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domenica 23 ottobre 2022

MINSK

IL RITORNO DELLO ZAR: #L'ORA DELLA FINE

1141_MINSK .Estonia, Russia 2022;  Regia di Boris Guts.

Prima di entrare nello specifico del perché Minsk di Boris Guts sia un film eccezionale, alcuni dettagli che ci aiutano, almeno in parte, a capire come il risultato finale sia meritato, figlio degli straordinari sforzi e della genialità dei suoi autori. Perché Minsk non è certo un’opera che fondi la sua riuscita sul budget a disposizione ma piuttosto sulla capacità di fare di necessità virtù. E allora, tanto per capire che razza di tipo sia il regista, ecco che la prima voce che il nostro va ad eliminare per il suo capolavoro filmico è il montaggio, ossia la pura essenza del cinema. Cerchiamo di capirci, non si intende dire che sia stata necessariamente una scelta di natura economica o almeno non solo; Guts vuole realizzare un film traumatizzante e l’idea di una ripresa unica di 83 minuti serve anche a stremare i suoi attori in modo da sfruttarne lo sfinimento in modo quanto mai credibile. Ma probabilmente anche per creare una costante tensione emotiva, dal momento che è evidente che ogni passo falso durante la recitazione sia un errore capitale; questa tensione si crea e rimane costantemente aleggiante sul film. Che poi, pensandoci, è un po’ la tensione della realtà, dell’imprevedibilità della realtà, a cui, anche se non ci rendiamo conto, siamo sempre preparati; col tempo, infatti, si impara che un evento imprevisto può sempre accadere all’improvviso, e questa latente e sottile attenzione con cui impariamo a convivere è spesso la differenza con quella realtà che vediamo rappresentata in certi film ben confezionati ma platealmente prevedibili. Il piano sequenza che costituisce per intero Minsk riesce invece a ricostruire in modo più che convincente la realtà, forse proprio per via di questa tensione a cui sono sottoposti gli interpreti nell’apnea recitativa degli 83 minuti da girare difilato. Ad alimentare con violenti strappi questa inquietudine, minore in avvio e già crescente in modo automatico man mano che passano i minuti e la stanchezza si accumula, arrivano i picchi di adrenalina della storia. I passaggi topici del racconto trasformano l’impercettibile atmosfera elettrica in momenti di puro terrore con sferzate narrative di rara brutalità. Brutali come una carica della milizia bielorussa, verrebbe amaramente da portare come paragone. Per ottenere il suo film, Boris Guts lo gira in concreto sette volte in tre notti: dopo una prima una semplice prova, sei veri e propri tentativi fino all’eccellente risultato finale. Un pugno nello stomaco dello spettatore che bisogna essere bravi ad incassare, ma ne vale la pena. 

Lo si è accennato:
Minsk è un capolavoro. Una botta di adrenalina pura, di paura allo stato solido, di dolore, di violenza, di rabbia: talmente realistico da venir scambiato per un documentario, come su alcune presentazioni trovate in rete in occasione della prima visione Svizzera in quel del 9° Film Festival dei Diritti Umani di Lugano. Credibile, credibilissimo, altroché. Dovunque, e certo anche in Italia – che, giova ricordarlo, è anche il paese di Stefano Cucchi e Andrea Soldi – non ci dovrebbero essere ragionevoli motivi per dubitare della veridicità dell’inaudita violenza delle forze dell’ordine che in Minsk, ambientato durante le proteste del 2020, si scagliano brutalmente e indiscriminatamente contro chiunque gli capiti a tiro. Giusto ad onor di cronaca, un attivista della diaspora bielorussa (rimasto anonimo per evidenti motivi di sicurezza) presente in sala durante la proiezione nel citato festival di Lugano ha confermato l’attendibilità di quanto mostrato dal film, ma è una rassicurazione superflua: Minsk è naturalmente in grado di reggersi con le proprie forze. E poi, siamo onesti, come detto, per quanto violento, il comportamento delle milizie non dovrebbe sorprenderci più di tanto: sono passati più di vent’anni ma i fatti della scuola Diaz di Genova gridano ancora vendetta. I tragici eventi accaduti durante il G8 del 2001 possono avere anche un’altra utilità perché ci permettono di capire la vera differenza nello specifico di questo discorso tra un paese come l’Italia e la Bielorussa, dove è ambientato Minsk. Da quei giorni, in Italia, si sono succeduti una decina di Presidenti del Consiglio con annessi governi, appartenenti ad aree politiche diverse ed opposte. In Bielorussa nel 2001 Aljaksandr Lukašėnka era al potere già da sette anni ed è ancora lì adesso: ecco, i fatti di Minsk del 2020, al centro del film di Guts, sono proprio in relazione all’ennesimo a dir poco discutibile mandato di quello che è stato definito l’ultimo dittatore d’Europa. 

