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mercoledì 31 luglio 2024

SATANK, LA FRECCIA CHE UCCIDE

1521_SATANK, LA FRECCIA CHE UCCIDE (Santa Fe Passage). Stati Uniti 1955; Regia di William Witney.

Il titolo originale, Santa Fe Passage –mantenuto dal racconto breve di Clay Fisher preso a soggetto– è più discreto, ma i distributori italiani cercarono probabilmente di essere più chiari. Satank (George Keymas), è il nome del villain della storia e richiama in modo evidente il termine «Satana»; si tratta quindi del cattivo della storia ed è il capo dei Kiowas, una tribù di nativi americani. E per rimarcare l’idea, il sottotitolo scelto, «la freccia che uccide» evidenzia il carattere bellicoso e letale della tipica arma degli indiani. Siamo in un western del 1955, prodotto dalla Repubblic Pictures, che periodo, musica (di R. Dale Butts), e caldi colori (Trucolor), confermano essere un classico del genere. Ecco, a voler essere precisi, manca una star di grandissimo richiamo –il protagonista è John Payne nel ruolo di Kirby Randolph, guida di carovane– e anche il regista, William Witney, nonostante l’apprezzamento di Quentin Tarantino, non è considerato un nome di particolare prestigio. Tra le altre cose, il geniale regista italoamericano apprezzava la capacità di Witney di gestire con eleganza la macchina da presa, soprattutto nelle scene d’azione e con gli animali. Quasi a conferma di ciò, Satank, la freccia che uccide, dopo i classicheggianti titoli di testa, si apre con un forsennato inseguimento a cavallo: Sam (Slim Pickens), un bianco, è alle calcagna di un indiano che, infine, ruzzola a terra. Senza scendere da cavallo, Sam lo colpisce col calcio del fucile, stordendolo: poi lo guarda e sputa. Questo breve incipit è il primo campanello d’allarme: se gli indiani sono presentati come cattivi, i bianchi non sembrano propriamente nobili d’animo. Sputare è, di per sé, un gesto spregevole; farlo all’indirizzo di un avversario inerme è davvero inaccettabile. Tuttavia Sam, nel racconto, avrà più che altro il ruolo di «spalla» dell’eroe –che è ovviamente il citato Kirby– ed è il classico compagno un po’ più anziano che serve a stemperare con l’ironia la tensione della storia. Kirby e Sam sono le guide di una carovana diretta a Santa Fe e la presenza degli indiani Kiowas non lascia presagire nulla di buono; del resto il convoglio è ormai in pieno territorio indiano. Kirby decide quindi di prendere il toro per le corna e, con una dozzina di fucili, opportunamente sabotati, e un barilotto di Whiskey, va incontro a Satank cercando di barattare questi doni con l’incolumità della carovana. 

Pur con i loro bravi problemi –il capo kiowa è tanto intelligente quanto scaltro e diffidente– le due guide riescono a intrattenere, ubriacandoli, gli indiani. Quando Kirby e Sam, dopo aver tirato un colpo mancino a Satank per squagliarsela, giungeranno in paese, scopriranno però l’amara verità: i Kiowas si erano in precedenza separati e il grosso dei guerrieri aveva potuto attaccare la carovana, facendo una vera e propria strage. Ora il nome di Kirby Randolph è marchiato dall’infamia: mentre se la spassava ubriacandosi coi suoi amici «musi rossi», il convoglio che aveva affidato a lui le speranze di arrivare a destinazione, era stato sterminato da quegli stessi Kiowa. Il che era una doppia beffa per Kirby, che odiava con il massimo delle forze gli indiani, meticci e mezzosangue compresi. L’unico impiego che Kirby e Sam riescono a trovare è come guide per la carovana di Jess Griswold (Rod Cameron), destinata a Santa Fe per consegnare una partita di fucili ai messicani. La natura del carico, armi da fuoco che farebbero appunto gola agli indiani sul sentiero di guerra, fa vincere i pregiudizi circa la «fama» di Kirby, perlomeno a Jess. La sua socia, Aurelia (Faith Domergue), è invece fermamente contraria all’ingaggio della guida, così come il sovrastante, Tuss (Leo Gordon), che teme di essere scavalcato nelle gerarchie del convoglio. In effetti, Kirby e Tuss non si prendono certo in simpatia, e il fatto che quest’ultimo sia un mezzosangue è una giustificazione sufficiente, almeno per la guida. 

