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mercoledì 17 luglio 2024

IL DEMONE DEL GIUOCO

1514_IL DEMONE DEL GIUOCO (La Dame de Pique). Francia 1937; Regia di Fedor Ocep. 

Dopo l’efficace adattamento del 1916, Pikovaya Dama regia di Yakov Protazanov, lo splendido La Dama di Picche di Aleksandr Puškin, aveva avuto alcune riduzioni cinematografiche comunque interessanti, prima di raggiungere il suo esordio in ambito sonoro. Nel 1922, il regista Pál Fejös, quando non aveva ancora lasciato l’Ungheria per sfuggire al Terrore Bianco, diresse la versione ungherese del racconto, Szenzáció. Cinque anni dopo, in Germania, il regista russo Aleksandr Razumny, diede una forma cinematografica in chiave espressionista al racconto di Puškin, con il suo Pique Dame, che al momento pare non più reperibile nella sua forma completa. Si trattava ancora di film muti, il che non è necessariamente un limite, sia chiaro, ma, per opere tratte da un autore come il padre della letteratura russa, il commento sonoro –e, quindi, musicale– è un supporto quasi indispensabile. Il rapporto tra la poetica di Puškin e la musica è sancito dalle tantissime opere liriche tratte dai suoi lavori, che testimoniano una matrice musicale forse più che nella sua prosa, nelle emozioni che essa suscita. Fatto sta che l’approdo al cinema sonoro de La Dama di Picche è una mezza delusione. E dire che Fyodor Ocep, regista russo, conosceva bene il tema, avendo collaborato alla sceneggiatura per la versione uscita nel 1916, Pikovaja Dama. Se quello di Jakov Protazanov era stato un adattamento fedele del romanzo di Puškin, quello di Ocep si prende moltissime libertà. Non che sia necessariamente un demerito, è ovvio, ma tutta la prima parte –ben più di metà film, ad essere precisi– sembra una commediola romantica, di ambientazione storica, senza nerbo. Il protagonista, Pierre Blanchard, nel ruolo del tenente Herman, per la verità, ha qualcosa di ambiguo e, in fondo, non è poi così male. La platinata e luminosa Madeleine Ozeray è Liza, la dama di compagnia della contessa, ed è, invece, troppo appariscente: le critiche della vecchia aristocratica, che le richiede maggior sobrietà e che dovrebbero essere pretestuose e motivate solo dall’invidia per la sua giovinezza, sembrano qui quasi legittime. La vegliarda è interpretata da Marguerite Moreno ma, in sostanza, sembra unicamente un’anziana nobildonna e manca di trasmettere qualunque inquietudine. La messa in scena, luminosa ed elegante, accompagnata da una musica allegra, ci conduce fino al momento decisivo dove, finalmente, il lungometraggio di Ocep cambia passo. La scena del confronto notturno tra Hermann e la contessa dà una prima scossa, poi la rivelazione a Liza, il duello con il capitano Iretski (André Luguet) e il funerale della contessa, sono comunque momenti trascinanti. Il passaggio migliore è però il momento delle partite a carte, che Ocep racchiude in un’unica serata. Il “faro”, il gioco in questione, è molto veloce e basato unicamente sulla fortuna: l’idea di condensare nell’unica scena le tre mani che gioca Hermann, è efficace e crea una buona tensione, alimentata anche dalla messa in scena onirica che il lungometraggio assume nell’ultima parte. Purtroppo, lo piazzante finale al manicomio, vanifica questi miglioramenti del film: lì troviamo, infatti, il protagonista assistito amichevolmente di Iretski, e questo potrebbe anche starci, considerato come si era chiuso il duello, nonostante i due rimangano rivali in amore. Ma, a quel punto, arriva Liza che, a sorpresa, sceglie di restare accanto ad Hermann, mentre il povero capitano finisce per essere “di troppo” e mestamente è costretto a levare le tende. Un lieto fine che ribalta quello del racconto e che, tutto sommato, lascia piuttosto perplessi, per un film che, a conti fatti, non convince.       



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