1403_LUXEMBOURG, LUXEMBOURG . Ucraina 2022; Regia di Antonio Lukich.
Il 24 febbraio 2022 è divenuto chiaro al mondo intero che l’Ucraina era di fronte ad un bivio. In realtà, avrebbe dovuto essere evidente già da anni, ad andar stretti dal 2014 e dai fatti di EuroMaidan ma, dal giorno dell’aggressione russa, la cosa è divenuta la notizia più importante di ogni notiziario in ogni parte del pianeta e, di conseguenza, di assoluto dominio pubblico. Un bivio prevede naturalmente due strade tra le quali scegliere ma, forse, almeno quando si utilizza il termine in chiave metaforica, anche due modi di essere arrivati sin lì. Un percorso, in parallelo o forse intrecciato, che giustifichi la doppia opzione che si para d’innanzi a noi. È forse solo un caso, ma uno dei film che meglio interpreta la situazione ucraina prima dell’ora X voluta da Putin, è proprio un’opera che lavora ed è totalmente impostata su un doppio binario. Già il titolo, Luxembourg, Luxembourg, è indicativo di questa duplice traccia, con il nome del piccolo stato europeo ripetuto due volte e che, nei manifesti principali, sembra quasi specchiarsi. Poi, al centro del racconto, ci sono due gemelli, Kolya (Amil Nasirov) e Vasya (Ramil Nasirov) e, nel film, il tema del doppio –uguale ma allo stesso tempo contrario, proprio come in uno specchio– torna costantemente. In questo senso, ad esempio, si può intendere il fatto che i due gemelli siano sì molto simili, ma, almeno stando alle parole di Kolya, lui assomigli al padre, il fratello alla madre. Il contrasto nel paragone tra i fratelli è continuo: Kolya è un mezzo delinquente e fa l’autista di autobus, Vasya è poliziotto di pattuglia ma non guida e suo suocero nemmeno si fida a prestargli l’auto. Il primo è scapolo, sebbene nel film abbozzi una mezza storiella, mentre il secondo è sposato e ha una figlia. A proposito dei famigliari dei fratelli, il regista Antonio Lukich, autore anche di sceneggiatura e soggetto, si diverte a creare con essi una serie di contrapposizioni: la famiglia di Kolya e Vasya con quella della moglie di quest’ultimo, Masha (Karina Cherchevych); i due mariti della madre dei gemelli (Nataliya Gnitiy), il padre, un serbo sparito anni addietro, e il patrigno, ma anche i due capifamiglia, ovvero quest’ultimo e il padre di Masha; e poi questa e la sua bellissima sorella (Kseniya Mishina), e via di questo passo.
A questo quasi infinito gioco di duplici incastri si sommano anche una serie di avvenimenti ripetuti, su cui si articola il racconto filmico: a cominciare dal doppio incidente, uno grave e uno molto più grave, di cui è protagonista Kolya col suo autobus. Nel secondo di questi scontri automobilistici –tragicomici, per la verità– entra in scena l’anziana Larysa Petrivna (Lyudmyla Sachenko), che andrà a raddoppiare il ruolo della madre del giovane. La donna, travolta dall’autobus di Kolya, che parte senza preavviso trascinandola rovinosamente a terra, si rompe nell’occasione non una ma tutte e due le braccia, tanto per restare nel tema del doppio. Di questa duplice natura ci sono anche le due scene nella piscina, dove il raddoppio rovesciato è ribadito, nella seconda occasione, dalla presenza dello zio Slava, un gigantesco amico di suo padre che mette in risalto l’aspetto minuto di Kolya. E due sono i saluti “sbagliati” al padre, in Lussemburgo: la storia, in effetti, prende una svolta quando il Consolato Ucraino del Granducato chiama Kolya avvisandolo che suo padre è in fin di vita. L’uomo, un serbo dedito alla malavita, aveva abbandonato la famiglia in Ucraina anni prima; Kolya, appena appresa la notizia delle gravi condizioni dell’anziano genitore, si decide subito ad andare a porgergli l’ultimo saluto. Vasya, alle prese con problemi più prosaici –un lavoro serio, da poliziotto, una figlia e moglie, quest’ultima abituata ad un altro regime di vita, il confronto impietoso col suocero e con il fidanzato di sua cognata– è invece totalmente contrario.
