83_ERA MIO PADRE (Road to perdition). Stati Uniti, 2002; Regia di Sam Mendes.

La differenza, sembra dirci Mendes, non è tanto nel come, ma nella meta che ci si prefigge; il Michael Sullivan interpretato da Tom Hanks (qui credibile anche in una veste per lui inusuale) non è migliore degli altri gangster che pullulano il film. O meglio, è il migliore, ma nell’ammazzare. Il che
qualche dubbio ce lo pone su questo personaggio che, in fin della fiera, nella
pellicola incarna il protagonista di un classico film di genere americano. Ci si aspetterebbe un minimo di senso etico in
più, almeno stando ai canoni; ma Mendes non bara, su questo tema, tanto che il
figlio a domanda risponde: ‘a chi mi
chiede se Michael Sullivan era una brava persona o solo un poco di buono, io
do’ sempre la stessa risposta. Dico soltanto: era mio padre’.
Ma allora, cosa differenzia Sullivan dagli altri
gangster? Lo scopo, perché per i comuni gangster il loro era un lavoro, e un
lavoro da tramandare ai figli; per Sullivan invece era l’unico modo conosciuto
per evitare ai propri figli di ripetere la sua carriera. E sarà anche l’unico
modo ma è una strada sbagliata, è una strada per la perdizione, come recita il
titolo originale; ma è soprattutto una strada che sembra non avere alternative.
Difatti, tutta la perfezione stilistica e formale delle immagini della
pellicola ci dice proprio questo: tutto è ingabbiato in inquadrature perfette,
simmetriche, astratte, simboliche, mai niente di gratuito (che in inglese si
dice free, libero) e i quadri citati rimandano alle loro cornici, che tarpano
ogni via di fuga.
Anche le sequenze, una su tutte quelle tra il faccia a
faccia finale tra Sullivan e Rooney padre, sembrano rappresentazioni teatrali,
mancano solo i tendoni del palco a contornare la scena, con i gangster che
ballano come burattini sotto la pioggia d’acqua e di pallottole. E i
personaggi, soprattutto Michael Sullivan padre e figlio, vengono continuamente inscatolati dalle inquadrature, da uno
stipite di una porta o da un finestrino della macchina: non ci sono vie di fuga,
sembra dirci questo film, l’unica strada, è quella della perdizione. Allora la
strategia del padre, che protegge il figlio pur conducendocelo, per quella
strada, prende valore, acquista dignità, soprattutto grazie al sacrificio
finale.
Finale tragico ma liberatorio, che si annuncia con il
giovane Michael che, finalmente, sbuca dal finestrino, la macchina in corsa, il
vento in faccia a scompigliare un po’ la rigorosità delle scene. E un attimo
prima dell’epilogo, ecco di nuovo un immagine di libertà per il giovane: mentre
vediamo il padre, dietro una finestra (e quindi sempre incorniciato,
imprigionato) sul riflesso del vetro si intravvede Michael che gioca su una
spiaggia di uno specchio d’acqua tanto grande da ricordare il mare. Una
classica immagine che evoca libertà e che non è propriamente catturata dalla
macchina da presa, è solo un riflesso sfuggente: ma ci dice che, finalmente,
Michael è scampato alla rigorosità senza vie di uscita che sembrava avere il
suo futuro. In realtà, manca ancora l’ultima prova, quella più difficile, ma
Michael potrà contare fino alla fine, fino all’ultimo respiro, sull’aiuto del
padre.
Ha ragione il giovane Michael: è difficile stabilire se il suo genitore
sia stato un brav’uomo o un poco di buono.
Ma era suo padre, e lo è stato fino
in fondo.
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