1521_SATANK, LA FRECCIA CHE UCCIDE (Santa Fe Passage). Stati Uniti 1955; Regia di William Witney.
A referto per quanti sostengono ancora che fu il contro-western, negli anni 70, a rivalutare la questione indiana almeno al cinema.
Sembra paradossale, ma, in Le Mans ’66 – La grande sfida, un film che dura oltre due ore e mezza e per il quale è stato profuso l’impressionante budget di un centinaio di milioni di dollari, i punti decisivi per il risultato positivo sono alcuni passaggi fugaci. Come il cenno di Enzo Ferrari (Remo Girone) a Ken Miles (un formidabile Christian Bale), tributo al vincitore morale nella 24 di Le Mans appena terminata. Oppure quello tra Carroll Shelby (Matt Damon) e Mollie (Caitriona Balfe), fresca vedova proprio di Miles, il pilota protagonista del film dell’apprezzato regista James Mangold. C’è anche il dettaglio del cappello di paglia, rimasto appeso e inquadrato prontamente da Mangold quando la Ford GT40 si schianta esplodendo: la ripresa non si avvicina, lasciano le fiamme che stanno divorando la vita di Miles sullo sfondo, con un riguardoso rispetto per la morte che solo un ambiente dove la si sfiora e corteggia costantemente – quello delle corse ma anche quello del cinema– può conoscere. Quest’ultimo passaggio porta con sé per sua natura un altro tasso di drammaticità, dal momento che il film è ispirato ai fatti reali e Ken Miles morì davvero nell’agosto del 1966, sul circuito di Riverside, mentre collaudava la nuova Ford da competizione. Gli altri due passaggi citati hanno invece un’importanza prettamente cinematografica e, trattandosi di una produzione americana, la loro valenza metaforica sociale è palese: Hollywood è l’America assai di più di qualsiasi centro produttivo cinematografico può esserlo del proprio paese d’origine. Il saluto che si scambiano Shelby e Mollie, nel finale, è un saluto che sembra un addio e chiude ad ogni possibile lieto fine sentimentale. D’accordo, il film è basato sulle cronache e, evidentemente, tra la vedova di Miles e il costruttore di auto sportive non ci fu mai nemmeno un flirt. Ma, in questo senso, qual è l’utilità di questa «chiusa»? Le Mans ’66 – La grande sfida non è un film così rigoroso in senso storico, gli errori e gli aggiustamenti che gli sceneggiatori hanno fatto, per rendere più avvincente racconto e ambientazioni, non si contano.
Ergo, Shelby sarebbe potuto passare almeno a salutare la vedova dell’amico, invece se ne va; il film di Mangold, se riconosce alla famiglia un valore nell’intesa, pur tribolata, tra Miles e Mollie, non lascia concessioni per il futuro. E, in un film che non è tanto una metafora del Sogno Americano ma la sua diretta ed esplicita concretizzazione su grande schermo, non è un segnale molto incoraggiante. Il titolo originale del film è Ford v Ferrari, così, senza troppi mezzi termini: americani contro europei, con il continuo tirare in ballo la Seconda Guerra Mondiale a ricordare che gli abitanti del Vecchio Continente sono i «cattivi» della situazione. Questo ricorso ai toni bellici è alimentato a dovere da Mangold: Ford è un simbolo potente dell’America e per tutta la fase di preparazione del film, il regista spinge forte sul nazionalismo ai limiti dello sciovinismo. Ad esempio, il fatto che, al tempo, fosse diffusa l’opinione, soprattutto in Europa, che la casa americana non producesse auto sportive competitive non è considerato una semplice costatazione della realtà dei fatti, ma una sorta di offesa alla dignità yankee. In quest’ottica, tanto per non sbagliare, viene imbastito anche un triste teatrino, dove Enzo Ferrari in persona insulta pesantemente Henry Ford II e utilizza l’inganno strumentale a danno degli americani per spuntare un prezzo migliore nella trattativa con l’Avvocato Agnelli. Che ci fosse rivalità anche personale tra i due boss di Ford e Ferrari è noto, così come è noto che l’Enzo nazionale non fu certamente uno stinco di santo; il passaggio di Mangold è, tuttavia, stilizzato rozzamente ai limiti della caricatura. Insomma, gli americani sono i buoni e, partendo da zero –beh, considerando i capitali a disposizione, non proprio zero, ma vabbè– riusciranno a sconfiggere –ancora una volta, ricordatevi la Guerra Mondiale– i cattivi, gli europei. In tutto questo, gli eroi sono Shelby, ex campione a Le Mans, ritiratosi per un un problema cardiaco e ora costruttore di auto sportive, e l’individualista, ribelle e squattrinato Ken Miles: la loro rivincita è il Sogno Americano al quadrato.
