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mercoledì 3 luglio 2024

IL GIURAMENTO DEI SIOUX

1507_IL GIURAMENTO DEI SIOUX (The savage). Stati Uniti 1952; Regia di George Marshall.

The savage, questo il titolo originale, è un onesto film western del 1952, ennesima aperta dimostrazione che ad Hollywood, già negli anni Cinquanta, la «questione indiana» fosse inquadrata con la corretta prospettiva. Di fondo la ragione è dalla parte dei nativi; c’è semmai da accettare con realismo il fatto che i bianchi fossero più numerosi e meglio armati e, di conseguenza, andasse trovato un compromesso per limitare inutili spargimenti di sangue. Ne Il giuramento dei Sioux non ci sono soltanto i pellerossa citati dal titolo, ma figurano, come nemici tanto dei bianchi che degli stessi Sioux, i Crow. Questo aspetto è una ulteriore dimostrazione di come il regista George Marshall cerchi di fornire un quadro complessivo più rispondente al vero e meno stereotipato di quanto in genere si sostenga facesse il cinema. Quelli che per gli uomini bianchi erano tutti indistintamente selvaggi, erano al contrario un mosaico di popoli spesso anche in contrapposizione tra loro. Marshall sfrutta proprio l’ostilità tra i Sioux e i Crow per impartire una salutare lezione al protagonista, James ‘Jim’ Aheme (Charlton Heston), cresciuto tra gli indiani col nome di Imbattibile. Da bambino, con la sua famiglia, il nostro eroe faceva parte di una carovana in viaggio verso ovest quando il convoglio venne attaccato dai Crow; l’intervento dei Sioux gli salvò la vita, ma nessuno dei suoi compagni sopravvisse. Jim fu adottato dal capo Sioux Aquila Bianca (Ian MacDonald), che, ammirato dell’audacia del ragazzino, lo battezzò Imbattibile. Il giovane crebbe odiando i Crow e integrandosi perfettamente tra i Sioux, almeno finché sulla sua strada si trovarono i soldati e, soprattutto, Tally (Susan Morrow), la bella sorella del tenente Hathersall (Peter Hansen). Al di là dei complessi intrecci della trama, che verte su una serie di tradimenti o presunti tali, il punto cruciale è che il protagonista si trova in una situazione piuttosto scomoda: è stato allevato dagli indiani, ma la sua pelle tradisce la sua origine; d’altro canto non può certo definirsi «bianco», dal momento che, in cuor suo, si sente, integralmente sioux. 

Ad aggravare la situazione, c’è l’ottusità di alcuni ufficiale che, in modo del tutto gratuito, uccidono la sorellastra del protagonista, Luta (Joan Taylor), scatenando la rabbia dei Sioux, Imbattibile in testa. Interessante, in questo già problematico intarsio, la posizione dei Crow: il protagonista, si è detto, li odia, del resto hanno sterminato la sua famiglia, e, ad un certo punto, approfitta di questa acredine per mettere sulle loro tracce i soldati, che li prendono a cannonate. Il giovane, in questi passaggi, sembra quasi gustarsi il massacro dei suoi nemici, da parte di altri nemici che presto intende portare in trappola, per finire sterminati a loro volta in modo da vendicare la sorella uccisa. Poi capita qualcosa: alla colonna dei soldati si aggrega una carovana di coloni, uomini, donne, bambini, proprio un convoglio come il suo, quello che venne assaltato dai Crow. Una donna, credendolo una guida dei soldati, gli offre dei biscotti. Gli stessi Crow, superstiti dal precedente scontro e catturati dai soldati, si dimostrano uomini di parola, né più né meno come possono essercene tra i Sioux o tra i bianchi, tra i quali si può trovare gente di ogni tipo, del resto. In effetti, anche tra i Sioux ci sono elementi infidi e traditori, per un quadro generale, tutto sommato, tridimensionale. Se la «questione indiana» è quindi affrontata in modo sorprendentemente maturo, e i nativi sono ben lungi dall’essere tratteggiati come i «cattivi» della vicenda, anche l’altro classico rilievo che viene mosso al genere western, il «whitewashing», è tenuto presente da Marshall. Il cinema americano è spesso accusato di aver maltrattato gli indiani sullo schermo, costringendoli in ruoli negativi e stereotipati. Anche ne Il giuramento dei Sioux si può notare come ai nativi vengano riconosciute le maggiori ragioni nella disputa con gli invasori bianchi; quanto agli stereotipi, appare chiaro che al cinema la figura dell’indiano fosse stilizzata né più né meno di quella del cowboy, del bandito, dello sceriffo e via di questo passo, in una rappresentazione, il western, fortemente simbolica. L’altra critica al genere è legata al fatto che i ruoli principali, anche nel caso di personaggi indiani, fossero sempre appannaggio di interpreti bianchi. 

