81_COLAZIONE DA TIFFANY (Breakfast at Tiffany's). Stati Uniti, 1961; Regia di Blake Edwards.
Se fino allora era stato questo suo aspetto ad
essere esaltato, si pensi a Vacanze romane
che le valse l’Oscar per la sua ingenua interpretazione priva di malizia,
oppure al guardaroba chic e alla moda di Sabrina, fino alla riuscita interpretazione di una suora in Storia di una monaca, Edwards è forse il
primo che coglie la contraddizione di fondo che l’immagine della Hepburn
veicola. Perché la figura praticamente asessuata, a cui la ragazza poteva
rispondere perfettamente coi capelli corti alla maschietto o con l’assenza di curve, era certamente l’ideale delle
esigenze censorie come anche di un certo gusto glamour, e perfino alle istanze moralistiche o femministe; ma erano tutte visioni in qualche modo ipocrite in
quanto il sesso è una componente della vita e non solo del cinema o della moda.
E l’ammiccante figura di Audrey Hepburn, tanto
bella quanto innocente, donna d’alta moda ma anche sbarazzina come un
maschietto, era infatti un’immagine ambigua, che diceva e non diceva, che
tirava il sasso e nascondeva la mano; ma poteva efficacemente essere usata
anche nella direzione opposta
rispetto a quanto fatto fin’ora. Ed ecco che Edwards ce la propone quindi come squillo di lusso, come accompagnatrice
sofisticata, e bastano solo pochi fotogrammi per far entrare questa nuova
versione di Audrey Hepburn nella storia dell’iconografia hollywoodiana su un
piano nettamente più elevato rispetto a tutte le precedenti apparizioni
dell’attrice. Per la verità l’immagine più riuscita e soprattutto più efficace
è quella del manifesto, che è un disegno che coglie tutte le potenzialità ed è
al contempo tanto superficiale (in sostanza è solo una sorta di messaggio
pubblicitario) interpretando in questo esattamente lo spirito dell’operazione
di Edwards. La superficialità è infatti il tema portante del film: evocata già
dal rimando nel titolo (Tiffany, la famosa gioielleria, che nell’opera è
contrapposta e surclassa, almeno nell’ottica proposta, la biblioteca) è
continuamente richiamata, dai tanti riflessi (nelle vetrine della gioielleria
in primis), e da tutte le grandi superfici di poco spessore, come le lenti dei grandi occhiali scuri, le tende e i separé degli
appartamenti dei due protagonisti.
E qui dovremmo dire il nome dei due personaggi,
ovvero Holly Golightly (la
Hepburn ) e l’inquilino del piano di sopra Paul Varjak (George
Peppard), sperando che siano quelli buoni visto che per tutto il film i nomi
vengono cambiati e, ad esempio, nel momento critico, quando l’uomo deve
telefonare ad un amico di Holly per cavarla dai guai, questi lo riconosce solo
quando il nostro Paul gli si presenta sotto il nome di ‘Fred bello’. Del resto ad un certo punto i
nostri si procurano delle maschere per bambini (rubandole, proprio come
ragazzini), di un cane per lui e di un gatto per lei: vi si può leggere un
riferimento all’immaturità (rimarcato poi dall’incapacità della giovane a
reggere la cattiva notizia che le verrà comunicata in seguito) e alla
superficialità per cui i due individui (ma l’attenzione è focalizzata
maggiormente su Holly che mette alla prova l’uomo su un’azione tanto infantile)
non sono che mascherine. E naturalmente
simbolo di questo superficiale modo di rapportarsi è il gatto della donna, che
è esplicitamente e volutamente lasciato senza nome.
Lo stesso comportamento non-sense della ragazza è un altro aspetto che rimarca l’estrema
frivolezza di un certo mondo, dove si fanno le cose senza un motivo specifico
se non quello di non averle mai fatte. L’inconsistenza della donna è poi
definita anche dal suo rimanere costantemente in moto, il suo spostarsi da un
luogo all’altro quando le situazioni, sviluppandosi, inevitabilmente si
complicano un po’ (il marito che arriva a reclamarla indietro in California) e
perdono la connotazione superficiale tanto cara alla ragazza. In questo senso
funziona anche la continua ripetizione della perdita delle chiavi del
portoncino del palazzo (che comporta ogni volta il coinvolgimento
dell’inquilino di origine asiatica dell’ultimo piano che, arrabbiandosi sempre
di più, permette di alleggerire il tono romantico con intermezzi umoristici).
Se quindi la
Hepburn incarna alla perfezione un ideale più moderno di
donna, meno legata al sesso, come il suo fisico nella quasi assenza di curve
evidenzia (cosa rimarcata più volte nel film stesso), la trasformazione non
sembra convincere Edwards, che nel suo racconto filmico anzi demolisce, seppure
a suon di mezzi sorrisi, la figura incarnata dell’attrice. E allora il lieto
fine, che tanto non piacque a Truman Capote, l’autore del romanzo, e che può
far storcere la bocca a coloro i quali non amano i finali sentimentali, diventa
invece il pezzo forte dell’intera opera.
Su un taxi, in direzione aeroporto, a cui si reca per imbarcarsi verso
il Brasile, Holly abbandona il fedele gatto in un vicolo sotto la pioggia
battente e respinge l’ultima offerta di Paul, che esce dalla vettura e dalla
vita della donna. Ma poi, finalmente, qualcosa si muove anche dentro la ragazza, che compie l’unica
decisione sentita del suo film:
scende anch’essa dal taxi, e sotto l’acqua corre a ritrovare l’uomo e il povero
felino. E Audrey Hepburn, sotto la pioggia scrosciante che le bagna i capelli,
il viso, i vestiti, mostra finalmente la sua fulgida, vera e sensuale bellezza.
Audrey Hepburn
un classico...
RispondiEliminail finale con il gatto è commovente :-)
hai voluto giocare con breve anticipo rispetto all'anniversario del film ;)