1_LA BESTIA UMANA (Human desire). Stati Uniti, 1954; Regia di Fritz Lang
Tratto dall’omonimo romanzo di Emile Zola, La bestia umana, un cui adattamento era stato già portato al
cinema da Jean Renoir con il suo L’angelo
del male nel 1938, viene qui riproposto da Fritz Lang che, attraverso l’obiettivo della sua magistrale macchina da presa, ne
ottiene un’opera decisamente personale e perfettamente autonoma dai suddetti
lavori. Lang è regista ormai di grandissima esperienza, in generale e nello
specifico del genere noir a cui il
film appartiene: questa enorme padronanza dei mezzi tecnici e dei codici
narrativi specifici emerge lampante dalla superba bellezza classica che La bestia umana trasuda da ogni
inquadratura. Ogni boccata di fumo di sigaretta di Jeff Warren (il bravissimo
Glenn Ford), ogni sguardo ambiguo di Vicky (l’adorabile Gloria Grahame), ma
soprattutto ogni momento speso sui dettagli meccanici, le rotaie, gli scambi,
gli ingranaggi dei treni, è girato con una pulizia formale che esalta ogni
minimo particolare della storia. La vicenda è ambientata praticamente sulla
ferrovia, essendo macchinista Jeff e capo scalo-stazione Buckley (Broderick
Crawford), che altri non è che il marito di Vicky; questo elemento,
l’ambientazione ferroviaria, non è affatto secondaria in Lang che, appunto, ne
sottolinea l’importanza con la grande attenzione dedicata agli aspetti
figurativi (i treni che sfrecciano, le rotaie, i vagoni, la locomotiva) ma
anche operativi (la scena in cui la motrice viene fatta ruotare sulla
piattaforma girevole). L’autore austriaco è stato il regista della saga dei Nibelunghi o di quella del Dottor Mabuse, per non parlare del
visionario Metropolis: nel suo
periodo tedesco egli ha spesso esaltato la figura del super-uomo, l’eroe germanico
per eccellenza. Ecco quindi che, per contrasto, in La bestia umana, film noir,
uno dei generi americani per antonomasia, al centro della scena non solo ci sia
un ferroviere, un lavoratore, ma ci sia proprio la ferrovia, il treno, un
prodigio della tecnica umana al servizio della collettività. Il che è
esattamente l’opposto rispetto ai temi evidenziati dal suo cinema prima della
sua fuga dalla Germania nazista. Naturalmente non è che Lang faccia l’apologia
dell’America, e in effetti il suo apporto al genere deputato, il western, è
minimo; ma le fondamenta democratiche del sogno
americano sono sempre ben evidenziate dal regista austriaco, al quale,
provenendo dalla Germania nazista, devono apparire importantissime. Se
l’impostazione alla base della sua opera è quindi cambiata dal suo primo
periodo, non cambiano invece i registri e le atmosfere care al regista nato a
Vienna. L’uso della luce, il gioco dei chiaroscuri, è stato una prerogativa
dell’espressionismo tedesco prima e del noir
americano poi, e ha trovato in Lang uno dei suoi massimi interpreti.
