1404_MANCANZA DI OSSIGENO . Ucraina, Canada 1992; Regia di Andriy Donchyk.
Considerato uno degli iniziali esempi di cinema ucraino indipendente, Mancanza di ossigeno è forse un primo tentativo di sguardo, almeno da quelle parti, che fosse davvero svincolato dal controllo dell’autorità. Al tempo, l’Ucraina si era da poco proclamata come stato sovrano –il film di Andriy Donchyk esce nel settembre 1992, quindi giusto un paio d’anni– ma non dovette essere semplice cominciare a pensare ed agire completamente liberi. Il dominio sovietico, durato quasi settant’anni, non si dimenticava in un batter d’occhi. Temi, questi, che non servono tanto ad introdurre genericamente il film, quanto a presentarlo nello specifico. Perché, in fin della fiera, è di questo che parla Mancanza di ossigeno, come si può trovare confermato anche dall’esplicito titolo. La vicenda è ambientata in una caserma dell’esercito sovietico, in tempi di perestroika, e quindi relativamente recenti, almeno rispetto all’uscita del film di Donchyk. Protagonista è Bilyk (Taras Denisenko), un giovanissimo militare di origine ucraina che, per questo, viene fatto oggetto delle prepotenze dei commilitoni più anziani. Il fenomeno del Dedovshchina, versione sovietica del “nonnismo”, all’epoca largamente diffuso anche nelle caserme italiane, era tollerato dai superiori e riguardava peraltro tutte le nuove reclute; e anche in Mancanza di ossigeno si presenta sotto queste caratteristiche. È il fiero spirito di Bilyk ad indispettire ulteriormente i compagni più anziani: a questo punto, il suo essere ucraino –“porco nazionalista ucraino” per usare le espressioni che si ascoltano nel film– diventa un’aggravante. Koshachiy (Oleg Maslennikov), il leader della camerata, e i suoi tirapiedi, sono invece russi, e la loro prepotenza tra la truppa è usata da Donchyk per imbastire un’efficace metafora. Perché, quando il soldato bielorusso della compagnia, prova a far valere le qualità della sua terra nativa, Kochachiy lo rimette subito al suo posto, che è quello di totale asservimento, anche ideologico, alla patria centrale russa. La Russia è infatti identificata con il potere sovietico e, nel film, con la stessa istituzione dell’esercito: i maltrattamenti che subisce Bilyk, per il suo essere ucraino, rappresentano quindi il trattamento che subisce l’Ucraina in seno all’Unione Sovietica.
Tuttavia, il ragazzo, nonostante sia picchiato e vessato continuamente, non tradisce mai i compagni, rivelando al superiore l’identità di chi lo bullizza, umilia e pesta sonoramente. L’ufficiale istruttore Gamaliya (Viktor Stepanov) conosce bene le dinamiche della caserma e, cosa tutt’altro che secondaria, è ucraino pure lui: nonostante questo, Bilyk non gli confiderà mai niente. Addirittura Gamaliya gli offre un comodo posto all’ufficio postale in cambio di un controllo sulla corrispondenza dei militari ma Bilyk rifiuterà anche in questo caso di fare la spia, e il suo diniego sarà quanto mai fermo. La metafora di Donchyk, in questo caso, riguarda quelle personalità ucraine –e non furono poche, a partire da alcuni capi di stato– che, pur avendo ruoli di autorità in seno al potere centrale di Mosca, servirono la Russia, che si era identificata con l’Unione Sovietica, a danno dei compatrioti, tenuti in una condizione di sudditanza. È infatti significativo che l’unico a lamentarsi del fatto che Bilyk parli ucraino e non russo – per cogliere questa differenza, se non si è pratici, ci si deve fidare da quanto emerge dai dialoghi del film – sia proprio Gamaliya, come detto ucraino pure lui. Questa stratificazione delle autorità che soverchiano l’individuo ucraino, soggetto al dispotismo dei superiori ucraini, dei parigrado russi, dei superiori russi, in una sorta di schema simile alle matriosche, è raffigurato efficacemente da Donchyk nella scena della prigione. Bilyk, che era uscito dalla caserma di nascosto, per ingraziarsi Kochachiy e fargli la spesa nel paesino poco lontano, era stato prima sorpreso da alcuni passanti, da cui è maltrattato perché militare e perché ucraino, poi era stato “pescato” anche da Gamaliya, che lo spedisce quindi in cella di rigore.
Guardando fuori dalla piccola finestra, il militare ucraino vede prima l’intreccio dei rami, in lontananza, quasi a formare una rete. Poi il fuoco dell’obiettivo arretra, mostrando una recinzione a schermare il cielo, infine, arretrando ancora, una doppia serie di sbarre. L’individuo ucraino, nella grande Unione Sovietica, era un recluso di multipli livelli e, questa scena, oltre al titolo, lo esplicita in modo chiaro. Proprio durante la prigionia abbiamo una prima perdita di controllo di Bilyk, che reagisce in malo modo alle “avances” del compagno di cella. Tornato in libertà, finirà ancora sotto le mire di Kochachiy ormai deciso ad umiliarlo sempre più; Bilyk sembra ora in grado di sopportare le sue angherie e, questo fatto, curiosamente, esaspera più il militare russo che non quello di origine ucraina. Una situazione curiosa, che conduce poi alla forzata reazione di Bilyk che chiude il conto violentemente con il suo persecutore, ma si tratta di un moto di sopravvivenza più che di ribellione. A perdere il controllo, ad essere esasperato dalla situazione, è, per assurdo, Kochachiy e non Bilyk che, se reagisce, lo fa perché non ha alternative. Una situazione che, a livello narrativo, sembra poco plausibile, perché ci si aspetterebbe la violenta risposta del perseguito e non del perseguitatore. Ma, a distanza di trent’anni, e precisamente dopo il 24 febbraio 2022, si può cogliere la capacità profetica di Mancanza di ossigeno, considerato come la Russia abbia letteralmente perso il senno, nella scelta dell’aggressione su vasta scala all’Ucraina, dopo averne saggiato pesantemente la capacità di resistenza per decenni.
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