Questi aspetti di
Minsk, che rimane pur sempre un’opera di finzione, non sono dettagli marginali: in questo caso abbiamo la ‘fortuna’ di assistere ad un film altamente drammatico, un vero e proprio horror, che ci racconta qualcosa che appartiene alla nostra quotidianità. Sarebbe un po’ come, in un ipotetico universo alternativo, fossimo negli Stati Uniti nel 1850 e vedessimo un western di quelli tosti. Trovarsi nel posto giusto al tempo giusto. Non è una cosa da poco perché il ‘quotidiano’ al cinema, in genere, è rappresentato in modo dimesso, e in effetti la vita di tutti i giorni è – almeno da un punto di vista avventuroso – povera di spunti per non dire noiosa (il che è anche una fortuna, intendiamoci). Abitualmente sul grande schermo in occasione di un evento eccezionale contemporaneo, nella ricerca della massima credibilità, si ricorre al documentario o al massimo alle docufiction. Boris Guts arriva allo stesso risultato – la credibilità, tanto che a qualcuno il suo film è parso documentaristico – ma ci arriva dalla parte opposta, con una storia puramente inventata. Geniale anche sotto questo aspetto. Per usare le parole dello stesso autore: “Minsk è un film di genere. Un tipico horror all’americana. I giovani protagonisti fanno sesso, bevono e poi vanno da qualche parte… solo che non incontrano ‘morti viventi malvagi’ ma poliziotti.” Se lo schema di base del racconto è in effetti semplicemente questo, la sceneggiatura e i dialoghi ne arricchiscono la struttura dando corpo anche su un piano ulteriore a quello esplosivo delle pure immagini che scorrono sullo schermo. Il racconto infatti prevede una serie di ripetizioni di situazioni, riferimenti, battute che alimentano la sensazione di girare su sé stessi, visto il continuo ritrovarsi in contesti simili. 

Questa sorta di vertigine è ulteriormente rimarcata dal tipo di ripresa stessa del film, con l’operatore costretto necessariamente ad una serie di svolte per evitare di inquadrarsi in un riflesso o in un’ombra. L’impressione è di scendere inesorabilmente una spirale in cui ad ogni situazione che si ripete siamo ad una spira più in basso. Di queste ripetizioni, la più evidente è lo schema tipico del cinema horror americano per cui la violenza arriva dopo il sesso, quasi fosse una sorta di punizione. Il film comincia con i giovani protagonisti Yulia (l’eccellente Nastya Shemyakina) e Pasha (Aleksey Maslodudov) che fanno l’amore; di lì a poco finiranno nell’inferno della repressione delle proteste di quella che è conosciuta anche come rivoluzione delle ciabatte. Quando vengono salvati da Irina (Yuliya Aug), personaggio più spiazzante dell’intero film, c’è ancora un momento intimo tra i due, giusto prima del tracollo narrativo con i nostri che finiscono ad Akrestsina, il centro di detenzione preventiva di Minsk per quel che non sarà certo una permanenza di piacere. 