Il genere noir ha
avuto il suo apice negli anni quaranta, e nel 1954 ha ormai perso un po’
del suo abbrivio: ma ne La bestia umana
la matrice fotografica espressionista, il cui superbo bianco e nero è curato da
Burnett Guffey, ha un’eleganza formale superiore e l’appartenenza alla corrente
è riconoscibilissima. La vicenda narrata in sé è un melodramma, una storia
d’amore che vede cioè tre protagonisti; in realtà i triangoli sentimentali sono
due, che si intarsiano in modo magistrale, allo stesso modo in cui i treni
cambiano direzione sugli scambi delle rotaie. In primo luogo abbiamo
Buckley-Vicky-Owens, dove naturalmente la donna è il centro di gravità
dell’intreccio ed entra in gioco Owens, il superiore di Buckley. Se diamo un’occhiata ai nomi, potremmo ipotizzare che Owens
possiede (Owens suona in modo simile a owns,
che significa appunto possiede) Vicky
(quasi un ipotetico diminutivo di victim,
vittima, colei che è posseduta), il che manda in escandescenza, fino a
trasformare in un assassino, il di lei marito Buckley (to buckle significa, tra le altre cose, deformarsi). L’omicidio avviene sul treno, ed esattamente come in
uno scambio ferroviario, nel momento in cui Buckley uccide Owens entra in scena
Warren. E per continuare il gioco di prima, il suo nome ha due valenze, a
testimonianza ulteriore del bivio nel quale poi si troverà: innanzitutto porta
il suffisso war, e infatti è appena
tornato dalla guerra, luogo dove si ammazza per mestiere; cosa che non passa
affatto inosservata a Vicky, che di questa esperienza dell’uomo intende
usarsene per eliminare il marito. Ma letteralmente warren significa conigliera,
detta anche gabbia per conigli: e sarà in una gabbia quella in cui verrà
attirato il ferroviere dalla bella moglie del collega. Già in questa
semplicistica disamina dei personaggi possiamo notare come quelli maschili
abbiano comportamenti abbastanza lineari: Owens fa la sua parte di uomo di
potere e Buckley è destinato alla rovina sin dal principio, perché appare
chiaro che abbia fatto carriera (sia al lavoro, che in amore) nel momento in
cui gli uomini migliori erano in guerra. Il suo arrivare quasi al vertice della
piramide (pseudo)meritocratica americana, è solo frutto delle circostanze: ma
lui, da quel punto, da una buona posizione professionale e da una bella moglie,
non può che scivolare verso il basso e, in queste situazioni, emergerà la sua
indole brutale. Che potrebbe anche essere La
bestia umana del titolo, ma che probabilmente non è tanto lui, o comunque
non solo. Leggermente diversa la condizione di Jeff Warren che, essendo il
protagonista maschile del nostro noir,
come insegna il manuale del genere, è
un uomo onesto che incontra un angelo del
male (per usare le parole di Jean Renoir) che proverà a corromperlo.
E la differenza con gli altri due uomini della tresca è
nella possibilità di scelta che gli si paventa dinnanzi, esplicitata anche dal
fatto di essere un macchinista e, quindi, colui che conduce il treno. Contrariamente
alla maggior parte dei film di questo filone, Warren riesce a salvarsi per
tempo: d’altronde non siamo più negli anni quaranta, e la decade successiva stà
provando a superare l’impasse angosciante che il mondo sembrava vivere nel
periodo dominato dalla guerra mondiale. Alla dark lady irresistibile, che impersonava l’impossibilità di avere
una via di scampo, gli anni del boom propongono invece le pin-up, le ragazze
coi golfini stretti sui corpi voluttuosi. Jeff può resistere alle proposte
indecenti di Vicky (mi avrai se uccidi
mio marito) non perché questi non è credibile come femme fatale, anzi. Ma a supportare i valori morali dell’uomo (per
altro vacillanti: si convince ad uccidere il rivale, ma poi non se la sente
quando vede che questi è ubriaco) è l’alternativa offerta da Jean (Peggy
Maley), una dolce e prosperosa figlia di un altro collega. Il genio di Lang è
anche questo: capire che un genere è ormai fuori tempo e non ostinarsi a
riproporne gli stilemi in maniera vuota e ripetitiva, ma usarlo per comprendere meglio le dinamiche del passaggio epocale. Al centro di tutto questo trambusto c’è lei, Vicky, a cui
una seducente Gloria Grahame cede il volto malizioso e la sensualissima figura
intera. Negli Stati Uniti, la condizione femminile durante la seconda guerra
mondiale subì un’emancipazione enorme, e di questa ascesa nella scala
sociale dell’altra metà del cielo, se ne rese conto anche il cinema, ma con
generi diversi rispetto al noir. Nel noir la figura femminile tipica era
quella della femme fatale, ma si
trattava di una sorta di esca per il vero protagonista, che in genere era un
uomo. Il meccanismo di La bestia umana
rimane sostanzialmente questo, ma oltre al salvataggio in extremis dell’uomo,
dobbiamo anche considerare tra le novità la posizione della dark lady della vicenda. Vicky è
sicuramente la bestia umana, o,
meglio, è quella che maggiormente istiga quell’human desire che può essere definito anche la nostra parte bestiale
quando il desiderio non declina al bene ma assume derive violente o di odio.
