1518_HORIZON: AN AMERICAN SAGA. CAPITOLO 1 . Stati Uniti 2024; Regia di Kevin Costner.
Al di là delle recensioni, che non hanno stroncato ma nemmeno esaltato Horizon: an american saga. Capitolo 1, la nota più critica dell’opera sembra lo scarso riscontro al botteghino. Il monumentale film di Kevin Costner è costato una fortuna, in parte sborsata dallo stesso cineasta americano in prima persona, e c’è da sperare che possa completarsi nei quattro capitoli previsti, a prescindere dal box-office. La scommessa di Costner, che con Balla coi lupi [Dances with wolves, 1990], aveva sbancato Hollywood, l’Academy e tutto quanto il mondo, stavolta non sembra funzionare, nonostante le apparenti analogie. Al tempo, il cinema sul grande schermo era stato messo in crisi dalla televisione e, per parare il colpo, si era messo a scimmiottare la rivale con produzioni sempre più ordinarie e minimaliste. Costner era quindi andato completamente controcorrente: fotografia maestosa in risposta ai foschi schermi dei tubi catodici domestici, racconto ad amplissimo respiro narrativo opposto alla frenesia televisiva, lunghezza ingombrante da contrapporre ai prodotti sminuzzati, buoni per riempire qualunque momento della giornata e senza pretese di particolare attenzione, tipici della tv del periodo. In aggiunta a questo ribaltone concettuale del prodotto offerto, Balla coi lupi era un western, un genere ormai considerato obsoleto. E, ciliegina sulla torta, era un western filo indiano; non che questo fosse una novità nel cinema hollywoodiano, tutt’altro, ma lo era nella consapevolezza della proposta. A naso, possibilità che fosse un successo, davvero poche; risultato, box-office alle stelle ovunque e sette premi Oscar. Con Horizon: an american saga. Capitolo 1 Costner ci riprova: il cinema, forse, non è in crisi come alla fine degli anni Ottanta, ma certo le serie Tv stanno prendendo il sopravvento, nel gradimento del pubblico. Anche lo stato di salute del western, come genere, è forse migliore che al tempo, visto che ormai si è capito che non torneranno mai più i fasti della Golden Age degli anni Cinquanta, ma ogni tanto qualche bel film ambientato alla frontiera trova posto nelle sale cinematografiche. E non solo: Yellowstone [2018-in corso, serie Tv ideata da Taylor Sheridan e John Linson] è una produzione televisiva di grande successo e, tra l’altro, il protagonista è proprio Kevin Costner.
Forse, è proprio il successo e la complessiva buona finitura di questa serie, ad aver contribuito a dare l’ultima spinta al cineasta americano per decidersi a produrre Horizon, un progetto che covava sin dalla fine degli anni Ottanta. Costner, azzarda quindi anche stavolta ma con una diversa strategia: la lunghezza monstre, ben quattro capitoli di cui il primo da tre ore, ricalca proprio quella di una stagione di una serie Tv. E anche con il tema western, Horizon finisce per inserirsi esattamente nella scia della recente Yellowstone: non siamo, quindi, di fronte ad una vera svolta a 180° come nel caso di Balla coi lupi, ma, semmai, c’è il tentativo di portare il format della serie televisive nelle sale cinematografiche. E, forse, anche questo è uno dei motivi che spiega la risposta tiepida del pubblico: perché andare al cinema quando prodotti simili –leggi Yellowstone, appunto– si possono vedere sullo schermo piatto da 50 pollici di casa? Al contrario, all’epoca, alla maestosità offerta da Balla coi lupi non c’era alternativa; e poi, forse, i tempi erano maturi perché la gente comune trovasse finalmente degni di interesse gli indiani d’America. Questo preambolo non è, per altro, un atto d’accusa a Horizon: an american saga. Capitolo 1; una stroncatura, insomma. È semmai una difesa, del film di Costner, che se ha funzionato poco in termini di incassi non è affatto per scarsa qualità, ma, piuttosto, per i suddetti motivi circostanziali.
In genere, a suscitare qualche perplessità è anche la complessità del canovaccio, con tre segmenti narrativi che procedono simultaneamente e si interrompono, spezzando vicendevolmente il ritmo delle sottotrame. Si tratta di contestazioni un po’ pretestuose perché siamo di fronte ad un normale schema narrativo, almeno in questo tipo di racconti a lunghissimo respiro, laddove ci siano da orchestrare un grande numero di personaggi che si muovono su binari che, prima di intersecarsi, hanno da compiere i loro percorsi. E così, in principio, quando si mette in modo il colossale meccanismo narrativo, occorre un po’ di tempo per carburare. Questo volendo accogliere le istanze di chi ritienga poco coinvolgente Horizon: an american saga. Capitolo 1, che, ad onor del vero, non è un blockbuster rutilante di ultima generazione. In realtà, non ci sono problemi di fruibilità nelle tre ore e la noia mai si affaccia durante la proiezione del film; casomai, per coloro hanno notato qualcosa del genere, sarebbe da chiedersi perché diamine sia ritenuto necessario che il ritmo del cinema debba andare sempre a tavoletta. Da un punto di vista narrativo, il primo capitolo di Horizon funziona a dovere; Costner conosce i tempi del cinema classico, e, seppure quell’epoca sia ormai morta e sepolta, chi ne custodisce le coordinate può tranquillamente frequentarla con profitto. Qualche saltello nella sceneggiatura –ad esempio, i pettegolezzi sull’interessamento del tenente Trent (Sam Worthington) per la bella vedova Frances Kittredge (Sienna Miller) di cui si parla sebbene nel film non ve ne sia traccia– non possono rappresentare certo un serio appunto agli sceneggiatori. È evidente che lo stesso Costner e Jon Baird, alle prese con lo script, abbiano confidato nella perspicacia degli spettatori e, a fronte di una mole di dettagli narrativi enorme, abbiano tagliato ciò che si poteva tagliare senza inficiare la funzionalità del testo.
