fuji, con i cieli plumbei, le nubi scure ed incombenti, la pioggia a confondere ogni cosa: le corse, in Rush, sono un inferno dantesco.
Nel complesso, come i film sulle gare automobilistiche che l’hanno preceduto, nemmeno quello di Howard e Morgan è un vero capolavoro. Ma con il suo iperrealismo stilizzato, potrebbe fungere da utile indizio, per riuscire finalmente a trovar l’alchimia giusta per rappresentare in modo adeguato il fantastico mondo della Formula 1 al cinema.
Pur essendoci moltissimi rimandi alla realtà, Rush è penalizzato da quest’uso smodato dei luoghi comuni angloamericani, si veda la stereotipata descrizione dell’Italia, che è lo specchietto tornasole della caratura artistica degli autori. La vicenda umana è forte, perché gli eventi reali lo erano, ma è trattata in modo superficiale e solo la stilizzazione visiva dell’opera attenua il fastidio derivante. Proprio la scelta formale, nella messa in scena delle corse, è l’aspetto più convincente del film: le scene non ricercano il realismo alla Grand Prix, piuttosto oscillano tra l’iperrealismo e una rappresentazione fortemente stilizzata della realtà. L’insistenza sui dettagli, le vibrazioni, il rumore, e soprattutto, le gare decisive sotto l’acqua, al Nürburgring o al Monte Fuji, con i cieli plumbei, le nubi scure ed incombenti, la pioggia a confondere ogni cosa: le corse, in Rush, sono un inferno dantesco.
Nel complesso, come i film sulle gare automobilistiche che l’hanno preceduto, nemmeno quello di Howard e Morgan è un vero capolavoro. Ma con il suo iperrealismo stilizzato, potrebbe fungere da utile indizio, per riuscire finalmente a trovar l’alchimia giusta per rappresentare in modo adeguato il fantastico mondo della Formula 1 al cinema.
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