1514_IL DEMONE DEL GIUOCO (La Dame de Pique). Francia 1937; Regia di Fedor Ocep.
Dopo l’efficace adattamento del 1916, Pikovaya Dama
regia di Yakov Protazanov, lo splendido La Dama di Picche di Aleksandr
Puškin, aveva avuto alcune riduzioni cinematografiche comunque interessanti,
prima di raggiungere il suo esordio in ambito sonoro. Nel 1922, il regista Pál Fejös, quando non aveva ancora lasciato l’Ungheria
per sfuggire al Terrore Bianco, diresse la versione ungherese del
racconto, Szenzáció. Cinque anni dopo, in Germania, il regista russo
Aleksandr Razumny, diede una forma cinematografica in chiave espressionista al
racconto di Puškin, con il suo Pique Dame, che al momento pare non più
reperibile nella sua forma completa. Si trattava ancora di film muti, il che
non è necessariamente un limite, sia chiaro, ma, per opere tratte da un autore
come il padre della letteratura russa, il commento sonoro –e, quindi, musicale–
è un supporto quasi indispensabile. Il rapporto tra la poetica di Puškin e la
musica è sancito dalle tantissime opere liriche tratte dai suoi lavori, che
testimoniano una matrice musicale forse più che nella sua prosa, nelle emozioni
che essa suscita. Fatto sta che l’approdo al cinema sonoro de La Dama di
Picche è una mezza delusione. E dire che Fyodor Ocep, regista russo,
conosceva bene il tema, avendo collaborato alla sceneggiatura per la versione
uscita nel 1916, Pikovaja Dama. Se quello di Jakov Protazanov era stato
un adattamento fedele del romanzo di Puškin, quello di Ocep si prende
moltissime libertà. Non che sia necessariamente un demerito, è ovvio, ma tutta
la prima parte –ben più di metà film, ad essere precisi– sembra una commediola
romantica, di ambientazione storica, senza nerbo. Il protagonista, Pierre
Blanchard, nel ruolo del tenente Herman, per la verità, ha qualcosa di ambiguo
e, in fondo, non è poi così male. La platinata e luminosa Madeleine Ozeray è
Liza, la dama di compagnia della contessa, ed è, invece, troppo appariscente:
le critiche della vecchia aristocratica, che le richiede maggior sobrietà e che
dovrebbero essere pretestuose e motivate solo dall’invidia per la sua
giovinezza, sembrano qui quasi legittime. La vegliarda è interpretata da
Marguerite Moreno ma, in sostanza, sembra unicamente un’anziana nobildonna e
manca di trasmettere qualunque inquietudine. La messa in scena, luminosa ed
elegante, accompagnata da una musica allegra, ci conduce fino al momento
decisivo dove, finalmente, il lungometraggio di Ocep cambia passo. La scena del
confronto notturno tra Hermann e la contessa dà una prima scossa, poi la
rivelazione a Liza, il duello con il capitano Iretski (André Luguet) e il
funerale della contessa, sono comunque momenti trascinanti. Il passaggio
migliore è però il momento delle partite a carte, che Ocep racchiude in
un’unica serata. Il “faro”, il gioco in questione, è molto veloce e basato
unicamente sulla fortuna: l’idea di condensare nell’unica scena le tre mani che
gioca Hermann, è efficace e crea una buona tensione, alimentata anche dalla
messa in scena onirica che il lungometraggio assume nell’ultima parte. Purtroppo,
lo piazzante finale al manicomio, vanifica questi miglioramenti del film: lì
troviamo, infatti, il protagonista assistito amichevolmente di Iretski, e
questo potrebbe anche starci, considerato come si era chiuso il duello,
nonostante i due rimangano rivali in amore. Ma, a quel punto, arriva Liza che,
a sorpresa, sceglie di restare accanto ad Hermann, mentre il povero capitano
finisce per essere “di troppo” e mestamente è costretto a levare le tende. Un
lieto fine che ribalta quello del racconto e che, tutto sommato, lascia
piuttosto perplessi, per un film che, a conti fatti, non convince.
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