107_MILANO CALIBRO 9 Italia 1972; Regia di Fernando Di Leo.
Ugo Piazza, uscito il giorno prima dal carcere di
San Vittore a Milano, dopo aver subito già troppe vicissitudini per soli due
giorni di libertà (pestaggi, incursioni notturne e diurne, reinserimento forzato
nella mala milanese) si reca in un night club. Nel locale, alla go-go dancing c’è Nelly, e il suo
spettacolo è già un motivo più che sufficiente per rendere Milano calibro 9 un film indimenticabile. Nelly è una meravigliosa
Barbara Bouchet, che si esibisce in una danza erotica che il regista Francesco
Di Leo sfrutta benissimo con alcune riprese di grandissimo impatto scenico. Ugo
Piazza, il protagonista della nostra storia, è invece un formidabile Gastone
Moschin, abilissimo nel rendere un personaggio tanto ambiguo quanto
determinato. Comunque, Milano calibro 9,
oltre alla celebrata scena del night, ha moltissimi aspetti interessanti e, nel
complesso, è sicuramente un film eccellente. Teso e avvincente, presenta subito un
livello di violenza fuori dall’ordinario, ma Di Leo non stempera mai
nell’ironia la brutalità delle sue scene: la violenza in Milano calibro 9 è eccessiva e mantiene sempre la sua forza
distruttrice, e quindi la pellicola non è certo per stomaci teneri. Le scene
dei pestaggi sono impressionanti come raramente capita di vederne al cinema, e rendono
pienamente il clima violento dei primi anni settanta nella società italiana. In
realtà, più specificatamente, e lo si capisce già dal titolo, il film è
focalizzato su Milano, la città che ha il volto più internazionale nella
penisola.
Il genere poliziesco di matrice urbana, che ha la
sua collocazione naturale negli Stati Uniti, può infatti avere la sua migliore
versione nazionale nel capoluogo lombardo; per altro è vero che, accanto ad
alcuni luoghi tipicamente meneghini, (il grattacielo Pirelli, la torre Velasca,
il Duomo, la torre Branca, i Navigli, il carcere di San Vittore) molte scene
sono state naturalmente ricostruite a Cinecittà. Ma questo non è un limite,
anzi, già da questo semplice dettaglio possiamo capire il valore cinematografico dell’opera: la Milano di Milano calibro 9 non è credibile tanto
per l’autenticità dei luoghi di ripresa, ma piuttosto per l’atmosfera che Di
Leo ricrea, sia con location
meneghine che con ricostruzioni in studio, ma soprattutto per il clima pesante,
di piombo, verrebbe da dire, che si respira nella pellicola. In questo senso il
film è davvero notevole; come del resto per altri aspetti tipicamente tecnici, come il montaggio autorevole e
la colonna sonora incalzante (opera di Luis Enrìquez Bacalov e del gruppo
progressive degli Osanna).
Il regista pugliese impiega quindi gli strumenti
propri del cinema di azione, quelli utilizzati prevalentemente dal cinema di
genere hollywoodiano, ma lo fa con mano personale, arrivando a cristallizzare
al meglio il genere poliziesco
all’italiana. Il tenore della storia, determinato più che altro dal grado
di violenza che la percorre, è elevato, ma non arriva a farne un’opera
grottesca o peggio una parodia. In questo senso sono eccezionali gli interpreti:
l’imperturbabile Moschin tiene un profilo basso, visto che il suo ruolo
richiede sobrietà, ma Philippe Leroy, Lionel Stander e soprattutto Mario Adorf
recitano alzando i toni, riuscendo al contempo a rimanere comunque coerenti con
l’armonia stringata della vicenda. Leroy è Chino, un malavitoso, a cui piace
stare sulle sue, ma guai a chi gli pesta i calli; Stander è l’Americano, il boss della malavita
milanese: l’attore statunitense recita sopra le righe ed è perfetto per il
ruolo, così come lo è il suo caratteristico ghigno.
Ma il vero protagonista del film è (insieme
ovviamente a Moschin) Mario Adorf: Rocco, interpretato dall’attore tedesco, è
la controparte sguaiata alla sobrietà di Ugo Piazza. Tanto il Piazza cerca di
defilarsi, quanto Rocco prende sempre la scena, scimmiottando un po’ la figura
del gangster mafioso, ma in modo perfettamente credibile. Adorf è poi
bravissimo nel trasmettere il cambio di opinione che il suo personaggio
realizza, quando si rende conto del bluff di Piazza; non è quindi un mero
stereotipo, il suo Rocco Musco, ma un uomo, criticabile fin che si vuole, in
grado di mutare la sua posizione all’interno della storia. Purtroppo nel film
ci sono anche note meno liete: la prima è legata ad un singolo dialogo tra
Chino e Don Vincenzo (Ivo Garrani), il vecchio padrino, nel quale l’anziano si
lascia andare a commenti di rimpianto sulla mafia del tempo che fu, diversa e
più rispettabile rispetto alle bande criminali moderne. Di Leo inserisce questo
dialogo in modo poco naturale e, comunque, l’impressione è che sia un concetto
condivisibile quando invece si tratta di una concreta aberrazione di ogni forma
di senso di giustizia. A fronte di questo fugace elogio alla vera mafia, il regista fa anche di peggio in tutte le
discussioni che mette in scena tra il commissario di polizia (Frank Wolff) e il
vicecommissario Mercuri (Luigi Pistilli) che più che dialoghi sembrano comizi
politici per il grado di faziosità e il ricorso ai più banali luoghi comuni.
Peccato; questi inserti stridono con il resto della
pellicola, ma sono comunque utili perché dimostrano come in Italia non si
riesca a far proprio, a possedere, il
cinema come strumento per raccontare la propria realtà fino in fondo. Infatti,
anche nel caso di un bel film di azione, che, per molti versi non ha niente da
invidiare ad un prodotto hollywodiano, quando Di Leo arriva al nocciolo del
discorso, all’aspetto più sentito, smette di utilizzare gli strumenti propri
del cinema (la trama, la musica, il montaggio, i personaggi, ecc.) per inserire
pedantemente discorsi-manifesto nei
dialoghi.
Meglio chiudere con un elogio a Barbara Bouchet che, oltre alla scena
del night, ci regala una deliziosa ma infida femme fatale. Che, sarà forse un caso, ma finisce malissimo pure
lei.
Barbara Bouchet
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