A questo punto, tra l’altro, sorge un sospetto sinistro: in principio, nel racconto, viene ricordato più volte il conflitto mondiale, e, non a caso, le scuderie «nemiche» sono Porsche, tedesca – con cui Miles manda a monte l’accordo che Shelby aveva già quasi concluso– e Ferrari, italiana. Proprio i nemici degli americani nella guerra, appunto. Soltanto che, in seguito, scopriamo che i veri cattivi della storia, erano i «colletti bianchi» americani. Come noto, il paragone come figura retorica ha, tra le sue proprietà, quello della reversibilità, il che ci porterebbe a rivedere valutazioni ormai consolidate sulla Seconda Guerra Mondiale. Ma non è questa la sede e, in ogni caso, ci basta e avanza il dubbio che Mangold riesce ad instillarci.
Una valutazione può spesso dipendere dalla prospettiva
che si adotta nell’analisi: ad esempio, se Il cacciatore di uomini, film
dell’ineffabile Jesús Jess Franco, lo prendiamo in sé, c’è un po’ da
mettersi le mani nei capelli. Diversamente, se vi si approccia dopo aver visto La
dea cannibale, opera dello stesso autore, anno, genere e tenore, allora le
sensazioni potrebbero essere più positive. In effetti, Il cacciatore di
uomini, ha qualche spunto positivo, o almeno migliore rispetto al citato
precedente di Franco in ambito cannibal: innanzitutto l’ambientazione è
assai più plausibile. Anche la tribù cannibale, forse il tasto più dolente ne La
dea cannibale, è stavolta molto più presentabile, non poi meno credibile di
quanto in genere queste figure non lo siano nelle produzioni a basso costo. Il
canovaccio lascia qualche perplessità, a dirla tutta, ma va detto che, nella
fruizione, giova la narrazione scarna che non rivela troppi dettagli, almeno
nella prima parte. C’è, per la verità, un insistito montaggio alternato che
viene presto a noia, soprattutto perché lascia intendere un parallelismo, tra
la vita degli indigeni e quella di una moderna città occidentale, piuttosto
estemporaneo. Si può leggere, in effetti, un malcelato moralismo da parte di
Franco, che sembra alludere che tra le due società mostrate, quella dei
cannibali e quella cosiddetta occidentale, non ci sia poi tutta questa
differenza. Il confronto sembra proprio un atto di accusa ai pregiudizi
dell’uomo bianco ma, poi, Franco, nella sua messa in scena, ne fa pesantemente
ricorso.
La trama si snoda su passaggi poco plausibili su cui lo spettatore è chiamato a
sorvolare e le bellezze discinte che imperversano sullo schermo sono un
incentivo in questo senso. Un gruppo di criminali rapisce Laura, (Ursula
Buchfellner), una bellissima modella, chiedendo un cospicuo riscatto.