Che, infatti, funziona.
Come detto, da un punto di vista strettamente narrativo, il primo capitolo di Horizon si sviluppa seguendo tre tracce differenti, alle quali va aggiunta una parte, per ora neppure eccessiva, dedicata agli Apache. Tutto sembra ruotare intorno all’insediamento di coloni chiamato Horizon; Frances, il citato personaggio della Miller, è appunto una dei pochi sopravvissuti all’attacco degli indiani –uno dei passaggi più spettacolari del film– e il tenente Trent, con cui finisce per flirtare, è di stanza in un forte militare non troppo lontano. Hayes Ellison (Kevin Costner) è un pistolero che si trova invischiato in una faccenda pericolosa ed è costretto dalle circostanze a fare da balia alla prostituta Marigold (Abbey Lee) e al ragazzino che l’accompagna. Sulle loro tracce, i temibili fratelli Sykes, pendagli da forca degni di un sordido spaghetti-western. Questa pista narrativa comincia più a nord ma è evidente che ha il suo polo d’attrazione nella valle del fiume San Pedro dove i nostri cocciuti coloni stanno cercando di insediarsi a dispetto degli Apache. E ad Horizon è diretta anche la carovana, il cui accidentato viaggio nel selvaggio west costituisce il terzo binario del racconto: qui il personaggio principale è, per il momento, Matthew Van Weyden (Luke Wilson), il capo convoglio. Ma a colpire nel primo capitolo di Horizon, più che i dettagli narrativi, sono alcuni particolari che Costner predispone. Innanzitutto c’è da valutare come venga affrontata la «questione indiana»: in Balla coi lupi erano di scena i Lakota, comunemente noti come Sioux, una nazione che ben si prestava ad un tributo alla cultura degli indiani d’America, in un momento storico dove non erano particolarmente d’attualità.
Non che lo siano divenuti nel frattempo, ma certo gli Apache sono un soggetto più complesso, da affrontare. Gli Apache erano, in effetti, una tribù bellicosa e, quando non fossero i bianchi a lamentare le loro scorrerie, i loro vicini, Zuni, Hopi, Pueblo tra gli altri, potevano tranquillamente confermarne la pericolosità. In sostanza: per quanto si dica che il progetto Horizon sia addirittura precedente a Balla coi lupi, nei primi anni Novanta, i Sioux erano la tribù perfetta per mettere sotto i riflettori i nativi americani. Di questi tempi, dominati dal famigerato «politicamente corretto» che pretende che si presentino le cose in modo sempre edulcorato, Costner può invece provare a sbaragliare il campo ribadendo come anche un popolo bellicoso per natura o per scelta, abbia ugualmente i suoi diritti: e gli Apache sono l’esempio quanto mai calzante. Va bene che i pellerossa non debbano essere necessariamente un argomento conosciuto ma sorprende come ci sia qualcuno che, tra i recensori, sia stupito di come gli Apache di questo primo episodio siano protagonisti quasi solamente di atrocità o comunque atti di violenza. Gli Apache vivevano di scorrerie a danno delle tribù vicine e, quando arrivarono i bianchi o i messicani, misero anche questi tra le loro possibili vittime. Va riconosciuto che i bianchi, e volendo anche i messicani, si rivelarono ben più crudeli e spietati, nel perseguire i propri propositi di conquista. Tuttavia Costner, forse per prevenire le critiche –che sono comunque piovute per l’eccessiva caratterizzazione violenta dei nativi della storia– inserisce una trama interna agli Apache, con il moderato vecchio capo Taklishim (Tatanka Means) che si oppone alla bellicosità del giovane Pionsenay (Owen Crow Shoe), in un confronto aspro ma non certo originale.
