1412_THE REBEL'S SON . Regno Unito 1938; Regia di Adrian Brunel, Albert de Courville e Alexis Granowsky.
Come già per il precedente Le notti moscovite (1934) anche il successivo film di Alexis Granowsky, Taras Bulba (1936), finì per meritarsi una versione inglese. Il cinema sonoro era, negli anni 30, ancora agli inizi e rigirare interamente un film per proporlo in paesi di lingua diversa, evidentemente, doveva sembrare una soluzione valida: la versione originale era francese e, anche in questo caso, come nel precedente citato, il protagonista era Harry Baur che conserverà, il ruolo anche nel remake londinese. Il monumentale attore nato nei sobborghi parigini, nel film di Granowsky era stato un Taras Bulba convincente e, seppur chiamato a ripetere lo stesso ruolo, in questo caso non riesce che a proporne la sbiadita copia. Ma è tutta quanta l’operazione prodotta da Alexander Korda a segnare il passo: significativo, tra l’altro, che il cineasta di origine ungherese non figuri a nessun titolo nei credits di The rebel’s son, lasciando ad altri l’ingrato compito di assumersi la paternità dell’opera. Tra questi viene segnalato spesso, come regista, lo stesso Granowsky che, per la verità, sembra essere citato solo per via delle scene riutilizzate della versione francese. La firma più significativa in calce a The rebel’s son è quella di Adrian Brunel, autore anche degli aggiustamenti voluti per questa nuova versione che differisce sia dal romanzo di Nikolaj Gogol’ che dal citato film di Granowsky. Accentuando la scelta di quest’ultima opera, The rebel’s son, come esplicitato sin dal titolo, aumenta l’importanza di Andrew, questo il nome del secondogenito nella versione inglese, a discapito proprio del padre. Purtroppo, nessuno degli interpreti scelti per The rebel son riesce a lasciare il segno: la prova in tono minore di Baur non è compensata né da Anthony Bushel –è Andrew, il “figlio del ribelle” del titolo– né tantomeno che da Roger Livesey –il primogenito, qui chiamato Peter– sono due giovanotti troppo puliti e raffinati per interpretare personaggi che, pur se educati in una scuola polacca, provengono pur sempre dalla selvaggia steppa ucraina del XVI secolo. In effetti la loro istruzione, recepita per altro in modo diverso dai due fratelli, è un elemento che sia la versione francese che il remake inglese approfondiscono un poco rispetto al romanzo di Gogol’. La pur breve sequenza di congedo alla scuola di Kiev è l’incipit del film di Granowky del 1934, relegando Taras Bulba a comparire solo dopo una decina di minuti, per quanto, in una divertente gag nella quale decapita manichini che rappresentano i nemici dei cosacchi, i tartari e i polacchi. Brunel, per la versione del 1936, utilizza proprio questa divertente scena per aprire il suo film, ristabilendo l’ordine di comparizione del romanzo, che si apre sulle parole di Taras. Ma proprio l’utilizzo di questa scena, unitamente a quella in cui Andrij/André/Andrew si cala nella cappa del camino della principessa polacca per un appuntamento galante e clandestino, lasciano intendere che il tono degli adattamenti cinematografici europei è assai più leggero rispetto a quello del romanzo. In effetti la scena in cui Andriy si introduce furtivamente nella camera della ragazza del cuore è un passaggio trascurabile, nel romanzo, che prende presto toni assai più seri.Diversamente, la scelta della produzione
cinematografica inglese riprende quella francese, dando anche un certo spazio
alle ragazze della storia: purtroppo, Patricia Roc –nel ruolo di Marina, la
principessa polacca, di cui si innamora Andrew– è graziosa ma incide tutto
sommato poco e anche Joan Gardner –la fidanzata cosacca di Peter– non riesce a
farsi ricordare. Tuttavia, a smorzare eccessivamente i toni epici della storia
–vanificando anche gli sforzi degli interpreti, che non sembrano per la verità,
molto concreti– è la deriva umoristica, davvero troppo invadente. Il testo di
Gogol’, in genere scrittore con una spiccata vena grottesco-satirica, stavolta
è poco incline all’umorismo, proteso piuttosto a creare un clima tragico-epico.