L’ostilità di Aurelia sembra invece avere altre motivazioni: la ragazza è oggetto di una corte sfrenata da parte di Jess, convinto a sposarla una volta a destinazione. Ma Aurelia non scioglie la riserva; e la presenza di un giovanotto aitante come Kirby, scatena quindi il classico gioco delle parti nel classico triangolo melodrammatico. In questo senso si può leggere quindi il suo essere scostante in modo innaturale e immotivato. Se ne accorge subito anche Ptewaquin (Irene Tedrow), donna indiana che l’accompagna e la assiste come sorta di domestica: la squaw, nonostante sia oggetto del disprezzo razzista di Kirby, fa notare alla giovane che l’uomo sia tutt’altro che da scartare. In effetti la cosa suona un po’ strana, ma Ptewaquin –che si rivelerà essere la vera eroina della storia– dimostrerà di avere capacità di andare oltre le apparenze. Anche Jess subodora che qualcosa possa bollire in pentola, tra Kirby e Aurelia, e minaccia l’uomo se ostacolerà i suoi piani di matrimonio con la ragazza; la guida replica seccato tanto per le minacce, quanto per l’insinuazione di un suo possibile coinvolgimento sentimentale. Tuttavia, durante un saggio di bravura del regista Witney, nel quale un’incursione di un enorme branco di cavalli selvaggi travolge il convoglio –spettacolari le scene che confermano la citata qualità specifica del regista– Kirby salva la vita ad Aurelia e la traccia romantica subisce una svolta decisiva. L’arrivo dei Kiowas fa precipitare gli eventi: Kirby e Tuss vengono pescati da Jess assenti dal posto di guardia. Se la guida se la sta spassando con Aurelia, ben più grave è la colpa del sovrastante, che si rivela essere in combutta con gli indiani. Jess non fa sconti, almeno a Tuss che viene freddato senza troppi indugi; la questione sentimentale è però più complessa e va gestita con tatto, senza inimicarsi Aurelia, invaghita ormai di Kirby. 

Durante l’assalto dei Kiowas, la guida si ritrova faccia faccia con il suo vecchio «amico» Satank: prima gli strappa mezza capigliatura, poi rimane ferito da una freccia in pieno petto. Sarà proprio un’indiana, Ptewaquin, ad estrargliela, salvandogli la vita; Kirby, imbevuto di whiskey per sopportare l’operazione, è troppo occupato a fare avances esplicite ad Aurelia, per riflettere sulla cosa. La ragazza cerca di dissimulare, ma ormai la tresca è evidente: messo alle strette, Jess, cala l’asso e informa il rivale che Aurelia è una meticcia. Qui, Witney, opera un opportuno salto temporale: dopo questo cruciale passaggio troviamo la guida di nuovo a cavallo, e sembra una forzatura nella trama, visto che era quasi moribondo. In realtà sono passati otto giorni, nei quali oltre a rimettersi, l’uomo ha accuratamente evitato Aurelia. Quando la ragazza, spronata da Ptwaquin, chiede spiegazioni, Kirby non vuole sentire ragioni: è un razzista convinto. Persino il suo amico Sam, quello che in principio aveva sputato dispregiativamente all’indirizzo dell’indiano tramortito, cerca di farlo ravvedere: gli indiani sono individui come altri, tra loro ci sono i pessimi soggetti, come Satank, ma anche persone rispettabilissime. Come Ptwaquin che, nel successivo scontro tra i Kiowa e la carovana, uccide Satank, salva la vita a Kirby e, come premio, si prende una mortale freccia nella schiena. Il gesto riesce, finalmente, a scuotere Kirby che, quando vede Aurelia inconsolabile, avrà un ulteriore scossone emotivo –e con lui anche gli spettatori: Prwaquin era la madre della ragazza. Nel finale, dopo che Jess si è riscattato nella sua tragica uscita di scena, Kirby sposa Aurelia ma lascia il prete e Sam in chiesa ad aspettare: lui è andato a legare il suo cavallo fuori dalla porta della sua sposa. Un matrimonio alla maniera dei Kiowa, per celebrare, degnamente, l’eroina della storia: Prwaquin. Una donna, indiana, protagonista morale di un western classico uscito nel 1955.
A referto per quanti sostengono ancora che fu il contro-western, negli anni 70, a rivalutare la questione indiana almeno al cinema.



Faith Domergue 



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lunedì 29 luglio 2024

LE MANS '66 - LA GRANDE SFIDA

1520_LE MANS '66 - LA GRANDE SFIDA (Ford v Ferrari). Stati Uniti 2019; Regia di James Mangold.

