84_FUKUSHIMA: A NUCLEAR STORY . Italia, 2016; Regia di Matteo Gagliardi.
Troppo spesso si dimentica che il documentario non
è solo un prodotto televisivo, ma è anche un genere cinematografico: non che la
cosa debba per questo significare una maggior qualità solo per l’appartenenza
alla settima arte, ma una caratteristica
tipica del cinema è la completa autonomia dell’opera rispetto a tutto il resto.
Viceversa, in genere, alla televisione, i produttori devono fare i conti con il
palinsesto, gli orari, la pubblicità; insomma, la vera grande differenza non è
certo nel formato dello schermo, ma è che il prodotto televisivo nasce,
(parlando in generale, salvo eccezioni, sia chiaro), per far parte di un
contesto, mentre il cinema non ha (o non dovrebbe avere) vincoli se non quelli
che si pone l’autore. E questa autonomia del cinema non è un vezzo ma, al
contrario, è basilare: dovrebbe garantire una maggior libertà di espressione e
indipendenza al regista e ai suoi collaboratori. Perché, ad esempio, Fukushima: a nuclear story si presenta
in modo un po’ diverso rispetto ad un classico documentario di Piero Angela o
di David Attemborough. E una questione generale e non solo perché ci sono delle
ricostruzioni con disegni in stile manga o perché il protagonista, il
giornalista della rete televisiva Sky
Italia Pio d’Emilia, sembra quasi un detective di un film noir che,
attraverso la voce narrante, ci racconta il suo privilegiato (per così dire) punto di vista ai tempi
del disastro. In apparenza, proprio per il coinvolgimento diretto del
protagonista, il documentario sembra meno neutrale, più sentito, più vissuto,
rispetto ad uno televisivo, e quindi verrebbe da dire anche meno obiettivo; ma il
cinema non si arroga mai (o non dovrebbe mai farlo) la pretesa di imparzialità
(che quando si può approfondire, è spesso poi disattesa quando proclamata). Lo dice anche il manifesto di questo documentario: "Fukushima: a nuclear story un film di
Matteo Gagliardi": c’è quindi l’onestà di una persona che si prende la
responsabilità di quanto mostrato. A parte queste disquisizioni formali, e
venendo al tema del testo filmico, il disastro della centrale nucleare di
Fukushima è ben lungi dall’essere risolto, e l’impossibilità di accedere al cuore
del problema, al luogo preciso in cui il materiale radioattivo di uno dei
reattori si è fuso e ha bucato la parete inferiore della struttura, non lo permetterà
nemmeno nell’imminente futuro.
Impossibile fermare la continua fuoriuscita di acqua
contaminata nel sottosuolo, con possibili, anzi probabili, infiltrazioni nelle
falde acquifere. Non che i vapori rilasciati o l’acqua sversata nell’oceano
siano criticità secondarie: sono tutte incognite che di certo hanno solo il
fatto che siamo di fronte ad una situazione senza possibilità di riparazione
dei danni causati, per altro assai gravi e impossibili da stimare. E questo
senza rischio di passare per allarmisti: la radioattività, dei tre gravissimi
fattori (terremoto, tsunami, disastro nucleare) che ha interessato il Giappone
nel marzo del 2011, è sicuramente il peggiore, perché non avendo effetti
visibili tende a essere dimenticato o, perlomeno, messo in un angolo in
disparte, anche perché si tratta di un problema senza soluzione.
E non è enfatizzato nemmeno il paragone fatto per
il protagonista del film, il coraggioso giornalista Pio d’Emilia: egli è
davvero come un eroe dei vecchi film in bianco e nero che, nonostante la
consapevolezza dei rischi, sente il dovere di andare a vedere le cose il più
vicino possibile al luogo del disastro: fu il primo giornalista straniero a
entrare nella zona proibita e nella
centrale nucleare stessa. Il suo racconto è altamente preoccupato ma sobrio, e
non cede mai al qualunquismo, all’allarmismo o, peggio, ad un certo complottismo tanto in voga oggi. Vive da
oltre 30 anni in Giappone e con il paese
del sol levante ha un rapporto talmente radicato che può essere paragonato
a quello che si ha con la propria nazione di origine: amore, certo, ma anche
fastidio, insoddisfazione, frustrazione a fronte di quelle cose che non girano
come devono.
E nel caso del disastro della centrale atomica di
Fukushima Dai-Ichi, di cose che non sono andate per il verso giusto ce ne sono
state più d’una, se è vero che, come riconosciuto dalla ricostruzione dei
fatti, Tokyo, ma in buona sostanza l’intero Giappone, quel giorno, si salvarono
solo perché una valvola cedette. E come dice lo stesso d’Emilia, che si debba
la salvezza ad un malfunzionamento tecnico, proprio nel paese della tecnologia,
sembra paradossale. Ma, d’altronde, il paradosso sembra il tema dominante di
tutta questa storia: a partire dal fatto che la nazione che per prima ha
conosciuto sulla propria pelle gli effetti devastanti delle radiazioni, si
converta anima e corpo all’energia nucleare. E, per chiudere con un’ultima
assurda contraddizione, è incredibile che un tale cataclisma ecologico
mondiale, lo si debba ad un paese dove la gente ha un livello di civiltà, di senso
civico, elevatissimo, e che lo dimostra proprio e soprattutto nei momenti
critici. Come nel sopportare stoicamente, senza isterismi, polemiche, proteste
e lamentele, un trittico catastrofico come terremoto del nono grado della scala
Richter, tsunami con onde alte decine di metri e peggior disastro nucleare
della storia. Un disastro di proporzioni bibliche che, per la sua entità,
riguarda non solo il Giappone ma tutto il pianeta.
Ad un certo punto nel film è inquadrata una scritta su un
cartellone, sopra una strada, i cui ideogrammi giapponesi vogliono dire: ‘il nucleare illumina il nostro futuro’;
chissà perché ricorda tremendamente un'altra insegna, altrettanto ottimista, Arbeit macht frei, (il lavoro rende liberi, in tedesco). Ma la radioattività non la
puoi confinare nel filo spinato come in un lager nazista.
E il rischio è che tutto il mondo sia già uno spazio oltre quell’insegna giapponese.
curioso questo paragone che facevi con i prodotti televisivi, proprio in questi giorni in TV stanno proponendo una fiction con Sabrina Ferilli che tratta argomenti simili, un caso di polveri sottili in una fabbrica avvenuto quasi vent'anni fa...
RispondiEliminaSi, beh, mi riferivo ai documentari. Delle fiction televisive italiane non mi azzarderi a scrivere perchè sono allergico a quel tipo di linguaggio. :)
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