1402_L'ULTIMA FRONTIERA (The Last Frontier). Stati Uniti 1955; Regia di Anthony Mann.
Interpellato in proposito di questo suo L’ultima frontiera, il
regista Anthony Mann, ebbe a dire: “Detesto questo film. […] Abbiamo fallito
perché c’era troppa gente coinvolta nell’affare […], tutti mi stavano tra i
piedi. Se il risultato è così confuso, è perché non mi hanno lasciato in pace
un solo istante”. Certo non si tratta del film migliore di Mann e il
pubblico, al tempo, se ne accorse; tuttavia c’è sempre stata una tendenza a
rivalutarlo in sede critica, anche comprensibilmente, considerato il prestigio
guadagnato con merito dal regista. Già a metà degli anni Ottanta, Alberto
Morsiani nel suo Castoro dedicato a Mann (Anthony Mann, Il Castoro Cinema
121) – volume da cui sono tratte anche le parole del cineasta citate in
precedenza – ne dava una valutazione complessivamente positiva. Impressioni volendo
anche condivisibili, sia chiaro, che L’ultima frontiera non è che faccia
schifo; tuttavia il severo giudizio del suo autore sembra più centrato per un
film che finisce quasi per infastidire per via dei grossolani passaggi
narrativi. Che sono messi addirittura in risalto dai pregi figurativi tipici di
Mann, da certe sue magistrali sequenze come quella d’apertura con l’agguato degli
indiani di Nuvola Rossa o la ricostruzione di Forte Shallan dove sarà perlopiù
ambientata la vicenda. Da applausi poi, le scene di battaglia: anche quelle
criticate dallo stesso Mann perché la polvere rendeva indistinguibile ogni
cosa. Mann asserisce che fu necessario indossare le maschere antigas per girare
questa sequenza, e non pare particolarmente entusiasta del risultato. In realtà
l’impressione è davvero realistica, anche perché la polvere, soprattutto in
ambienti come quelli dell’ovest americano, era uno degli elementi principali
delle scene di guerra anche se, in ossequio ad una spettacolarizzazione
dell’evento, spesso si era preferito contenerla. Da un punto di vista
figurativo, quindi, la mano di Mann è visibile anche ne L’ultima frontiera,
ma non basta. E’ sufficiente prendere la citata scena d’apertura, quella
dell’agguato, per comprenderlo: l’arrivo simultaneo degli indiani che sono
distribuiti sul declino erboso e, contemporaneamente, su tutta la larghezza
dello schermo, il leggero movimento di macchina a salire, preparano alla
perfezione il successivo cruciale sviluppo. Cosa faranno, ora, i tre trapper –
Cooper (Victor Mature), Gus (James Whitmore) e Mungo (Pat Hogan) – una volta
presi in trappola? Si siedono a mangiare, volgendo la schiena agli indiani,
discutendo amabilmente sulla mancanza di sale nelle loro provviste.
D’accordo
che abbiamo imparato, proprio al cinema, che mostrare noncuranza possa anche
essere una tattica quando si ha a che fare con i bellicosi nativi americani ma
l’atteggiamento dei tre cacciatori è adeguato ad una farsa. E, se potrebbe
essere un passaggio narrativo adatto ad uno spaghetti western, in un classico
– si vedano i titoli di testa, l’evocativa musica di Leigh Harlin e i colori
caldi della fotografia di William C. Mellor – crea una dissonanza difficilmente
sanabile. Ma, in questo senso, il peggio deve ancora venire. Se i suoi compagni
sono semplici e rozzi uomini dei boschi, Cooper è un vero ignorante bifolco, completamente
fuori registro rispetto al tipo di pellicola; il che è un bel problema visto il
ruolo centrale del nostro, dal momento in cui il tema dell’opera sarà il
fascino della divisa ha per un buzzurro come lui. Victor Mature si butta a
capofitto nell’interpretazione di un simile bestione, sempre ubriaco o quasi,
e, innegabilmente, ha la stoffa giusta per tratteggiarlo a dovere. Il problema
è che Cooper è un personaggio che non ha nulla di epico e il western classico è
epica pura, come già anche il titolo L’ultima frontiera lascia
intendere. Titolo di cui, forse per esprimere il disagio rispetto al risultato,
lo stesso Mann definiva “un vero fallimento” il romanzo da cui era stato
tratto. Gli interessanti temi che si intravvedono – i problemi che comporta
l’arrivo del progresso, il ruolo della donna e della famiglia, il fascino della
divisa ma le regole che essa comporta, l’arroganza dei militari americani nei
confronti dei nativi – finiscono così chiusi in una morsa letale.