Sembra paradossale, ma, in Le Mans ’66 – La grande sfida, un film che dura oltre due ore e mezza e per il quale è stato profuso l’impressionante budget di un centinaio di milioni di dollari, i punti decisivi per il risultato positivo sono alcuni passaggi fugaci. Come il cenno di Enzo Ferrari (Remo Girone) a Ken Miles (un formidabile Christian Bale), tributo al vincitore morale nella 24 di Le Mans appena terminata. Oppure quello tra Carroll Shelby (Matt Damon) e Mollie (Caitriona Balfe), fresca vedova proprio di Miles, il pilota protagonista del film dell’apprezzato regista James Mangold. C’è anche il dettaglio del cappello di paglia, rimasto appeso e inquadrato prontamente da Mangold quando la Ford GT40 si schianta esplodendo: la ripresa non si avvicina, lasciano le fiamme che stanno divorando la vita di Miles sullo sfondo, con un riguardoso rispetto per la morte che solo un ambiente dove la si sfiora e corteggia costantemente – quello delle corse ma anche quello del cinema– può conoscere. Quest’ultimo passaggio porta con sé per sua natura un altro tasso di drammaticità, dal momento che il film è ispirato ai fatti reali e Ken Miles morì davvero nell’agosto del 1966, sul circuito di Riverside, mentre collaudava la nuova Ford da competizione. Gli altri due passaggi citati hanno invece un’importanza prettamente cinematografica e, trattandosi di una produzione americana, la loro valenza metaforica sociale è palese: Hollywood è l’America assai di più di qualsiasi centro produttivo cinematografico può esserlo del proprio paese d’origine. Il saluto che si scambiano Shelby e Mollie, nel finale, è un saluto che sembra un addio e chiude ad ogni possibile lieto fine sentimentale. D’accordo, il film è basato sulle cronache e, evidentemente, tra la vedova di Miles e il costruttore di auto sportive non ci fu mai nemmeno un flirt. Ma, in questo senso, qual è l’utilità di questa «chiusa»? Le Mans ’66 – La grande sfida non è un film così rigoroso in senso storico, gli errori e gli aggiustamenti che gli sceneggiatori hanno fatto, per rendere più avvincente racconto e ambientazioni, non si contano. 

Ergo, Shelby sarebbe potuto passare almeno a salutare la vedova dell’amico, invece se ne va; il film di Mangold, se riconosce alla famiglia un valore nell’intesa, pur tribolata, tra Miles e Mollie, non lascia concessioni per il futuro. E, in un film che non è tanto una metafora del Sogno Americano ma la sua diretta ed esplicita concretizzazione su grande schermo, non è un segnale molto incoraggiante. Il titolo originale del film è Ford v Ferrari, così, senza troppi mezzi termini: americani contro europei, con il continuo tirare in ballo la Seconda Guerra Mondiale a ricordare che gli abitanti del Vecchio Continente sono i «cattivi» della situazione. Questo ricorso ai toni bellici è alimentato a dovere da Mangold: Ford è un simbolo potente dell’America e per tutta la fase di preparazione del film, il regista spinge forte sul nazionalismo ai limiti dello sciovinismo. Ad esempio, il fatto che, al tempo, fosse diffusa l’opinione, soprattutto in Europa, che la casa americana non producesse auto sportive competitive non è considerato una semplice costatazione della realtà dei fatti, ma una sorta di offesa alla dignità yankee. In quest’ottica, tanto per non sbagliare, viene imbastito anche un triste teatrino, dove Enzo Ferrari in persona insulta pesantemente Henry Ford II e utilizza l’inganno strumentale a danno degli americani per spuntare un prezzo migliore nella trattativa con l’Avvocato Agnelli. Che ci fosse rivalità anche personale tra i due boss di Ford e Ferrari è noto, così come è noto che l’Enzo nazionale non fu certamente uno stinco di santo; il passaggio di Mangold è, tuttavia, stilizzato rozzamente ai limiti della caricatura. Insomma, gli americani sono i buoni e, partendo da zero –beh, considerando i capitali a disposizione, non proprio zero, ma vabbè– riusciranno a sconfiggere –ancora una volta, ricordatevi la Guerra Mondiale– i cattivi, gli europei. In tutto questo, gli eroi sono Shelby, ex campione a Le Mans, ritiratosi per un un problema cardiaco e ora costruttore di auto sportive, e l’individualista, ribelle e squattrinato Ken Miles: la loro rivincita è il Sogno Americano al quadrato.   

