89_CHINATOWN . Stati Uniti, 1974; Regia di Roman Polanski.
Lo sviluppo della storia narrata in Chinatown di Roman Polanski è
doppiamente sorprendente: il fatto che il titolo dell’opera si riferisca ad un
quartiere di una città (Los Angeles) quando poi praticamente tutto il film si svolge
fuori da questo sobborgo, lo sarebbe sempre. La sorpresa raddoppia quando a
scegliere per questa discrepanza è il regista che ci ha abituato a tante storie
ambientate e sviluppate dentro uno spazio confinato (l’appartamento in Repulsione, il castello in Per favore non mordermi sul collo, il
palazzo di Rosemary’s Baby, la villa
di Che?). Stavolta Polanski ambienta
la sua storia fuori da un ambiente circoscritto e ci tiene a rimarcarlo
sottolineandolo fin dalla scelta anomala del titolo. Chinatown non è però un luogo estraneo alla vicenda: innanzitutto
perché è lì dove la storia finisce ma è anche il luogo a cui è legato il
passato di alcuni dei protagonisti, primo fra tutti Jake Gittes (uno strepitoso
Jack Nicholson). Gittes era un poliziotto di Chinatown negli anni 30 e la corruzione diffusa e
l’impossibilità di nutrire qualche speranza di salvezza in tale ambiente aveva
spinto l’uomo a lasciare il distintivo pur di poter uscire da quell’inferno.
Una metafora che potrebbe essere buona anche per il protagonista medio dei precedenti film di Polanski: un po' come se
Rosemary potesse andarsene in tempo dal palazzo; e, in un altro piano del discorso, che potrebbe indicare un
tentativo da parte del regista polacco di andare oltre i propri orizzonti. E
Gittes ci prova, a farsi una nuova vita, facendo l’investigatore privato, un
lavoro rispettabile, e occupandosi di vicende quotidiane; forse un po’
meschine, è vero, le classiche cose da occhio
privato, corna, tradimenti, e poco più. Ma comunque legali.
La cosa gli riesce anche bene, ora veste elegante,
ha uno studio ben avviato, due collaboratori e una segretaria. Tutto gira alla
perfezione e, nei suoi vestiti fatti su misura, è l’immagine stessa di
quest’opera di Polanski: un film formalmente ineccepibile, perfettamente
calibrato e girato con sobria maestria. Ma se il dentro dei film di Polanski è l’inferno, anche fuori non è tutto oro quello che luccica: la signora Mulwray, che
si presenta per una faccenda di tradimenti coniugali, non è la vera signora
Mulwray e la questione è un po’ più complessa di una questione di corna.
C’è di mezzo un omicidio, beghe politiche per il
controllo dell’acqua, storie incestuose tra le più assurde mai sentite, gente
importante coinvolta; insomma, un ginepraio di corruzione sociale e morale da
far quasi rimpiangere Chinatown. In sostanza Gittes viene usato per creare uno scandalo che metta nei pasticci Hollis Mulwray,
un ingegnere che dirige il Dipartimento
dell’Acqua di Los Angeles e si oppone ai progetti dell’ex socio, Noah Cross
(interpretato dal regista John Huston), che è anche suo suocero. La vera
signora Mulwray è Evelyn (uno sontuosa Faye Dunaway), ed entra in seguito nella
storia, coinvolgendo Gittes nelle sue torbide vicende prima solo sessuali poi
forse anche amorose.
Gittes, che ha cominciato a indagare un po’ più a
fondo solo perché indispettito per essere stato assunto in modo strumentale, riesce
a scavare nei punti giusti, e più scava, più marcio viene a galla, più finisce
irretito dalle spire dell’intreccio e dei suoi tentacolari e polivalenti interpreti.
Il tenente Escobar, suo ex superiore ai tempi di Chinatown e che ora ha fatto
carriera, intuisce che Gittes è sempre più coinvolto, ma visto che lo conosce,
gli concede un po’ di spazio di manovra.
Insomma, la trama è architettata con cura e
Polanski dirige con rigore: l’omaggio al genere noir, alle storie di Raymond
Chandler e company, è nella confezione perfino superiore agli stessi classici
di riferimento. La precisione formale di Chinatown
è assolutamente perfetta, la storia coinvolge, avvolge e confonde. Ma dopo che
il regista polacco ci ha portato a spasso per Los Angeles e nei suoi dintorni, dalla vallata degli agrumi alla costa dove viene scaricata l’acqua delle
condotte, alla fine si scopre che quello che si cerca, la chiave di tutto è,
come al solito in Polanki, dentro.
Non viene dal mare, l’acqua salata che è stata
trovata nei polmoni di Hollis Mulwray; non è l’oceano, la sua vastità, il suo
essere esterno a tutto, ad essere il
luogo del delitto, dove si compie il male.
A casa Mulwray c’è un piccolo stagno, in cui è stata depositata dallo stesso
ingegnere dell’acqua salata: il male
ancora una volta è da ricercare dentro e non fuori. Chinatown è quindi un
film che proprio nella rigorosa attenzione nel volerci mostrare una possibile
alternativa alle consuete tematiche del mago
di Lodz, nel finale smentisce questa eventualità, rafforzando, piuttosto,
il pessimismo senza scampo che ha sempre pervaso il suo cinema.
Il finale, in modo abbastanza fortuito, almeno
stando alla trama, ci porta infine a Chinatown,
luogo che prima o poi avrebbe dovuto smettere di aleggiare sulla storia per
farsi protagonista, come il titolo dell’opera lasciava presagire. In fondo, era
già scritto sin dal principio: se un film si intitola Chinatown, e il quartiere si nomina sovente ma l’intero
lungometraggio si svolge altrove, dove si può immaginare un finale? E se una
storia narrativamente ferrea non ha ancora trovato il suo bandolo, cosa potrà
se non il caso decidere l’epilogo? E dove dovrebbe colpire la pallottola se una
donna bellissima e perfetta ha una piccola macchia nell’iride dell’occhio?
Faye Dunaway
Nessun commento:
Posta un commento