1524_I DIAVOLI DEL GRAND PRIX (The Young Racers). Stati Uniti 1963; Regia di Roger Corman.
La Formula 1 è, a tutt’oggi, un enorme business e certamente qualcosa di rilevante dal punto di vista sportivo; è però evidente che il fascino dei suoi gloriosi tempi andati –dal pionierismo degli anni tra le due Guerre Mondiali, fino alla fine del XX secolo– sia ormai irrimediabilmente perduto. Un periodo di una settantina d’anni ricchi di storie avvincenti e personaggi carismatici che, incomprensibilmente, il cinema ha frequentato assai di rado. Eppure di elementi per cavarci ottimi film che n’erano a iosa, nel mondo dei Grand Prix: piloti istrionici, macchine fantastiche, ragazze bellissime, battaglie per la vittoria in pista da far tremare i polsi e, su tutto questo grande circo, l’incombente presenza della morte, in agguato dietro ogni curva dei circuiti. Ad Hollywood, il primo, tra i comunque pochi, a cogliere la potenzialità del mondo dell’automobilismo agonistico, fu, manco a dirlo, quella vecchia volpe di Roger Corman. Il regista americano era noto per il fiuto che gli permetteva di girare film a basso costo che poi si comportavano egregiamente al botteghino; fu anche un produttore che lanciò nel mondo del cinema moltissimi autori e attori della New Hollywood. Non sorprende che, oltre a comprendere la validità del mondo della Formula 1, nel suo I diavoli del Grand Prix dia largo spazio alle auto in pista, privilegiando questo elemento rispetto al dramma romantico che, narrativamente, viaggia affiancato ai vari appuntamenti agonistici che scandiscono il film. A rendere unico e affascinante, ancora oggi, The young racers, questo il titolo originale, sono infatti le fasi dei Gran Premi, in particolare quello del Belgio, sulla meravigliosa pista di Spa-Francorchamps. Interessanti anche quelli di Francia, disputati sul pericolosissimo circuito semipermanente di Rouen-Les Essarts e su quello stradale di Reims; pittoresca anche la corsa britannica, la cui pista era all’interno dell’ippodromo di Aintree. Si vede solo di sfuggita, in apertura, l’appuntamento monegasco; sempre in tema di circuiti, è curioso come siano state inseriti due Gran Premi di Francia su piste diverse, cosa non prevista dal campionato di Formula 1, con le immagini della gara di Reims, evidentemente, riferite ad un’altra stagione.
Coadiuvato da un giovanissimo Francis Ford Coppola, ufficialmente tecnico del suono, regista della seconda unità oltre che interprete di secondo piano nel film stesso, Corman si aggregò infatti al «circus» della Formula 1 della stagione 1962 per alcuni Gran Premi. Tra i piloti che compaiono durante le riprese troviamo nientemeno che Trevor Taylor, Bruce McLaren e Jim Clark, veri conduttori della massima serie con quest’ultimo che si sarebbe laureato campione del mondo nell’annata successiva. Per quel che riguarda le vetture, i protagonisti Joe Machin (William Campbell) e Stephen Children (Mark Damon) guidano due Lotus, che si trovano a rivaleggiare con la Ferrari 156 e la Cooper Climax T59. Le Lotus verde corsa sono in ogni caso le vere protagoniste e rubano costantemente la scena a Campbell e Damon: si tratta della Lotus 24, una vettura tutto sommato convenzionale, con il telaio in tubi, e la coeva ma rivoluzionaria Lotus 25. La «25» fu un’auto epocale: Colin Chapman, il geniale patron del team inglese, ebbe l’ispirazione di costruire la vettura intorno al pilota. Nacque così la monoscocca: tre volte più rigida della precedente Lotus 21, ma pesante la metà. Inoltre, l’innovativo progetto permetteva di ridurre sensibilmente la sezione frontale e, in quest’ottica, il sedile del pilota prevedeva una posizione di guida semisdraiata.