Ma si diceva di quel cenno, tra Miles e Ferrari, che il Drake rivolge al pilota dopo la fine della gara che ha sancito il trionfo degli americani. Basta quel rapido movimento, per restituire interamente la dignità al «grande ingegnere» di Maranello e cambiare interamente la prospettiva del racconto che si era srotolato fin lì. Questo, per altro, era semplicemente l’ultimo tassello, quello che faceva quadrare definitivamente il mosaico, e rendeva chiaro tutto quanto il disegno complessivo. I cattivi non erano gli europei, ma i «colletti bianchi» della Ford, con il tycoon, nel suo caso dipinto in modo più che caricaturale, in testa ma tutti gli altri giovani rampolli del gruppo manageriale a fargli da degno corollario. Il peggiore, per distacco, è Leo Beebe (Josh Lucas), storico direttore di corsa della Ford che, con l’idea pubblicitaria e per nulla sportiva dell’arrivo in parata delle auto del team, vanificò la legittima vittoria di Miles. Il pilota di origine britannica era primo con considerevole vantaggio e venne invitato dal box a rallentare per aspettare le due GT40 che lo seguivano: Miles non voleva sentir ragioni ma, alla fine, fu convinto ad accettare di frenarsi. L’arrivo delle auto affiancate provocò, tuttavia, un ribaltone in classifica, perché l’equipaggio Bruce McLaren/Chris Amon, essendo partito da una posizione più arretrata, aveva quindi percorso più metri rispetto a quello di Ken Miles/Denny Hulme. La 24 ore di Le Mans è infatti una corsa in cui il parametro fisso è il tempo –le 24 ore, appunto– pertanto la discriminante per stabilire il vincitore è la distanza percorsa. Le cronache riportano che Beebe fosse ben informato che l’arrivo in parata non poteva in nessun caso corrispondere ad un ex-aequo, essendo diversa la distanza coperta dalle vetture, tuttavia antepose la possibilità di una immagine trionfale al rispetto per lo spirito sportivo e per il rischioso e duro lavoro dei suoi piloti. Il problema, per il Sogno Americano, era stato nel corso del tempo minato al suo interno: il ricorso ai manager, da parte degli imprenditori, creava un ostacolo insormontabile alla realizzazione personale di chi partisse dal basso e cercasse di emergere. I vertici professionali non erano infatti più un premio ai lavoratori meritevoli, ma spettavano per diritto d’ufficio ad una casta che veniva preparata e formata «ad hoc» e di cui il Beebe del film di Mangold è un perfetto esempio.

A questo punto, tra l’altro, sorge un sospetto sinistro: in principio, nel racconto, viene ricordato più volte il conflitto mondiale, e, non a caso, le scuderie «nemiche» sono Porsche, tedesca – con cui Miles manda a monte l’accordo che Shelby aveva già quasi concluso– e Ferrari, italiana. Proprio i nemici degli americani nella guerra, appunto. Soltanto che, in seguito, scopriamo che i veri cattivi della storia, erano i «colletti bianchi» americani. Come noto, il paragone come figura retorica ha, tra le sue proprietà, quello della reversibilità, il che ci porterebbe a rivedere valutazioni ormai consolidate sulla Seconda Guerra Mondiale. Ma non è questa la sede e, in ogni caso, ci basta e avanza il dubbio che Mangold riesce ad instillarci.  
Tornando strettamente a Le Mans ’66 – La grande sfida –se ci si tura il naso per la prima parte intrisa di uno sciovinismo degno di Michel Vaillant– si tratta di un buon film, divertente, con ottime scene di pista e auto spettacolari come la Ford GT 40 MkII del protagonista e la rivale Ferrari 330 P3. Quei tre tocchi citati, riescono, in ogni caso, a giustificare la prospettiva del racconto filmico, rimettendo in carreggiata un po’ tutto quanto. Va detto che, il titolo originale, Ford v Ferrari riveli come, almeno dal punto di vista italiano, venga a mancare un po’ di fascino complessivo. Comprensibile, quindi, la scelta dei distributori del Belpaese di non utilizzare il titolo americano: in Italia, infatti, nessuno si sognerebbe di mettere in antagonismo un marchio di auto generiche come Ford con l’assoluta regina planetaria della velocità in pista, la Ferrari. La scuderia del Cavallino Rampante, nella sua lunghissima storia, ha perso numerose battaglie –come a Le Mans nel 1966, appunto– ma ha raccolto soprattutto tantissime vittorie, probabilmente come nessun’altro marchio. Ottenute cercando di mantenere, nonostante le mille insidie politiche e di giochi di squadra, la barra dritta sullo spirito sportivo della contesa in pista.
La Ford, quando vinse la sua prima corsa a Le Mans, una delle gare più prestigiose del mondo, trovò il modo di trasformarla in una sfilata degna di un concessionario di automobili usate.  
E questa è la differenza. 





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sabato 27 luglio 2024

IL CACCIATORE DI UOMINI

1519_IL CACCIATORE DI UOMINI (El Canìbal). Spagna, Germania Ovest, Francia 1980; Regia di Jesùs Franco.