Brunel, nel suo adattamento, coglie invece ogni occasione per denigrare, o
quantomeno trattare con malcelata paternalista sufficienza, i cosacchi e i
personaggi del racconto. Il Taras Bulba del suo film è un individuo
folcloristico, e la prestazione di Baur non riesce ad elevarne il rango, i suoi
figli due bellimbusti impomatati capitati nella steppa ucraina per puro caso.
Quanto agli altri, basti prendere la figura del cosacco balbuziente,
protagonista di un paio di gag di grana piuttosto grossolana, per capire la solfa.
Un altro passaggio smaccatamente umoristico nei due film è la scena della
lettera al capo dei Tartari, che ha i toni della commedia se non del film
comico: il riferimento è storico sebbene venato di leggenda.
Durante la guerra
russo-turca del 1676, pare che i cosacchi, dopo aver sconfitto i nemici,
ricevettero la richiesta di resa da parte del sultano Mehmed IV. L’atto della stesura
della loro risposta, una sequela di coloriti insulti intrisi da velenosa
ironia, è il soggetto per due splendidi quadri di Il'ja Efimovič Repin (I
cosacchi della Zaporižžja scrivono una lettera al sultano Mehmed IV di Turchia,
1880/1891 e 1890). Seppure ci sia della simpatia, per la ribalda spavalderia
cosacca, non c’è oiu molta comprensione per la loro condizione, che, nel film
di Brunel sono perlopiù considerati come una banda di ubriaconi molesti. Del
resto la didascalia iniziale è piuttosto chiara quando dice esplicitamente che
i cosacchi non sono assolutamente disposti a smetterla con le loro scorrerie e
i saccheggi, ed è per questo che non accettano la pace e l’ordine imposti dai
polacchi. Questi, in più di un dialogo, fanno riferimento agli abitanti della
steppa ucraina come ad un branco di bambini capricciosi, pericolosi soprattutto
quando si ubriacano, cosa che accade troppo spesso. La questione dell’alcolismo
dei cosacchi emerge in modo spiazzante anche in un dialogo drammatico, durante
l’assedio al castello, una delle fasi cruciali della storia. I cosacchi sono
sul piede di guerra in quanto i polacchi hanno proibito loro di bere vodka e,
per cominciare, hanno messo sotto assedio il castello che si preparano ad
assaltare. Una notte viene catturato un soldato polacco che, spinto dalla fame,
si aggira per l’accampamento: sospettato di essere una spia, l’uomo si difende
accusando i cosacchi di affamare gli abitanti del castello, donne e bambini
compresi. La replica del cosacco è lapidaria: “e tu ti spetti che diamo il cibo
alla tua gente, dopo che ci avete negato il bere [la vodka]?” Con queste
premesse, è impossibile che il tragico epilogo ideato da Gogol’, con Taras
Bulba che uccide a sangue freddo il figlio traditore, possa reggere e, in
effetti, nel film inglese la scena non è certo memorabile. La scena con le
ombre che passano sul faccione di Baur è la stessa bella scena che funzionava simbolicamente
nel film di Granowsky ma, in questo caso, sembra un po’ estemporanea. Anche la
morte del condottiero cosacco è depotenziata rispetto al precedente francese e The
rebel’s son si chiude, sostanzialmente in modo mesto e dimesso. Nel
complesso, il film potrebbe ambire a salvarsi in qualche modo appellandosi alla
sua deriva umoristica, se non fosse che l’impressione è che sia in prevalenza di
tipo denigratorio e, quindi, più che divertente, fastidiosa.
Patricia Roc
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