98_RAPINA A MANO ARMATA (The Killing). Stati Uniti, 1956; Regia di Stanley Kubrick.
Ad un certo punto, Fay (la dolce Coleen Gray)
confessa a Johnny Clay (l’impassibile Sterling Hayden) che, nei cinque anni in
cui lui si trovava in prigione, lei si sentiva chiusa fuori; insomma, come se la vera libertà fosse stata potersi
congiungere con il suo uomo nel chiuso di una cella e non restare fuori di
essa. Un paradosso per testimoniare l’amore per l’uomo, certo, ma anche, almeno
in senso letterale, una messa in discussione del concetto di spazio: uno spazio
confinato molto piccolo diviene infatti un ambiente libero, il restante sconfinato mondo intero, una prigione. Un
piccolo indizio che ci permette di cogliere la natura dell’operazione alla base
di Rapina a mano armata del geniale
regista statunitense Stanley Kubrick. Con quella affermazione della compagna
del protagonista del film, viene infatti contraddetto il punto di vista
abituale, mettendo in rilievo la soggettività dello sguardo, che può sempre
essere messo in discussione. Del resto, in originale il titolo è The killing, ma la sparatoria con le
uccisioni a cui si riferisce dura solo un breve momento del film, mentre il
corpo principale della pellicola è occupata da una rapina (a mano armata)
all’ippodromo. Analogamente al discorso sullo spazio, in questo caso viene
messo in discussione il concetto di tempo, nel senso che un evento che dura
pochi minuti è messo in rilievo rispetto ad un altro che occupa oltre un’ora di
lungometraggio. Sono indizi, certo, ma che vengono confermati dallo
sviluppo e dall’impostazione dell’opera: tempo e spazio vengono infatti divisi,
scomposti, riproposti e ripetuti, durante lo scorrere della pellicola.
La linea temporale degli eventi viene spesso
violata, con numerosi flashback, tesi non tanto a raccontare episodi mancanti
alla narrazione che provengano dal passato ma per rivedere la stessa
situazione da un altro punto di vista, o per assistere, da un momento
precedente, a quello che è successo in un altro ambiente. E, quindi, questi sbalzi
non sono inerenti soltanto alla linea temporale, ma anche allo spazio del
racconto: il luogo filmico è scomposto in tanti frammenti (spaziali e temporali),
che poi si ricompongono in un unico grande avvenimento che è il corpo centrale
della storia, la rapina a mano armata E questo enorme puzzle che è The
killing funziona, e funziona perfettamente su entrambi i piani in cui si
può leggere: oltre in riferimento alla vicenda effettivamente narrata, si
potrebbe infatti intendere il film come una sorta di esperimento, una prova per
verificare se, anche scomponendo una storia, questa poi possa essere
comprensibile e soprattutto appassionante. Un test che l’opera supera
brillantemente; e che ci dice che in un film non sono tanto importanti quei
concetti legati alla trama, alla logicità dello scorrere del racconto, perché Rapina a mano armata dimostra che si può
guardare un racconto scomposto e comprenderlo come senso compiuto e quindi
ricomposto.
Anzi, a ben vedere, l’opportunità di scomporre a
piacimento il racconto permette all’autore una presentazione di personaggi e
situazioni più organica, più ragionata e, quindi, per assurdo, più accessibile
di una narrazione che segua le abituali consuetudini cronologiche. Che non sono
aspetti secondari: queste regole narrative, infatti, sono spesso legate al genere, nel senso che il cinema ha una
serie di codici (ad esempio i generi) che,
venendo rispettati, istradano già lo spettatore in una certa direzione,
aiutandolo nella fruizione. Per fare un esempio banale, in un western non serve
che ogni volta ci venga specificato dove ci si trovi, perché la gente porti la
pistola, o altre cose di questo tipo, perché sono legate al tipo di pellicola e
lo spettatore le conosce.
E, in questo ambito, c’è forse il pregio maggiore
dell’opera di Kubrick: Rapina a mano armata
è infatti un testo metalinguistico,
che riflette cioè sul cinema e non tanto su fattori esterni (come ad esempio la
realtà contemporanea o di un certo periodo storico). E, nel farlo, il film
mette in discussione due degli stessi aspetti più importanti del cinema di genere americano; i principali tra
quelli legati alla sceneggiatura, alla trama, ovvero il tempo e lo spazio del
racconto. E per di più lo fa all’interno di un noir, che tra i generi è quello che, insieme al western, probabilmente li considera più sacri.
Ma, e qui sta una delle qualità rilevanti
dell’opera, questa contestazione non avviene da un punto di vista esterno, ma
da un’opera che, pur mettendoli in discussione, rispetta questi dogmi. Rapina a mano armata è un noir,
ma forse è meglio definirlo un crime-movie,
perfetto, con una sceneggiatura di ferro, come si suol dire; che rispetta
quindi al meglio i codici di genere ma, al contempo, ci permette di capire come
questi vincoli siano secondari, non siano il punto cruciale dell’opera.
Un indizio che ci avvisa che si può trattare di un testo
metalinguistico è anche il modo in cui viene usata la voce fuori campo: in questo caso, il narratore non è uno dei
protagonisti e nemmeno un personaggio secondario, una comparsa, un testimone
della vicenda. No, la voce appartiene a qualcuno di estraneo ma che, curiosamente,
si dimostra ammiccante nei confronti dello spettatore, facendo anche battute
umoristiche sui fatti narrati, come ad esempio quella su Marvin (Jay C.
Flippen) che, apparentemente senza una logica, scommette su tutti i cavalli di
una corsa (lo fa perché è uno dei meccanismi del piano della rapina). Il fatto
che la voce esterna si prenda delle simili confidenze può farla attribuire, ad
esempio, a quella del regista o anche più genericamente all’entità stessa del tempo ma, in ogni caso, serve a rendere
questo puzzle narrativo di facile approccio, permettendo allo spettatore di
godersi senza sforzi lo sviluppo dell’intreccio.
devo dire che non sono mai stato uno che si concentra troppo sulla trama, nel seguire un film... mi faccio catturare da tutto il resto, fotografia, immagini, belle attrici... :P
RispondiEliminaScommetto soprattutto queste ultime... ;)
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