Una valutazione può spesso dipendere dalla prospettiva che si adotta nell’analisi: ad esempio, se Il cacciatore di uomini, film dell’ineffabile Jesús Jess Franco, lo prendiamo in sé, c’è un po’ da mettersi le mani nei capelli. Diversamente, se vi si approccia dopo aver visto La dea cannibale, opera dello stesso autore, anno, genere e tenore, allora le sensazioni potrebbero essere più positive. In effetti, Il cacciatore di uomini, ha qualche spunto positivo, o almeno migliore rispetto al citato precedente di Franco in ambito cannibal: innanzitutto l’ambientazione è assai più plausibile. Anche la tribù cannibale, forse il tasto più dolente ne La dea cannibale, è stavolta molto più presentabile, non poi meno credibile di quanto in genere queste figure non lo siano nelle produzioni a basso costo. Il canovaccio lascia qualche perplessità, a dirla tutta, ma va detto che, nella fruizione, giova la narrazione scarna che non rivela troppi dettagli, almeno nella prima parte. C’è, per la verità, un insistito montaggio alternato che viene presto a noia, soprattutto perché lascia intendere un parallelismo, tra la vita degli indigeni e quella di una moderna città occidentale, piuttosto estemporaneo. Si può leggere, in effetti, un malcelato moralismo da parte di Franco, che sembra alludere che tra le due società mostrate, quella dei cannibali e quella cosiddetta occidentale, non ci sia poi tutta questa differenza. Il confronto sembra proprio un atto di accusa ai pregiudizi dell’uomo bianco ma, poi, Franco, nella sua messa in scena, ne fa pesantemente ricorso.
La trama si snoda su passaggi poco plausibili su cui lo spettatore è chiamato a sorvolare e le bellezze discinte che imperversano sullo schermo sono un incentivo in questo senso. Un gruppo di criminali rapisce Laura, (Ursula Buchfellner), una bellissima modella, chiedendo un cospicuo riscatto. Incautamente, i rapitori portano la ragazza in una misteriosa isola popolata da una tribù cannibale; intanto, il reduce del Vietnam Peter Weston (Al Cliver alias Pierluigi Conti) è ingaggiato per liberarla. Tra i passaggi davvero troppo superficiali del racconto, salta all’occhio lo stratagemma di Peter per ingannare i criminali: il nostro prode eroe si lancia da un elicottero lasciando il velivolo libero di schiantarsi, simulando quindi un incidente. Al netto del fatto che i banditi poi manco ci cascano, viene da chiedersi se qualcuno di coloro abbia lavorato al soggetto o alla sceneggiatura, abbia una vaga idea di quanto possa costare un elicottero. Domande forse inopportune, a fronte di un film di Jess Franco, ma in un film che insiste a percorrere sentieri narrativi avventurosi sono anche ineludibili. Nel complesso, come detto, il film è gravemente insufficiente, penalizzato dai troppi elementi risolti in modo dozzinale e superficiale. Stavolta le scene cannibaliche non sono il piatto forte del film di Franco, per quanto possano essere considerate accettabili, perlomeno nel loro essere disgustose. Ursula Uschi Buchfellner, infatti, è davvero uno spettacolo e la sua bellezza folgorante riesce a rimanere immacolata anche in mezzo all’immondizia cinematografica.


Ursula Uschi Buchfellner




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giovedì 25 luglio 2024

HORIZON: AN AMERICAN SAGA. CAPITOLO 1

1518_HORIZON: AN AMERICAN SAGA. CAPITOLO 1 . Stati Uniti 2024; Regia di Kevin Costner.