Incautamente, i rapitori portano la ragazza in una misteriosa isola popolata da
una tribù cannibale; intanto, il reduce del Vietnam Peter Weston (Al Cliver
alias Pierluigi Conti) è ingaggiato per liberarla. Tra i passaggi davvero
troppo superficiali del racconto, salta all’occhio lo stratagemma di Peter per
ingannare i criminali: il nostro prode eroe si lancia da un elicottero
lasciando il velivolo libero di schiantarsi, simulando quindi un incidente. Al
netto del fatto che i banditi poi manco ci cascano, viene da chiedersi se
qualcuno di coloro abbia lavorato al soggetto o alla sceneggiatura, abbia una
vaga idea di quanto possa costare un elicottero. Domande forse inopportune, a
fronte di un film di Jess Franco, ma in un film che insiste a percorrere
sentieri narrativi avventurosi sono anche ineludibili. Nel complesso, come
detto, il film è gravemente insufficiente, penalizzato dai troppi elementi
risolti in modo dozzinale e superficiale. Stavolta le scene cannibaliche non
sono il piatto forte del film di Franco, per quanto possano essere considerate
accettabili, perlomeno nel loro essere disgustose. Ursula Uschi
Buchfellner, infatti, è davvero uno spettacolo e la sua bellezza folgorante
riesce a rimanere immacolata anche in mezzo all’immondizia cinematografica.
Al di là delle recensioni, che non hanno stroncato ma nemmeno esaltato Horizon: an american saga. Capitolo 1, la nota più critica dell’opera sembra lo scarso riscontro al botteghino. Il monumentale film di Kevin Costner è costato una fortuna, in parte sborsata dallo stesso cineasta americano in prima persona, e c’è da sperare che possa completarsi nei quattro capitoli previsti, a prescindere dal box-office. La scommessa di Costner, che con Balla coi lupi [Dances with wolves, 1990], aveva sbancato Hollywood, l’Academy e tutto quanto il mondo, stavolta non sembra funzionare, nonostante le apparenti analogie. Al tempo, il cinema sul grande schermo era stato messo in crisi dalla televisione e, per parare il colpo, si era messo a scimmiottare la rivale con produzioni sempre più ordinarie e minimaliste. Costner era quindi andato completamente controcorrente: fotografia maestosa in risposta ai foschi schermi dei tubi catodici domestici, racconto ad amplissimo respiro narrativo opposto alla frenesia televisiva, lunghezza ingombrante da contrapporre ai prodotti sminuzzati, buoni per riempire qualunque momento della giornata e senza pretese di particolare attenzione, tipici della tv del periodo. In aggiunta a questo ribaltone concettuale del prodotto offerto, Balla coi lupi era un western, un genere ormai considerato obsoleto. E, ciliegina sulla torta, era un western filo indiano; non che questo fosse una novità nel cinema hollywoodiano, tutt’altro, ma lo era nella consapevolezza della proposta. A naso, possibilità che fosse un successo, davvero poche; risultato, box-office alle stelle ovunque e sette premi Oscar. Con Horizon: an american saga. Capitolo 1 Costner ci riprova: il cinema, forse, non è in crisi come alla fine degli anni Ottanta, ma certo le serie Tv stanno prendendo il sopravvento, nel gradimento del pubblico. Anche lo stato di salute del western, come genere, è forse migliore che al tempo, visto che ormai si è capito che non torneranno mai più i fasti della Golden Age degli anni Cinquanta, ma ogni tanto qualche bel film ambientato alla frontiera trova posto nelle sale cinematografiche. E non solo: Yellowstone [2018-in corso, serie Tv ideata da Taylor Sheridan e John Linson] è una produzione televisiva di grande successo e, tra l’altro, il protagonista è proprio Kevin Costner.