In quest’ottica sembra ascriversi anche l’attenzione formale del tenente Trent e del bravo sergente maggiore Riordan (Michael Rooker) che ricorrono a termini quali «indigeni» o «aborigeni» davvero improbabili per l’epoca per definire gli indiani ostili. Concessioni di Costner al citato «politically correct» che non inficiano la qualità della proposta, anche perché si tratta di dettagli marginali. E, a proposito di dettagli, ce ne sono di ben più cruciali e illuminanti. Ad esempio, il film si apre con un’inquadratura su alcune formiche: fugace citazione de Il Mucchio Selvaggio [The Wild Bunch, 1969, di Sam Peckinpah]? Probabile, del resto c’è anche una breve scena sotto il portico di una casa, che funge da cornice all’immagine, che ricorda un altro capolavoro western, Sentieri selvaggi [The Searchers, 1956, di John Ford]. Ma il paletto di legno, quadrato, che viene impiantato e scombina i poveri insetti, le formiche dell’incipit, ci dice che siamo di fronte anche ad una metafora: alcuni esseri viventi sono impegnati nelle loro beghe quando l’arrivo di altre creature manda all’aria il loro stesso mondo. E a confermare che siamo sulla pista giusta ci pensa la trama: in quel mentre, alcuni Apache stanno giusto guardando con non poca perplessità quello che accade. Sono infatti arrivati i primi coloni di Horizon, intenzionati ad insediarsi proprio lì, in pieno territorio indiano. L’aspetto più interessante della scena, nonostante sia una situazione che, ai nostri occhi, pare piuttosto intuibile, è l’incapacità di alcuni ragazzini apache di comprendere cosa stiano facendo gli «occhi bianchi» con i loro paletti di legno. Gli autori, attenti a non offendere i nativi e a non offrire sponde a critiche pretestuose, mettono in scena questo dialogo tra due ragazzini; se ne potrebbe dedurre che il loro spaesamento di fronte alle operazioni di lottizzazione del futuro insediamento, sia dovuto all’inesperienza. In realtà, per popolazioni «non alfabeta» quali erano gli indiani, il concetto di «dividere la terra» era fuori dalla capacità di comprensione. Fu questo il problema principale dei nativi al cospetto degli invasori, oltre, ovviamente, alla maggior evoluzione tecnologica di questi che, per altro, era una diretta conseguenza della mentalità alfabetizzata degli europei.
Questo sembra essere il tema, almeno come coordinata principale, di Horizon: an american saga: l’impatto di una cultura alfabetizzata in un ambiente primitivo. Questa era, in sostanza, la condizione degli originali abitanti dell’America, che non avevano neppure scoperto la ruota, o forse, stante l’ambiente favorevole, non avevano avuto la necessità di farlo. Ma, in seguito, si trovarono al cospetto di invasori che, dopo l’invenzione di Gutenberg –la stampa a caratteri mobili– la Rivoluzione Industriale e tutto quanto il resto, avevano maturato una mentalità efficacemente spietata in ogni ambito dello scibile umano. Non è un caso che il dettaglio centrale e cruciale su cui gira tutto quanto Horizon sia un ciclostilato che pubblicizza l’insediamento nella valle del San Pedro. La stampa è stata l’invenzione, dopo la ruota e l’alfabeto, cruciale della civiltà occidentale che ha fornito gli europei di uno schema mentale brutalmente risoluto ed efficace –razionale, in una parola– totalmente sconosciuto alle popolazioni non alfabetizzate. E, infatti, non è ancora una volta un caso che il protagonista di Horizon, Hayes Ellison, come prima cosa che fa, quando entra in scena, si rechi a dettare una lettera. E, alle maliziose allusioni di Marigold, risponde che, unendo gli sforzi a quelli del commesso, è in grado di saper leggere e scrivere quanto basta. Intanto, il marito della coppia di piedidolci snob che viaggia con la carovana è tutto preso a disegnare e annotare qualsiasi cosa veda dal suo conestoga. Ecco la superiore forma di evoluzione degli «occhi bianchi», non i fucili a ripetizione o i cannoni: la presunzione di agire per una nobile causa –la scienza– e l’incapacità di comprendere l’altro –gli indiani. La stessa incapacità dei ragazzini apache dell’incipit, ma vista dal versante opposto. Tanto le popolazioni non alfabetizzate hanno difficoltà a comprendere infatti la nostra civiltà, quanto noi di comprendere la loro: saranno anche popolazioni primitive, ma, a differenza nostra, utilizzano al meglio tutti e cinque sensi. La nostra cultura, quando ha mutato il linguaggio in una forma concettuale che ha trasformato in simboli grafici visivi quelli fonetici, perfino quelli più arditi come le consonanti, ha progressivamente relegato in soffitta tutti gli altri organi di senso. Le popolazioni non alfabetizzate, come gli Apache, quei sensi li adoperavano invece tutti, perché gli erano necessari per sopravvivere nell’ambiente ostile in cui abitavano. Per i coloni, gli indiani erano quindi altrettanto incomprensibili di quanto loro stessi non lo fossero agli occhi dei nativi.
Sul piano concreto, la maggior tecnologia a disposizione è l’elemento che decise le sorti dell’invasione; le armi da fuoco, certo, perfino i cannoni, all’occorrenza. Eppure la vera arma finale dei bianchi è quella che, nel finale del capitolo 1 di Horizon, in quella lunga sequenza di immagini che è una sorta di anteprima per il proseguo del film, è sinistramente riproposta a più riprese, nel suo martellante e incessante lavoro: la macchina da stampa.
Sienna Miller
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