Al di là delle recensioni, che non hanno stroncato ma nemmeno esaltato Horizon: an american saga. Capitolo 1, la nota più critica dell’opera sembra lo scarso riscontro al botteghino. Il monumentale film di Kevin Costner è costato una fortuna, in parte sborsata dallo stesso cineasta americano in prima persona, e c’è da sperare che possa completarsi nei quattro capitoli previsti, a prescindere dal box-office. La scommessa di Costner, che con Balla coi lupi [Dances with wolves, 1990], aveva sbancato Hollywood, l’Academy e tutto quanto il mondo, stavolta non sembra funzionare, nonostante le apparenti analogie. Al tempo, il cinema sul grande schermo era stato messo in crisi dalla televisione e, per parare il colpo, si era messo a scimmiottare la rivale con produzioni sempre più ordinarie e minimaliste. Costner era quindi andato completamente controcorrente: fotografia maestosa in risposta ai foschi schermi dei tubi catodici domestici, racconto ad amplissimo respiro narrativo opposto alla frenesia televisiva, lunghezza ingombrante da contrapporre ai prodotti sminuzzati, buoni per riempire qualunque momento della giornata e senza pretese di particolare attenzione, tipici della tv del periodo. In aggiunta a questo ribaltone concettuale del prodotto offerto, Balla coi lupi era un western, un genere ormai considerato obsoleto. E, ciliegina sulla torta, era un western filo indiano; non che questo fosse una novità nel cinema hollywoodiano, tutt’altro, ma lo era nella consapevolezza della proposta. A naso, possibilità che fosse un successo, davvero poche; risultato, box-office alle stelle ovunque e sette premi Oscar. Con Horizon: an american saga. Capitolo 1 Costner ci riprova: il cinema, forse, non è in crisi come alla fine degli anni Ottanta, ma certo le serie Tv stanno prendendo il sopravvento, nel gradimento del pubblico. Anche lo stato di salute del western, come genere, è forse migliore che al tempo, visto che ormai si è capito che non torneranno mai più i fasti della Golden Age degli anni Cinquanta, ma ogni tanto qualche bel film ambientato alla frontiera trova posto nelle sale cinematografiche. E non solo: Yellowstone [2018-in corso, serie Tv ideata da Taylor Sheridan e John Linson] è una produzione televisiva di grande successo e, tra l’altro, il protagonista è proprio Kevin Costner. 

Forse, è proprio il successo e la complessiva buona finitura di questa serie, ad aver contribuito a dare l’ultima spinta al cineasta americano per decidersi a produrre Horizon, un progetto che covava sin dalla fine degli anni Ottanta. Costner, azzarda quindi anche stavolta ma con una diversa strategia: la lunghezza monstre, ben quattro capitoli di cui il primo da tre ore, ricalca proprio quella di una stagione di una serie Tv. E anche con il tema western, Horizon finisce per inserirsi esattamente nella scia della recente Yellowstone: non siamo, quindi, di fronte ad una vera svolta a 180° come nel caso di Balla coi lupi, ma, semmai, c’è il tentativo di portare il format della serie televisive nelle sale cinematografiche. E, forse, anche questo è uno dei motivi che spiega la risposta tiepida del pubblico: perché andare al cinema quando prodotti simili –leggi Yellowstone, appunto– si possono vedere sullo schermo piatto da 50 pollici di casa? Al contrario, all’epoca, alla maestosità offerta da Balla coi lupi non c’era alternativa; e poi, forse, i tempi erano maturi perché la gente comune trovasse finalmente degni di interesse gli indiani d’America. Questo preambolo non è, per altro, un atto d’accusa a Horizon: an american saga. Capitolo 1; una stroncatura, insomma. È semmai una difesa, del film di Costner, che se ha funzionato poco in termini di incassi non è affatto per scarsa qualità, ma, piuttosto, per i suddetti motivi circostanziali.


Perché il primo capitolo di Horizon è un signor film, altroché.
In genere, a suscitare qualche perplessità è anche la complessità del canovaccio, con tre segmenti narrativi che procedono simultaneamente e si interrompono, spezzando vicendevolmente il ritmo delle sottotrame. Si tratta di contestazioni un po’ pretestuose perché siamo di fronte ad un normale schema narrativo, almeno in questo tipo di racconti a lunghissimo respiro, laddove ci siano da orchestrare un grande numero di personaggi che si muovono su binari che, prima di intersecarsi, hanno da compiere i loro percorsi. E così, in principio, quando si mette in modo il colossale meccanismo narrativo, occorre un po’ di tempo per carburare. Questo volendo accogliere le istanze di chi ritienga poco coinvolgente Horizon: an american saga. Capitolo 1, che, ad onor del vero, non è un blockbuster rutilante di ultima generazione. In realtà, non ci sono problemi di fruibilità nelle tre ore e la noia mai si affaccia durante la proiezione del film; casomai, per coloro hanno notato qualcosa del genere, sarebbe da chiedersi perché diamine sia ritenuto necessario che il ritmo del cinema debba andare sempre a tavoletta. Da un punto di vista narrativo, il primo capitolo di Horizon funziona a dovere; Costner conosce i tempi del cinema classico, e, seppure quell’epoca sia ormai morta e sepolta, chi ne custodisce le coordinate può tranquillamente frequentarla con profitto. Qualche saltello nella sceneggiatura –ad esempio, i pettegolezzi sull’interessamento del tenente Trent (Sam Worthington) per la bella vedova Frances Kittredge (Sienna Miller) di cui si parla sebbene nel film non ve ne sia traccia– non possono rappresentare certo un serio appunto agli sceneggiatori. È evidente che lo stesso Costner e Jon Baird, alle prese con lo script, abbiano confidato nella perspicacia degli spettatori e, a fronte di una mole di dettagli narrativi enorme, abbiano tagliato ciò che si poteva tagliare senza inficiare la funzionalità del testo.