In questo senso Charlton Heston ne Il giuramento dei Sioux sembra l’ennesima conferma. Se, almeno in parte, questo discorso può avere dei riscontri più concreti, al di là delle considerazioni generali –il cinema hollywoodiano non è un’espressione artistica universale ma solo della cultura statunitense, e quindi è un suo limite naturale che si identifichi con quella utilizzando i propri attori per interpretarla– Il giuramento dei Sioux presenta alcuni accorgimenti della trama che provano a smussarne le asperità. È fuori di dubbio che Heston sia un bianco, ma il canovaccio ne rende plausibile l’impiego; inoltre nel film furono utilizzati circa 200 nativi tra le comparse, tra cui il figlio novantunenne di Toro Seduto, John. Queste informazioni si trovano sulla pagina di Wikipedia in lingua italiana dedicata al film, che, in proposito, cita a sua volta il sito AFI American Film Institute, consultato il 23 aprile 2013. <https://it.wikipedia.org/wiki/Il_giuramento_dei_Sioux visitato il 16 maggio 2024>. In ogni caso era abbastanza usuale, ad Hollywood, l’impiego di comparse tra i nativi per rendere verosimili le scene con gli indiani che, se vogliamo proprio vedere, era già una forma di rispetto, un tentativo di fornirne un quadro d’insieme attendibile. Il cosiddetto «whitewashing», il fenomeno per cui si sceglievano attori bianchi per interpretare anche ruoli di altre etnie, come detto, è sopravvalutato, non essendo Hollywood, e il cinema in generale, depositario di alcuna verità assoluta, ma solo di uno sguardo parziale e come tale va preso. Accanto a questa pratica, e prima dell’abitudine di impiegare attori dell’etnia corrispondente al personaggio, ci furono interpreti che si specializzarono nei ruoli di persone di una certa etnia, non necessariamente appartenendovi. Ne Il giuramento dei Sioux la bella Joan Taylor cominciò con Luta una serie di personaggi di native americane che ne caratterizzarono la carriera. C’è da dire che il sito IMDb, nelle curiosità, afferma che la Taylor avesse ascendente indiane <http://www.imdb.com/title/tt0045123/trivia/?ref_=tt_trv_trv visitato il 16 maggio 2024>, nel qual caso, sarebbe anche una sorta di attenzione in più che il film di George Marshall dimostra verso la cultura aborigena. Un’attenzione che, al di là di questi dettagli, permea tutta quanta la pellicola.



 Joan Taylor





Susan Morrow


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lunedì 1 luglio 2024

LA VITA DI VERNON E IRENE CASTLE

1506_LA VITA DI VERNON E IRENE CASTLE (The story of Vernon e Irene Castle). Stati Uniti 1939; Regia di Henry C. Potter.

A prescindere dal presupposto che se c’è Ginger Rogers un film è comunque meritevole, La vita di Vernon e Irene Castle è una piacevole commedia musicale oltre che un originale biopic. Il film è infatti incentrato sulla vita di Vernon Castle (Fred Astair) e sua moglie Irene (la divina Ginger Rogers, appunto), due figure di spicco della storia del ballo avendo contribuito agli inizi del secolo scorso a sviluppare nuovi stili come lo one-step o il turkey trot e avendone uno, il Castle Walk, addirittura che ne tributa l’importanza sin dal nome. Naturalmente il lungometraggio di H.C. Potter non si perde in disquisizioni tecniche troppo specifiche e, per lo spettatore generico, Ginger e Fred, quando devono ballare, si limitano a trascinare lo spettacolo con la loro travolgente verve. Essendo una storia biografica, condotta sotto la supervisione diretta della vera Irene Castle, autrice del soggetto, il racconto ha qualche fase meno scorrevole ma, nel complesso, si lascia seguire. Vero è che la Castle si lamentò di alcuni dettagli, dai capelli che Ginger rifiutò di tingersi di nero, al fatto che il suo tutore Walter nel film non era un uomo di colore, essendo interpretato dal mitico Walter Brennan. In queste puntualizzazioni ci si può leggere la proverbiale miopia di chi pensa che il cinema sia semplicemente l’arte di riprodurre la realtà. In realtà il cinema, proprio per la sua capacità di simulare il reale, non si limita a riprodurlo ma crea qualcosa d’altro, la finzione. E lamentarsi di Ginger Rogers o Walter Brennan, due mostri sacri della settima arte, in virtù di una mancanza di stretta somiglianza con personaggi misconosciuti è un po’ clamoroso. Qui non siamo di fronte ad un attore di periferia che interpreta il personaggio storico; semmai, nonostante i citati meriti dei Castle, è vero il contrario, perché gli interpreti del film sono delle autentiche star anche al di fuori del loro ambito professionale ed è grazie al loro contributo che la vicenda originale può salire alla ribalta. In ogni caso, Brennan si occupa dei ritagli marginali con il consueto mestiere, mentre Ginger è al solito splendida, anche nell’interpretare la ballerina imbranata dell’inizio della storia e, all’occorrenza, mostra un pizzico di quel suo piglio che sfoderava nelle commedie più pepate (ad esempio quelle meravigliose di Gregory La Cava come La ragazza della Quinta Strada o Palcoscenico). Fred Astaire, dal canto suo, se la cava molto bene sia come attore comico, negli sketch della prima parte che, ovviamente, come ballerino. Meno convincente nel ruolo di pilota di aereo della Prima Guerra Mondiale dove, in effetti, finisce per schiantarsi durante un’esercitazione mettendo fine alla sua carriera di aviatore e di artista. Oltre che del film che, al netto di una conduzione tutto sommato leggera, si chiude in modo tragico, caso atipico per un musical della coppia Ginger & Fred. 






Ginger Rogers 






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