Il binomio sesso-violenza è così ripetuto, ma ci sono altri elementi che ritornano: ad esempio il racconto sul pub Dirty-Queen di Londra, con annesso riferimento omosessuale che turba entrambe le volte l’ascoltatore di turno. Oppure la domanda su cosa stiano pensando i protagonisti dopo aver fatto sesso, i miagolii di Yulia, il Padre Nostro cantato, l’uccisione dei due maschi principali del racconto con un colpo di fucile al petto, situazione che comporta anche un doppio passaggio al garage dello zio. Sin dai primi dialoghi, sulla coppia di protagonisti aleggia la ex di Pasha, Tania (Anastasiya Pronina), che poi fa il suo ritorno fisico sulla scena; la sua figura di disturbo sulla coppia fa il paio con quella di Vasya (Phillip Mogilnitskiy) che, da parte sua, cerca invece di insidiare Yulia. Questo doppio triangolo amoroso (Tania-Pasha-Yulia e Pasha-Yulia-Vasya) è attorcigliato dallo sviluppo narrativo che, nel suo scorrere, lo spoglia fino a lasciarlo nell’improbabile coppia finale ‘Tania & Yulia’ con quest’ultima che potrebbe anche essere rimasta incinta. Ed è proprio nel finale, con le due ragazze sdraiate sul pavimento, dopo il ritorno nell’appartamento visto all’inizio del film, che c’è una terza esortazione a respirare. E’ necessario, anche per lo spettatore, perché il film, i suoi personaggi e perfino i suoi interpreti, fin lì hanno corso a perdifiato. 

Però occorre una precisazione: è vero che il film è un unico estenuante piano sequenza ma non si tratta di una mera e semplice ripresa delle scene previste dal copione. Boris Guts realizza un film vero e proprio anche se, come detto, rinuncia al montaggio, che è la vera e propria peculiarità della settima arte. Come noto in sala taglio si può drammatizzare a piacimento una determinata scena, ad esempio semplicemente con l’utilizzo del campo/controcampo durante un dialogo in luogo di una ripresa che veda i due personaggi insieme sullo schermo. A Guts non serve drammatizzare il suo film in quanto i fatti nudi e crudi sono già drammatici a sufficienza; come detto la singola ripresa toglie il respiro mettendo quindi all’angolo lo spettatore, facendogli vivere la situazione senza via di scampo dei personaggi in modo convincente. Il punto è che in questo horror – che aimè assomiglia troppo alla nostra realtà – nel ruolo dei cattivi non ci sono gli zombie ma i poliziotti e questo non concede proprio alcuna possibilità di salvezza, di lì la scelta azzeccata di togliere respiro al racconto. Tra l’altro Guts, se rinuncia al montaggio, e lo fa con cognizione di causa, non risparmia idee negli altri aspetti cinematografici, come per la spettacolare resa cromatica degli scontri o per la musica, che è uno degli elementi più funzionali dell’opera. C’è il classico contrasto tra la traccia audio di tenore leggero e quanto mostrato sullo schermo, un espediente strausato e sempre funzionale, con l’orecchiabilità delle canzoni sottolineata anche da un dialogo del film. 

Ma il momento culminante di Minsk, compreso tra le uccisioni di Vasya e Pasha, è caratterizzato da una potenza della colonna sonora che ci trasporta letteralmente in piazza in mezzo all’inferno che è diventata la capitale bielorussa. Un passaggio di cinema assolutamente fantastico per trasporto emotivo. Oltre a tutto questo, ci sono altri elementi che affiorano prepotenti durante la storia: San Bartolomeo scuoiato vivo, il rapporto con la religione, da Irina il cui modo di collezionare Icone – e farsi collezionare da esse – rivela la propria natura ambigua – la stessa della fede? – ai citati Padre Nostro cantati pretesi dagli aguzzini in divisa. Senza dimenticare il ruolo del calcio, coi tifosi del MTZ-Ripo al tempo caotici e ribelli e non ancora comprati e arruolati come nashisti dal potere come pare sia avvenuto. Il tutto in ottantatre minuti senza fiato. 
Hanno ragione, i personaggi di Minsk; c’è davvero bisogno di respirare, dopo tutta questa violenza.
Devono averlo pensato anche Stefano e Andrea. 





Nastya Shemyakina


Anastasiya Pronina


Galleria di manifesti 


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