Che, infatti, funziona.  
Come detto, da un punto di vista strettamente narrativo, il primo capitolo di Horizon si sviluppa seguendo tre tracce differenti, alle quali va aggiunta una parte, per ora neppure eccessiva, dedicata agli Apache. Tutto sembra ruotare intorno all’insediamento di coloni chiamato Horizon; Frances, il citato personaggio della Miller, è appunto una dei pochi sopravvissuti all’attacco degli indiani –uno dei passaggi più spettacolari del film– e il tenente Trent, con cui finisce per flirtare, è di stanza in un forte militare non troppo lontano. Hayes Ellison (Kevin Costner) è un pistolero che si trova invischiato in una faccenda pericolosa ed è costretto dalle circostanze a fare da balia alla prostituta Marigold (Abbey Lee) e al ragazzino che l’accompagna. Sulle loro tracce, i temibili fratelli Sykes, pendagli da forca degni di un sordido spaghetti-western. Questa pista narrativa comincia più a nord ma è evidente che ha il suo polo d’attrazione nella valle del fiume San Pedro dove i nostri cocciuti coloni stanno cercando di insediarsi a dispetto degli Apache. E ad Horizon è diretta anche la carovana, il cui accidentato viaggio nel selvaggio west costituisce il terzo binario del racconto: qui il personaggio principale è, per il momento, Matthew Van Weyden (Luke Wilson), il capo convoglio. Ma a colpire nel primo capitolo di Horizon, più che i dettagli narrativi, sono alcuni particolari che Costner predispone. Innanzitutto c’è da valutare come venga affrontata la «questione indiana»: in Balla coi lupi erano di scena i Lakota, comunemente noti come Sioux, una nazione che ben si prestava ad un tributo alla cultura degli indiani d’America, in un momento storico dove non erano particolarmente d’attualità. 

Non che lo siano divenuti nel frattempo, ma certo gli Apache sono un soggetto più complesso, da affrontare. Gli Apache erano, in effetti, una tribù bellicosa e, quando non fossero i bianchi a lamentare le loro scorrerie, i loro vicini, Zuni, Hopi, Pueblo tra gli altri, potevano tranquillamente confermarne la pericolosità. In sostanza: per quanto si dica che il progetto Horizon sia addirittura precedente a Balla coi lupi, nei primi anni Novanta, i Sioux erano la tribù perfetta per mettere sotto i riflettori i nativi americani. Di questi tempi, dominati dal famigerato «politicamente corretto» che pretende che si presentino le cose in modo sempre edulcorato, Costner può invece provare a sbaragliare il campo ribadendo come anche un popolo bellicoso per natura o per scelta, abbia ugualmente i suoi diritti: e gli Apache sono l’esempio quanto mai calzante. Va bene che i pellerossa non debbano essere necessariamente un argomento conosciuto ma sorprende come ci sia qualcuno che, tra i recensori, sia stupito di come gli Apache di questo primo episodio siano protagonisti quasi solamente di atrocità o comunque atti di violenza. Gli Apache vivevano di scorrerie a danno delle tribù vicine e, quando arrivarono i bianchi o i messicani, misero anche questi tra le loro possibili vittime. Va riconosciuto che i bianchi, e volendo anche i messicani, si rivelarono ben più crudeli e spietati, nel perseguire i propri propositi di conquista. Tuttavia Costner, forse per prevenire le critiche –che sono comunque piovute per l’eccessiva caratterizzazione violenta dei nativi della storia– inserisce una trama interna agli Apache, con il moderato vecchio capo Taklishim (Tatanka Means) che si oppone alla bellicosità del giovane Pionsenay (Owen Crow Shoe), in un confronto aspro ma non certo originale. 