Forse, è proprio il successo e la complessiva buona finitura di questa serie, ad aver contribuito a dare l’ultima spinta al cineasta americano per decidersi a produrre Horizon, un progetto che covava sin dalla fine degli anni Ottanta. Costner, azzarda quindi anche stavolta ma con una diversa strategia: la lunghezza monstre, ben quattro capitoli di cui il primo da tre ore, ricalca proprio quella di una stagione di una serie Tv. E anche con il tema western, Horizon finisce per inserirsi esattamente nella scia della recente Yellowstone: non siamo, quindi, di fronte ad una vera svolta a 180° come nel caso di Balla coi lupi, ma, semmai, c’è il tentativo di portare il format della serie televisive nelle sale cinematografiche. E, forse, anche questo è uno dei motivi che spiega la risposta tiepida del pubblico: perché andare al cinema quando prodotti simili –leggi Yellowstone, appunto– si possono vedere sullo schermo piatto da 50 pollici di casa? Al contrario, all’epoca, alla maestosità offerta da Balla coi lupi non c’era alternativa; e poi, forse, i tempi erano maturi perché la gente comune trovasse finalmente degni di interesse gli indiani d’America. Questo preambolo non è, per altro, un atto d’accusa a Horizon: an american saga. Capitolo 1; una stroncatura, insomma. È semmai una difesa, del film di Costner, che se ha funzionato poco in termini di incassi non è affatto per scarsa qualità, ma, piuttosto, per i suddetti motivi circostanziali.
Che, infatti, funziona.
Non che lo siano divenuti nel frattempo, ma certo gli Apache sono un soggetto più complesso, da affrontare. Gli Apache erano, in effetti, una tribù bellicosa e, quando non fossero i bianchi a lamentare le loro scorrerie, i loro vicini, Zuni, Hopi, Pueblo tra gli altri, potevano tranquillamente confermarne la pericolosità. In sostanza: per quanto si dica che il progetto Horizon sia addirittura precedente a Balla coi lupi, nei primi anni Novanta, i Sioux erano la tribù perfetta per mettere sotto i riflettori i nativi americani. Di questi tempi, dominati dal famigerato «politicamente corretto» che pretende che si presentino le cose in modo sempre edulcorato, Costner può invece provare a sbaragliare il campo ribadendo come anche un popolo bellicoso per natura o per scelta, abbia ugualmente i suoi diritti: e gli Apache sono l’esempio quanto mai calzante. Va bene che i pellerossa non debbano essere necessariamente un argomento conosciuto ma sorprende come ci sia qualcuno che, tra i recensori, sia stupito di come gli Apache di questo primo episodio siano protagonisti quasi solamente di atrocità o comunque atti di violenza. Gli Apache vivevano di scorrerie a danno delle tribù vicine e, quando arrivarono i bianchi o i messicani, misero anche questi tra le loro possibili vittime. Va riconosciuto che i bianchi, e volendo anche i messicani, si rivelarono ben più crudeli e spietati, nel perseguire i propri propositi di conquista. Tuttavia Costner, forse per prevenire le critiche –che sono comunque piovute per l’eccessiva caratterizzazione violenta dei nativi della storia– inserisce una trama interna agli Apache, con il moderato vecchio capo Taklishim (Tatanka Means) che si oppone alla bellicosità del giovane Pionsenay (Owen Crow Shoe), in un confronto aspro ma non certo originale.
