1526_LE 24 ORE DI LE MANS (Le Mans). Stati Uniti 1971; Regia di Lee H. Katzin.
Steve McQueen aveva già provato a realizzare un film sul mondo delle corse automobilistiche, come si può vedere nel documentario The Lost Movie [2021, regia di Alex Rodger] ed è controverso il suo rapporto con Grand Prix di John Frankenheimer, il lungometraggio dello stesso «genere» che poi ad Hollywood venne prodotto. Pare che per il ruolo di protagonista, in seguito andato al suo vicino di casa James Gardner, fosse proprio lui, il prescelto; Steve declinò l’invito; salvo poi, visto il grande successo tecnico commerciale del film di Frankenheimer, mangiarsi le mani. Cinque anni dopo Grand Prix, McQueen ci riprova, stavolta portando a termine il risultato, nonostante, anche in questo caso, non siano mancate le vicissitudini. Al netto delle beghe riportate pocanzi, il rimando alla pellicola di Frankenheimer è comunque giustificato: Grand Prix è, infatti, la pietra angolare, l’esempio insuperato di rappresentazione cinematografica delle gare automobilistiche. Almeno dal punto di vista scenico, perché qualche perplessità il film del 1966 la suscitava; e, guarda caso, furono proprio questi elementi a creare la divergenza di opinioni che portò al divorzio tra John Sturges, il regista che aveva cominciato a dirigere Le 24 ore di Le Mans, e Steve McQueen, il cui ascendente sulla Produzione finì per fargli avere il sopravvento. Sturges, che aveva diretto McQueen in film eccellenti come I Magnifici Sette [The Magnificent Seven, 1960] e La Grande Fuga [The Big Escape, 1963], voleva che la storia romantica in Le 24 ore di Le Mans equilibrasse maggiormente la parte destinata alle vetture in pista. In effetti, il regista americano non aveva tutti i torti: tanto il capostipite I diavoli del Grand Prix [The Young Racers, 1963, regia di Roger Corman] che il citato Grand Prix di Frankenheimer, nonostante i buoni risultati al botteghino, non erano riusciti a trovare davvero la formula giusta. Sturges, che era un regista classico, riteneva che ricorrere ad una soluzione consolidata dalla tradizione –storia d’amore in primo piano, vicende storiche/realistiche sullo sfondo– fosse la scelta migliore. McQueen, al contrario, pensava che la componente romantica andasse diminuita, mettendo la pista come unico polo d’attrazione del film.
La spuntò McQueen e Lee H. Katzin, il regista subentrato a Sturges, seguì le sue direttive, mettendo le potenti vetture Endurance in primo piano e relegando la storia sentimentale tra Michael Delaney (McQueen) e la bella Lisa Belgetti (Elga Andersen) tiepidamente sullo sfondo. Fu la scelta giusta? Relativamente. O almeno, non lo fu assolutamente al Box Office, tasto sempre assai dolente ad Hollywood più che altrove. Dal punto di vista artistico, Le 24 ore di Le Mans confermò la tendenza dei due precedenti film inerenti alle corse automobilistiche, I diavoli del Grand Prix e Grand Prix: riuscitissima la parte dedicata alle corse, meno quella romantica. In questo caso c’è una maggior consapevolezza, in tal senso, con McQueen che aveva pianificato di puntare tutto sulla corsa; tuttavia, seppur apprezzabile come sorta di finto-documentario, Le 24 ore di Le Mans non riesce a raggiungere lo status di capolavoro. Il che potrebbe anche sembrare legittimo, non è che tutte le ciambelle debbano uscire col buco, verrebbe da obiettare. Il punto è che, come nei film di Corman e Frankenheimer, è la perfezione tecnica delle riprese su pista ad alzare l’asticella, a far naturalmente ambire al film uno status di assoluta eccellenza. In questo caso, per la verità, la minor attenzione alla trama romantica è palesemente dichiarata e la sensazione di incompiutezza ne esce attutita: di conseguenza Le 24 ore di Le Mans è un film che può venir ragionevolmente consigliato solo agli appassionati delle competizioni motoristiche e questa è già una limitazione non trascurabile. Un po’ come se Titanic [1997, di James Cameron] fosse apprezzabile in modo esaustivo solo dagli amanti dei viaggi in nave.
Cercando di cambiare il punto di vista, si può provare ad azzardarsi a dire che Le 24 ore di Le Mans abbia, nel suo rigore e nella sua attinenza alla corsa, un motivo di fascino, uno spunto di curiosità anche per chi non sia abitualmente interessato all’automobilismo. Anche solo osservare come si muove Steve McQueen, completamente a suo agio al punto da «vivere» il momento più che recitarlo, vale il biglietto, come si suol dire. E poi ci sono loro, le vetture prototipo, la Porsche 917 del team Gulf e la sua acerrima avversaria, la Ferrari 512: da notare come, anche stavolta, Hollywood riservi alla casa di Maranello il ruolo di nemico dell’eroe di turno. Il film di Katzin è, come detto, concentrato sulla competizione e non si presta nemmeno tanto a metafore approfondite, tuttavia rispetta alcuni tipici cliché dei film hollywoodiani del tempo.
L’eroe è rigorosamente yankee, il rivale, Stahler (Siegfried Rauch), è tedesco, oltre che dall’aspetto sinistro; la scuderia di Delaney è britannica, quindi strettamente imparentata con gli americani nonostante utilizzi una Porsche, auto costruita in Germania. La Ferrari è naturalmente italiana e, come detto, si trova dalla parte sbagliata della barricata. Va ricordato che il mondo dell’automobilismo, per via dei concetti aerodinamici, era ancora legato a quello bellico e, in particolare, alla Seconda Guerra Mondiale. È opinione condivisa che la supremazia inglese in campo aereodinamico sulle auto da corsa –si pensi all’introduzione della monoscocca all’invenzione delle minigonne che sfruttavano l’effetto suolo– sia diretta conseguenza di quelle competenze ingegneristiche che permisero ai britannici la cruciale vittoria nella Battaglia d’Inghilterra, combattuta tra la Royal Air Force e la Luftwaffe tedesca nei cieli d’Albione. Lo schema de Le 24 ore di Le Mans si inserisce quindi perfettamente in questa sorta di tradizione: l’eroe americano, alleato degli inglesi, combatte contro un sodalizio italo-germanico. Altri elementi, come l’auto di fabbricazione tedesca del team Gulf, o la nazionalità prevedibilmente italiana di Lisa –la coprotagonista che flirta blandamente con Delaney– sono elementi che servono argutamente a stemperare il manicheismo dell’impostazione. Memori della lezione di Grand Prix, come detto esempio insuperato di rappresentazione cinematografica in chiave di corse automobilistiche, i produttori di Le 24 ore di Le Mans non lesinarono sforzi nella realizzazione di un’opera di grandissimo impatto visivo. I tempi di realizzazione vennero sforati, la pretesa di realismo cagionò non pochi problemi agli stuntmen che pilotavano le macchine, in questo senso l’apice venne toccato con l’amputazione di una gamba di David Piper in seguito alle conseguenze di un incidente. Le immagini sono spettacolari; il clima è quello di una vera gara a Le Mans, probabilmente la più dura oltre che la più famosa tra le corse di durata. McQueen poté dirsi ragionevolmente soddisfatto; i produttori, dato il flop al botteghino, certamente meno. Ad oggi rimane uno degli esempi più attinenti e concentrati sul mondo delle corse, senza divagazioni; a patto di essere più appassionati di gare automobilistiche che di cinema, si può definire capolavoro. In tutti gli altri casi, un ottimo film.
Elga Andersen
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