Queste novità, oltre alle vittorie nei Gran Premi e nei campionati piloti e costruttori, rendono la Lotus 25 un’auto leggendaria, tra le più rilevanti dell’intera Storia della Formula 1. Ne I diavoli del Grand Prix, l’importanza di queste vetture è alimentata dalle superbe immagini del film, dalle splendide riprese dalla camera-car che, per l’epoca, erano assolutamente non paragonabili alle consuete registrazioni televisive. La bellezza e il fascino di quei bolidi sono quindi mostrati in versione inedita dal film di Corman, e sono la sua vera ragion d’essere. Si può quindi affrontare la storia di finzione, soltanto dopo aver tributato il giusto elogio alle vetture di Formula 1 che, negli anni Sessanta, pur continuando ad essere meri strumenti tecnologici atti a vincere le gare, l’aereodinamica cominciava a rendere sempre più «attraenti». Corman sapeva bene che le auto da corsa erano divenute oggetti sensuali e, quindi, non insiste più di tanto sul versante «umano» della vicenda. Per la verità, Joe Machin, il pilota protagonista del film, non si fa scrupoli né in pista né fuori ma, nel corso della storia, avrà modo di ravvedersi. Tra le sue conquiste sentimentali annovera anche Monique (Béatrice Altariba), fidanzata di Stephen Children. Quando Children vede la sua ragazza sedotta e abbandonata da Machin, decide di farla pagare al dongiovanni: egli è uno scrittore, e, con una biografia del campione automobilistico realizzata appositamente, ne metterà a nudo i peggiori difetti. Naturalmente, per poter condividere qualche momento con Machin, non rivela le sue reali intenzioni ma comincia a gravitare nell’ambiente del pilota. E qui Corman e i suoi autori esagerano un po’: salta fuori addirittura che Children era stato, in precedenza, un pilota e, in questo modo, lo scrittore trova istantaneamente ingaggio proprio nel team Lotus a fianco di Machin.
Già si tratta di una situazione non plausibile ma il peggio deve ancora venire: Children è subito competitivo, il che è reso inaccettabile narrativamente proprio dalla fedeltà al mondo della Formula 1 mostrato nel film. Fossero state gare di Granturismo o qualcosa di simile, la cosa avrebbe avuto un minimo di credibilità: al contrario, guidare dall’oggi al domani una monoposto della massima serie, negli anni Sessanta, era davvero impresa ardua; essere competitivo fuori discussione. In ogni caso, Children, divenuto compagno di squadra di Machin, finisce per rendersi conto che il diavolo non è brutto come l’han dipinto e, in fondo, il pilota non è poi quella canaglia. Anche perché Machin cambia registro: smette di inseguire tutte le gonnelle e rivaluta la moglie, la dolce Sesia (Marie Versini). Per la verità gli incastri romantici abbondano, ed è un peccato che Corman non abbia la forza emotiva per incendiarli degnamente. In ogni caso, nel periodo in cui è ignorata dal marito, Sesia è discretamente, ma costantemente, insidiata da cognato Robert Machin (R. Wright Campbell, fratello anche nella realtà del protagonista William Campbell). Tra i due Machin c’è uno strano rapporto forse più riconducibile ad una tipica relazione tra un padre di forte personalità e il figlio che non riesce ad emergere dal cono d’ombra dell’ingombrante genitore. Da segnalare la presenza della sontuosa Lea (Margareth Robsahm, splendida) una delle ragazze che gravitano intorno a Machin, che ha l’ardire di sfidare apertamente Sesia. Da parte sua, Children, incattivitosi dopo aver perso Monique, fatica ad accorgersi della presenza preziosa e puntuale della segretaria Henny (Luana Anders), ma anche questa pista sentimentale, in dirittura d’arrivo, s’aggiusta. Insomma, I diavoli del Grand Prix possiede molte intuizioni ma è una ricetta probabilmente fuori dalle corde di Corman, e, quindi, non riesce a soddisfare tutte le premesse. L’idea delle riprese cinematografiche sulle vetture e, più in generale, sul «circus» della Formula 1 è ottima, ma, da un punto di vista narrativo, non basta a far funzionare il film. Lo stesso regista ne sembra cosciente, infatti imbastisce una vicenda sentimentale torbida –i due fratelli che si contendono la stessa donna, o anche la «questione Monique» tra Machin e Children– e romantica al punto giusto, ma, come detto, purtroppo, il nostro pur apprezzabilissimo Roger Corman non era Douglas Sirk.
Margareth Robsahm
Luana Anders
Marie Versini
Galleria
Nessun commento:
Posta un commento