Ma, oltre che carnefice, Vicky è anche vittima di questo gioco, perché è lei
per prima che viene indotta in tentazione: il marito, accecato dalla paura di
perdere il posto di lavoro, praticamente la costringe a tornare da Owens. E
anche il bravo Jeff, quando la vede sul treno, non approfondisce la conoscenza,
ma passa subito alle vie di fatto. A differenza di tanti altri film del genere,
Lang insiste sull’umanità di Vicky, che sebbene fonte di desiderio è anch’essa
soggetta alle stesse regole; la reticenza con cui cerca di resistere al recarsi
da Owens, oppure quando ammette di amare, non ricambiata, Jeff, sono tutti elementi
che ci dicono dell’estrema debolezza della dark
lady di questa storia. Purtroppo per lei non c’è alternativa, anche lei, come il marito, corre su binari prestabiliti: il consorte, l’uomo a cui
legalmente fa riferimento, la spinge dall’ex amante per un proprio tornaconto, ma non vuole assolutamente che lei torni a lavorare. La figura femminile è
quindi vista in tutte le sue contraddizioni: non deve essere autonoma per non
ledere la dignità del maschio, ma se accetta i compromessi del mondo maschile,
è definita una sgualdrina.
L’incipit del film è strepitoso, le immagini della corsa del
treno sostenuto dalla musica incalzante e contemporaneamente angosciante ci
prospettano una storia dalla quale fuggire non sarà per niente facile. Lo
sviluppo della trama è assolutamente impeccabile, con tutti i tasselli che
lentamente e pazientemente Lang incastra fino a disegnare la trappola nella
quale i protagonisti maschili vanno a ficcarsi: Buckley manda la moglie da
Owens a chiedere di evitargli il licenziamento, fingendo di ignorare o
ignorando opportunisticamente il passato; questi che accetta subito di incontrarla ben sapendo che è sposata;
dal canto suo anche Warren appena la vede se ne invaghisce nonostante tutti lo
sconsiglino. L’unica che agisce contro la propria volontà o è condizionata da
altri, è Vicky: prima dalle richieste del marito, poi dal ricatto della
lettera. Di contro, è anche l’unica a mentire in continuazione, perché la
matrice ambigua della dark lady le rimane del tutto riconoscibile.
A livello tecnico, praticamente tutte le inquadrature sono
di assoluto livello; alcuni passaggi sono davvero magistrali anche per l’enfasi
emotiva che trasmettono. In questo senso la mano del grande regista viennese è
riconoscibile nella scena in cui Buckley focalizza quello che è successo tra
Owens e Vicky.
La precisione formale in Lang non declina mai, e La bestia umana non fa eccezione, in una
rappresentazione fredda e superficiale: al contrario, il cinema del regista viennese
vibra di pulsazioni umane e di desiderio (Human
desire, appunto) e la sua sopraffina tecnica riesce a trasmetterle con i
mezzi tecnici propri della settima arte.
Ad esempio, l’uso sapiente e spietato del campo-controcampo durante i dialoghi
non permette a nessuno di estraniarsi da quanto mostrato dallo schermo, ma
costringe tutti a partecipare ai travagli emotivi dei personaggi. Non pensiamo
di guardare altrove, il cinema di Fritz Lang è un cinema morale, non lascia mai
via di scampo ma ci costringe sempre a fare i conti con noi stessi, la nostra
natura, i nostri desideri.
La bestia umana,
non è solo la perfidia di Vicky o la brutalià di Buckley, la bestia umana è
quella che alberga in ognuno di noi.Gloria Grahame
Ottimo film ed eccellente analisi.
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