97_IL PADRINO (The Godfather). Stati Uniti, 1972; Regia di Francis Ford Coppola.
Il capolavoro della New Hollywood è un film di una tale
maestosità da lasciare a bocca aperta lo spettatore: chiunque può capire
immediatamente che si tratta di un film eccellente e questa sua accessibilità
è uno dei tanti pregi ma, ad uno sguardo d’insieme, si fatica a cogliere nel
dettaglio i tanti passaggi e aspetti sontuosi. Una sorta di sindrome di Stendhal in versione
cinematografica.
Per provare a prendere le misure a tanto capolavoro,
cominciamo dall’inizio: la prima scena del film si svolge con un lento carrello
all’indietro, il primo piano su un volto, e la mdp che arretra fino ad
arrivare ad essere quasi una soggettiva di Don Vito Corleone, il Padrino del film, interpretato
magistralmente da Marlon Brando. Quello che vediamo, sembra possibile intuire
dalle immagini girate da Coppola, non è quindi una visione oggettiva, ma una
soggettiva del Padrino. Questa scena, che ha una funzione introduttiva alla
storia, sembra quasi rispondere in anticipo ad una possibile questione morale:
è possibile incentrare una storia su un personaggio così negativo come il
Padrino di una famiglia mafiosa? Uno degli aspetti più elevati dell’opera di
Coppola è che, a questa domanda, come ad altre, il regista offre una risposta
non tanto espressa a parole ma attraverso l’uso dell’arte cinematografica: il cinema come risposta a questioni morali.
La scena iniziale ha la sua controparte in quella di chiusura; se
l’incipit ci mette nei panni di Don Vito, per poterne vivere comprenderne al
meglio le gesta, il finale ci aiuta a prenderne le distanze e a trarne un
bilancio oggettivo.
Le due scene sono simili, in entrambe c’è una
persona in un certo senso esterna al mondo mafioso che pone una richiesta e il
Padrino di turno, in principio Vito, nella scena finale suo figlio Michael (l’ottimo Al Pacino), non
intende accogliere l’istanza: “questo non
lo chiedere”, dice in principio il vecchio boss; “non immischiarti nei miei affari, Kay” è la replica di Michael
alla moglie (Diane Keaton) nelle battute conclusive dell’opera. Al di là dei dettagli della
trama, appare chiara, soprattutto da quest’ultimo passaggio, la doppiezza della
Famiglia, che mantiene su due binari
ben distinti l’apparenza dei propri buoni costumi e la vera filosofia
perpetrata; ma risulta altrettanto evidente, a livello cinematografico, il
legame tra le due scene.
Quindi, dopo averci chiesto di vestire i panni del Padrino
nella prima scena, Coppola sembra invitarci a condividere lo sguardo di Kay, osservando le cose dal suo
punto di vista. Il carrello arretra, lasciandoci vedere “la vera Famiglia”, ossia Michael
e i suoi uomini, attraverso una porta aperta, e quindi incorniciati nello stipite, come
fossero una rappresentazione di burattini, intenti nei propri rituali mafiosi,
baci e baciamani vari. Ed infine la porta si chiude a mantenere definitivamente
separati i due binari della società mafiosa.
Praticamente proprio in mezzo al film, quasi ne fosse il cuore o il
nocciolo, la parte ambientata in Sicilia è sicuramente altrettanto rilevante
rispetto a queste due scene sopra descritte.
Qui vediamo Michael, già seriamente innamorato
dell’americana Kay, almeno stando all’apparenza, non porsi particolari problemi
a farsi una vita nuova, probabilmente temporanea già nelle intenzioni, in
Italia. Si tratta di classiche forzature per via della trasposizione da un
libro, che in genere permette maggior approfondimenti? Probabile. Ma Coppola
usa le armi del cinema per rendere questa parte quasi estranea al resto del
film, come fosse un intermezzo, o un balzo temporale, oltre che geografico,
rispetto al tempo della narrazione.
Coppola ci porta all’origine, alla radice della cultura
della “Famiglia”: e già si notano le
prime ipocrisie, perché tale istituzione, per quanto realizzata con tutti i
crismi della tradizione, si fonda sulla menzogna, sul non detto, sul taciuto.
Apollonia, la giovane sposa siciliana di Michael, pagherà con la vita il suo
essere del tutto ignara della doppia vita del marito.
Ma, naturalmente, il passaggio cruciale è il cambiamento che avviene in
Michael: lo vediamo ad inizio film, completamente estraneo agli affari della Famiglia, ben inserito nella società,
addirittura premiato da essa (come decorato di guerra).
Ma, soprattutto, si percepisce la sua convinzione di volere
stare fuori dall’ambito famigliare, si avverte in modo tangibile una sua diversità rispetto ai parenti prossimi:
dal che si poteva dedurre che esiste una via di uscita dalla piovra mafiosa e
passa attraverso l’integrazione nella società civile.
Il punto è che la cultura del malcostume organizzato, (ovvero mafioso, sebbene questa parola sia
bandita nel film) non è, come può sembrare in apparenza, solo legata alle
minoranze etniche o alle comunità di immigrati meno abbienti.
La fiducia di Michael nella società vacilla sotto i colpi
d’arma da fuoco diretti a suo padre, ma forse a metterla definitivamente K.O. è
il capitano di polizia corrotto, un uomo in divisa, un uomo simbolo della
società che si rivela non migliore degli uomini della Famiglia.
E' di fronte ad una scelta, che Michael salta il fosso: a parità di morale,
di condotta etica, tra Società e Famiglia, è il legame di sangue a
prevalere. E, quando in una società corrotta e violenta, gli elementi migliori (come
Michael), invece di combatterne il degrado, decidono di chiudersi in una forma
associativa (la Famiglia ) ancora più
efferata e malsana, a chi non si schiera al loro fianco, come Kay, nella scena
finale, non rimane che guardare inorriditi.
Diane Keaton
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