Così come la madre, che prova a scongiurare questa evenienza, arrivando a benedire con l’acqua santa i due figli e a spiegare, a Kolya, la “teoria delle cellule”: secondo questa concezione, dal momento che le cellule si rinnovano con una buona frequenza, l’uomo che sta morendo in Lussemburgo potrebbe non avere più nulla a che fare, almeno da un punto di vista cellulare, con il padre dei ragazzi. Teoria alquanto strampalata ma che, come in ogni commedia tragica che si rispetti, si rivelerà profetica. E sempre in tema di tragicommedia, se Kolya vorrebbe andare in Lussemburgo ma non può – è agli arresti domiciliari, per aver deliberatamente investito Larysa– e, diametralmente all’opposto, Vasya avrebbe anche facoltà di partire ma non ne ha la minima intenzione, i gemelli si mettono in viaggio. A proposito dei Nasirov, gli interpreti di Kolya e Vasya: i due sono gemelli anche nella vita reale e la loro statura minuta è un espediente utilizzato dal regista Lukich per creare gag umoristiche, si veda la scena sulla pista di pattinaggio come esempio. Si tratta di situazioni che l’autore ucraino aveva già utilizzato nel suo precedente film, I miei pensieri sono silenziosi (2019), dove i protagonisti erano la madre del regista e un ragazzo molto alto, e la differenza di altezza creava subito una deriva umoristica. A pensarci bene, anche la natura autobiografica dei primi due film di Lukich –in chiusura di Luxembourg, Luxembourg c’è una esplicita dedica al padre– crea un ulteriore doppio legame, stavolta all’interno della sua filmografia. In ogni caso, se la citata trama umoristica corre sottotraccia –in effetti il termine dramedy a volte indicato come genere della pellicola, riunisce in un’unica definizione le due anime di questo film, quella drammatica e quella più leggera– anche i dialoghi nascondono un duplice natura, che purtroppo allo spettatore non ucraino potrebbe lecitamente sfuggire. I Nasirov parlano il dialetto Surzhyk, un misto tra l’ucraino e il russo, già usato molto spesso nelle arti con effetto comico.
Però, riallacciandosi al genere dell’opera di Lukich, ovvero commedia drammatica, proprio la questione linguistica permette di comprendere la gravità della situazione pur se introdotta in chiave leggera. Una situazione che, al di là del tono scherzoso dell’opera, viene rivelata assai intricata da risolvere. Eppure, arrivati a questo punto, sarà necessario prendere una strada, tornando al bivio citato in apertura, ma le vicissitudini che ci hanno portato fin qui appaiono davvero troppo intrecciate, appiccicate le une alle altre come immagini riflesse. Forse destinate ad una rottura, per potersi risolvere. Intanto Kolya e Vasya sono giunti in Lussemburgo e, dopo la gag del parcheggio introvabile che i cittadini dell’Europa occidentale conoscono molto bene, riescono ad arrivare al letto del padre, fasciato manco fosse la mummia dei film horror. Dopo averlo accarezzato e consolato, salta fuori che questi è un vigile del fuoco che ha ustioni su tutto il corpo e per niente al mondo andava toccato. Chiarito l’equivoco, con la storia che assume toni via via sempre più farseschi, si arriva finalmente alla casa del vecchio padre, morto pochi giorni prima. Kolya, in preda ad un febbrile affetto per il genitore, arriva ad annusarne i vestiti, e costringere anche il riluttante Vasya; poi si mette la giacca del vecchio per andare in obitorio al riconoscimento del cadavere.
Che si rivelerà essere di un altro uomo: qui, quel tipo di comicità derivante dall’imbarazzo che si avverte immedesimandosi nei protagonisti che compiono qualche gaffe, raggiunge davvero un livello difficile da eguagliare. Per dovere di cronaca, il vecchio genitore è vivo e fa il benzinaio nell’ovest dell’Ucraina, proprio come aveva detto lo zio Slava, testimonianza che gli allacciamenti del copione sono ben congeniati a tutti i livelli. Pertanto, se la sceneggiatura è così accurata, è facilmente prevedibile che la polizia, indagando Kolya per i suoi pasticci giudiziari e la sua fuga dalla libertà vigilata, ne scopra anche il traffico di stupefacenti. I fratelli sono così costretti a separarsi, con Kolya che rimane in Lussemburgo e, oltre al legame con il fratello, la sua famiglia, la sua patria, va a rompere anche la coerenza interna del film, visto che la voce narrante era la sua e, in modo spiazzante, protagonista dell’epilogo è invece Vasya. Il doppio binario narrativo, la storia illustrata delle immagini e la voce-off di Kolya, si infrange quindi poco prima del finale, quando Vasya, sulla via del ritorno, incontra e riconosce il vero padre, in una stazione di servizio. Ma non lo fa capire, al vecchio signore che pure gli pulisce il vetro dell’auto, quasi a voler permettere al giovane di vedere meglio. Vasya, a quel punto, l’aveva peraltro già riconosciuto; l’anziano genitore, no, e come avrebbe potuto e, finito il suo lavoro, se ne rientra stancamente nella stazione di servizio. Guardandolo, guardando quel vecchio camminare curvo, il figlio si commuove. Non più di tanto, basta una passata con la mano per asciugarsi gli occhi appena umidi. Ma è già qualcosa, e sempre meglio di niente. Solo un piccolo istante, come i frantumi di una foglia secca di vent’anni, tenuti sul palmo, tutti insieme, per un attimo. O come una vecchia canzone sdolcinata, che fa venire la pelle d’oca anche a noi, sebbene nostro padre, di musica sentimentale bosniaca, non ne abbia mai nemmeno sentito parlare.
Kseniya Mishina
Karina Cherchevych
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