Da una parte,
l’esuberanza guascona di Cooper mette tutto e tutti in ombra, si pensi a Gus e
Mungo, potenzialmente ottimi personaggi ma che, in definitiva, non sono che
fugaci comparse. D’altra la superficialità di alcuni passaggi narrativi è
ulteriormente disarmante: si prenda per esempio la sequenza in cui il nostro
buon trapper lascia il colonnello Martson (Robert Preston) in una buca per
orsi. Questa scena, a volte citata come interessante per via del dialogo tra i
due personaggi, è davvero troppo leggera per reggere in un qualunque
film, non solo in un western classico. Martson, un militare fanatico che ha
sulle spalle due clamorose sconfitte e vuole riscattarsi contro gli indiani di
Nuvola Rossa, si fa accompagnare da Cooper a spiare il campo dei pellerossa.
Una volta presa visione della cosa, i due si allontanano discutendo incuranti
di eventuali sentinelle, quando Martson finisce in una buca profonda, una trappola
per orsi. Casualmente il colonnello è il marito di Corinna (una anonima
Anne Bancroft), la donna di cui si è invaghito il trapper da quando è divenuto
scout del forte. Nonostante Corinna sia inorridita dalla rozza stoltezza di
Cooper, e non a torto, ma considerato che tra i coniugi Marson eufemisticamente
si possa dire non regni più l’armonia, in qualche modo il corteggiamento del cacciatore
un risultato lo ottiene. Ora il rozzo uomo dei boschi si trova con il rivale
fuori gioco, impossibilitato ad uscire dalla trappola per orsi.
Dopo aver
discusso per un po’ – ricordando che siamo nei pressi di un campo indiano, il
che rende la cosa un filo assurda – il trapper ricatta il militare: lo salverà
solo se darà la sua parola d’onore di pensare a difendere il forte lasciando
perdere i propositi di attacco all’accampamento di Nuvola Rossa. Un uomo tutto
d’un pezzo come Martson non può che rifiutare e Cooper lo abbandona fiondandosi
da Corinna per dirle che ora è libera. La donna, ovviamente, lo manda a quel
paese; così come il capitano Riordan (Guy Madison), che pure era in completo
disaccordo con il suo superiore ma non può certo accettare che venga lasciato
crepare in quel modo. Ma, in ossequio ad una trama davvero sconclusionata,
Riordan lascia lo scout in completa libertà; in tal modo Cooper ritorna da
Martson e lo cava dalla buca. Questi, non tira il collo al bestione né gli
spara tra le scapole, due opzioni a quel punto più che comprensibili, ma
ritorna al forte senza quasi batter ciglio, pur confessando di conoscere la
tresca amorosa del rivale con sua moglie. L’andirivieni che sorregge tutta
questa parte della trama è davvero poco digeribile in un racconto western:
Cooper trova il campo indiano e lo spia; poi ritorna al forte, e con il
colonnello si ripresenta ad ispezionare l’accampamento nemico.
Qui Martson cade
nella buca, lo scout ce lo lascia e se ne va, salvo poi tornare a riprenderlo.
Il tutto nella zona in cui stanno accampati i bellicosi indiani di Nuvola
Rossa. Questo ferruginoso e articolato passaggio narrativo ha anche una sua
ragion d’essere, se vogliamo: si cerca di mettere in evidenza l’ipocrisia della
civiltà. Corinna non sopporta più il marito e il capitano Riordan vorrebbe, per
così dire, ammutinarsi rispetto al suo superiore, ma entrambi non accettano la
scorciatoia che gli offre Cooper. Qui, per la verità, sorge anche qualche
dubbio sulla capacità autoriale di Mann, anche se duole tantissimo scriverlo.
Il ragionamento di Scout, nel cercare di cogliere l’occasione, più che funzionare
come critica all’ipocrisia della società, risulta infatti infantile. Tra
l’altro, un altro aspetto fastidioso nella trama, è proprio il modo in cui il
colonnello Martson, proveniente da un forte andato distrutto dagli indiani, si
impossessa del comando di Forte Shallan spodestando il capitano Riordan in
qualità del suo grado più elevato. Senza essere esperti in materia, appare
chiaro che, in una situazione ordinaria come la guida di un presidio militare,
non ci possano essere avvicendamenti della massima autorità in campo senza la
disposizione di ordini precisi dal comando. La questione è in parte agevolata
dalla tipica inconsistenza di Guy Madison nel ruolo del capitano, che non
oppone di fatto alcuna resistenza alla prepotenza del colonnello Martson, ma
rimane un passaggio narrativo di ingenuità disarmante. Insomma, dovunque ci si
rivolga, L’ultima frontiera sembra fare acqua. Ci sono, questo è vero,
altri passaggi pregevoli oltre quelli citati, come l’incedere di Gus spedito
incoscientemente da Martson in avanscoperta, in uno spazio aperto e sotto il
tiro degli indiani, col il solo rumore degli zoccoli del cavallo a far da
accompagnamento. Ma anche lì, che un uomo in una radura sia sotto tiro è
ovviamente plausibile; che Cooper, appostato in un altro punto, riesca con
tempestiva puntualità a localizzare proprio l’indiano che sta prendendo di mira
l’amico tra un’intera tribù in agguato, è l’ennesimo passaggio superficiale.
Carino, forse, da un punto di vista balistico; ma deprimente come credibilità.
Come L’ultima frontiera.
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