In quest’ottica sembra ascriversi anche l’attenzione formale del tenente Trent e del bravo sergente maggiore Riordan (Michael Rooker) che ricorrono a termini quali «indigeni» o «aborigeni» davvero improbabili per l’epoca per definire gli indiani ostili. Concessioni di Costner al citato «politically correct» che non inficiano la qualità della proposta, anche perché si tratta di dettagli marginali. E, a proposito di dettagli, ce ne sono di ben più cruciali e illuminanti. Ad esempio, il film si apre con un’inquadratura su alcune formiche: fugace citazione de Il Mucchio Selvaggio [The Wild Bunch, 1969, di Sam Peckinpah]? Probabile, del resto c’è anche una breve scena sotto il portico di una casa, che funge da cornice all’immagine, che ricorda un altro capolavoro western, Sentieri selvaggi [The Searchers, 1956, di John Ford]. Ma il paletto di legno, quadrato, che viene impiantato e scombina i poveri insetti, le formiche dell’incipit, ci dice che siamo di fronte anche ad una metafora: alcuni esseri viventi sono impegnati nelle loro beghe quando l’arrivo di altre creature manda all’aria il loro stesso mondo. E a confermare che siamo sulla pista giusta ci pensa la trama: in quel mentre, alcuni Apache stanno giusto guardando con non poca perplessità quello che accade. Sono infatti arrivati i primi coloni di Horizon, intenzionati ad insediarsi proprio lì, in pieno territorio indiano. L’aspetto più interessante della scena, nonostante sia una situazione che, ai nostri occhi, pare piuttosto intuibile, è l’incapacità di alcuni ragazzini apache di comprendere cosa stiano facendo gli «occhi bianchi» con i loro paletti di legno. Gli autori, attenti a non offendere i nativi e a non offrire sponde a critiche pretestuose, mettono in scena questo dialogo tra due ragazzini; se ne potrebbe dedurre che il loro spaesamento di fronte alle operazioni di lottizzazione del futuro insediamento, sia dovuto all’inesperienza. In realtà, per popolazioni «non alfabeta» quali erano gli indiani, il concetto di «dividere la terra» era fuori dalla capacità di comprensione. Fu questo il problema principale dei nativi al cospetto degli invasori, oltre, ovviamente, alla maggior evoluzione tecnologica di questi che, per altro, era una diretta conseguenza della mentalità alfabetizzata degli europei.
Questo sembra essere il tema, almeno come coordinata principale, di Horizon: an american saga: l’impatto di una cultura alfabetizzata in un ambiente primitivo. Questa era, in sostanza, la condizione degli originali abitanti dell’America, che non avevano neppure scoperto la ruota, o forse, stante l’ambiente favorevole, non avevano avuto la necessità di farlo. Ma, in seguito, si trovarono al cospetto di invasori che, dopo l’invenzione di Gutenberg –la stampa a caratteri mobili– la Rivoluzione Industriale e tutto quanto il resto, avevano maturato una mentalità efficacemente spietata in ogni ambito dello scibile umano. Non è un caso che il dettaglio centrale e cruciale su cui gira tutto quanto Horizon sia un ciclostilato che pubblicizza l’insediamento nella valle del San Pedro. La stampa è stata l’invenzione, dopo la ruota e l’alfabeto, cruciale della civiltà occidentale che ha fornito gli europei di uno schema mentale brutalmente risoluto ed efficace –razionale, in una parola– totalmente sconosciuto alle popolazioni non alfabetizzate. E, infatti, non è ancora una volta un caso che il protagonista di Horizon, Hayes Ellison, come prima cosa che fa, quando entra in scena, si rechi a dettare una lettera. E, alle maliziose allusioni di Marigold, risponde che, unendo gli sforzi a quelli del commesso, è in grado di saper leggere e scrivere quanto basta. Intanto, il marito della coppia di piedidolci snob che viaggia con la carovana è tutto preso a disegnare e annotare qualsiasi cosa veda dal suo conestoga. Ecco la superiore forma di evoluzione degli «occhi bianchi», non i fucili a ripetizione o i cannoni: la presunzione di agire per una nobile causa –la scienza– e l’incapacità di comprendere l’altro –gli indiani. La stessa incapacità dei ragazzini apache dell’incipit, ma vista dal versante opposto. Tanto le popolazioni non alfabetizzate hanno difficoltà a comprendere infatti la nostra civiltà, quanto noi di comprendere la loro: saranno anche popolazioni primitive, ma, a differenza nostra, utilizzano al meglio tutti e cinque sensi. La nostra cultura, quando ha mutato il linguaggio in una forma concettuale che ha trasformato in simboli grafici visivi quelli fonetici, perfino quelli più arditi come le consonanti, ha progressivamente relegato in soffitta tutti gli altri organi di senso. Le popolazioni non alfabetizzate, come gli Apache, quei sensi li adoperavano invece tutti, perché gli erano necessari per sopravvivere nell’ambiente ostile in cui abitavano. Per i coloni, gli indiani erano quindi altrettanto incomprensibili di quanto loro stessi non lo fossero agli occhi dei nativi.