101_M - IL MOSTRO DI DUSSELDORF (M - Eine Stadt Sucht einen Morder). Germania, 1931; Regia di Fritz Lang.
Fritz Lang è un regista geniale, nel puro senso del
termine: in M- il mostro di Dusseldorf ne abbiamo un’ulteriore dimostrazione, dopo le
tante già esibite dall’autore nella sua carriera, dalla forza visiva di Metropolis all’invenzione del ‘conto
alla rovescia’ in Una donna nella luna.
Ora il regista austriaco si cimenta per la prima volta con il sonoro, vi trova
subito la giusta sintonia e, grazie a questo, aggiunge l’ennesimo colpo che il
suo genio regala al suo cinema, un cinema sempre all’avanguardia. L’idea di accompagnare un motivetto
fischiettato alle gesta del mostro, un Peter Lorre straordinario nella parte
dell’assassino, è sublime, anche perché crea la giusta asincronia tra i
drammatici eventi e la musichetta che li accompagna. E, ad onor del vero, questo
effetto, adattissimo alle atmosfere paurose, è già presente nell’incipit della
pellicola, quando le bambine giocano cantando una tiritera che romanza le
imprese del mostro stesso. E questo, come si è accennato, non è altro che
l’ennesimo colpo di genio del regista, che apre in modo adeguato la sua
carriera con il cinema sonoro. Ci sono altre trovate geniali di Lang, in questa
pellicola: il processo finale, ad opera delle organizzazioni criminali ed
emarginate congiunte, è un’altra gemma di rara genialità. Forse meno sopraffina
ma comunque di grandissimo effetto è la M
che viene impressa con uno stratagemma sulla spalla del mostro, un’altra acuta
intuizione di forte impatto visivo.
L’aspetto simbolico delle immagini è altresì
importante: si va dall’uso di alcune metafore esplicite (il palloncino che
rimane impigliato, la palla che rotola via) ai collegamenti visivi (le figure
del mostro e della bambina che si alternano nel riflesso di una vetrina,
contornate, incorniciate, dai coltelli in esposizione), fino al montaggio
alternato tra le riunioni degli inquirenti e delle organizzazioni criminali che
finiscono per confondersi. Lang ci ha ormai
abituato a questi spunti, basti pensare all’enormità in questo senso di un’opera
come Metropolis ma, sebbene siano
facili e comode da trovare in sede di commento ai suoi film, esse non
rappresentano certo la cifra stilistica più importante del grandissimo regista
austriaco. Lang è principalmente un regista, un uomo, dai nervi saldissimi.
Questo lo si era già capito, con le coraggiose sue opere precedenti, ma in M - il mostro di Dusseldorf il regista si supera, e affronta a piè fermo un tema di una potenza devastante. Hans Beckert, il mostro di Dusseldorf protagonista del film, è un assassino che uccide bambine. E il fatto che siano tutte bambine, è già più che un sinistro campanello di allarme che il mostro non si limiti ad ucciderle. E, in ogni caso, in una riunione tra gli inquirenti, uno dei personaggi lascia intendere della violenza subita dalle vittime, fermandosi giusto in tempo per motivi di censura. Si parla quindi del crimine più odioso, più aberrante, perché somma la violenza verso ogni tipo di debole, la donna e il bambino, e di atrocità, quella sessuale e quella definitiva (l’omicidio), in un unico gesto. Ci vuole una bella dose di coraggio, per affrontare questo tema. Certo se ne potrebbe fare un inno alla sete di giustizia, a fronte di un crimine che è un oltraggio all’umanità. Ma Lang ha molto più coraggio e molta più fermezza, e non cerca un facile consenso popolare; egli affronta il tema in modo spietato, lucido, senza alibi o scusanti. Il criminale è mostrato in tutta la sua meschinità ma, nel momento topico, quando i criminali stessi lo accusano, Lang cala l’ennesimo asso, e mostra il lato umano della belva, (e qui deve ringraziare anche Peter Lorre la cui interpretazione è davvero magistrale). Il mostro non è più l’altro, il diverso: il mostro siamo noi, che non possiamo sottrarci e non riconoscerci nelle disperate parole di Beckert, nell’insostenibile e finale arringa difensiva.
Lucidità, implacabilità: il narrare, il descrivere, il filmare di Fritz Lang ha queste coordinate che inchiodano lo spettatore davanti non solo ad uno spettacolo sublime, ma anche alla propria coscienza.
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