In quest’ottica sembra ascriversi anche l’attenzione formale del tenente Trent e del bravo sergente maggiore Riordan (Michael Rooker) che ricorrono a termini quali «indigeni» o «aborigeni» davvero improbabili per l’epoca per definire gli indiani ostili. Concessioni di Costner al citato «politically correct» che non inficiano la qualità della proposta, anche perché si tratta di dettagli marginali. E, a proposito di dettagli, ce ne sono di ben più cruciali e illuminanti. Ad esempio, il film si apre con un’inquadratura su alcune formiche: fugace citazione de Il Mucchio Selvaggio [The Wild Bunch, 1969, di Sam Peckinpah]? Probabile, del resto c’è anche una breve scena sotto il portico di una casa, che funge da cornice all’immagine, che ricorda un altro capolavoro western, Sentieri selvaggi [The Searchers, 1956, di John Ford]. Ma il paletto di legno, quadrato, che viene impiantato e scombina i poveri insetti, le formiche dell’incipit, ci dice che siamo di fronte anche ad una metafora: alcuni esseri viventi sono impegnati nelle loro beghe quando l’arrivo di altre creature manda all’aria il loro stesso mondo. E a confermare che siamo sulla pista giusta ci pensa la trama: in quel mentre, alcuni Apache stanno giusto guardando con non poca perplessità quello che accade. Sono infatti arrivati i primi coloni di Horizon, intenzionati ad insediarsi proprio lì, in pieno territorio indiano. L’aspetto più interessante della scena, nonostante sia una situazione che, ai nostri occhi, pare piuttosto intuibile, è l’incapacità di alcuni ragazzini apache di comprendere cosa stiano facendo gli «occhi bianchi» con i loro paletti di legno. Gli autori, attenti a non offendere i nativi e a non offrire sponde a critiche pretestuose, mettono in scena questo dialogo tra due ragazzini; se ne potrebbe dedurre che il loro spaesamento di fronte alle operazioni di lottizzazione del futuro insediamento, sia dovuto all’inesperienza. In realtà, per popolazioni «non alfabeta» quali erano gli indiani, il concetto di «dividere la terra» era fuori dalla capacità di comprensione. Fu questo il problema principale dei nativi al cospetto degli invasori, oltre, ovviamente, alla maggior evoluzione tecnologica di questi che, per altro, era una diretta conseguenza della mentalità alfabetizzata degli europei. 

Questo sembra essere il tema, almeno come coordinata principale, di Horizon: an american saga: l’impatto di una cultura alfabetizzata in un ambiente primitivo. Questa era, in sostanza, la condizione degli originali abitanti dell’America, che non avevano neppure scoperto la ruota, o forse, stante l’ambiente favorevole, non avevano avuto la necessità di farlo. Ma, in seguito, si trovarono al cospetto di invasori che, dopo l’invenzione di Gutenberg –la stampa a caratteri mobili– la Rivoluzione Industriale e tutto quanto il resto, avevano maturato una mentalità efficacemente spietata in ogni ambito dello scibile umano. Non è un caso che il dettaglio centrale e cruciale su cui gira tutto quanto Horizon sia un ciclostilato che pubblicizza l’insediamento nella valle del San Pedro. La stampa è stata l’invenzione, dopo la ruota e l’alfabeto, cruciale della civiltà occidentale che ha fornito gli europei di uno schema mentale brutalmente risoluto ed efficace –razionale, in una parola– totalmente sconosciuto alle popolazioni non alfabetizzate. E, infatti, non è ancora una volta un caso che il protagonista di Horizon, Hayes Ellison, come prima cosa che fa, quando entra in scena, si rechi a dettare una lettera. E, alle maliziose allusioni di Marigold, risponde che, unendo gli sforzi a quelli del commesso, è in grado di saper leggere e scrivere quanto basta. Intanto, il marito della coppia di piedidolci snob che viaggia con la carovana è tutto preso a disegnare e annotare qualsiasi cosa veda dal suo conestoga. Ecco la superiore forma di evoluzione degli «occhi bianchi», non i fucili a ripetizione o i cannoni: la presunzione di agire per una nobile causa –la scienza– e l’incapacità di comprendere l’altro –gli indiani. La stessa incapacità dei ragazzini apache dell’incipit, ma vista dal versante opposto. Tanto le popolazioni non alfabetizzate hanno difficoltà a comprendere infatti la nostra civiltà, quanto noi di comprendere la loro: saranno anche popolazioni primitive, ma, a differenza nostra, utilizzano al meglio tutti e cinque sensi. La nostra cultura, quando ha mutato il linguaggio in una forma concettuale che ha trasformato in simboli grafici visivi quelli fonetici, perfino quelli più arditi come le consonanti, ha progressivamente relegato in soffitta tutti gli altri organi di senso.  Le popolazioni non alfabetizzate, come gli Apache, quei sensi li adoperavano invece tutti, perché gli erano necessari per sopravvivere nell’ambiente ostile in cui abitavano. Per i coloni, gli indiani erano quindi altrettanto incomprensibili di quanto loro stessi non lo fossero agli occhi dei nativi.
Sul piano concreto, la maggior tecnologia a disposizione è l’elemento che decise le sorti dell’invasione; le armi da fuoco, certo, perfino i cannoni, all’occorrenza. Eppure la vera arma finale dei bianchi è quella che, nel finale del capitolo 1 di Horizon, in quella lunga sequenza di immagini che è una sorta di anteprima per il proseguo del film, è sinistramente riproposta a più riprese, nel suo martellante e incessante lavoro: la macchina da stampa.





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